E ora dove sono? Mi sono persa, sono finita in un quartiere dove le strade sono semibuie. Bene provo meno vergogna ad aprire la borsa e lasciarmi cadere tra le gambe che avanzano verso nessun dove le piccole turritelle che avevo raccolto all’accampamento per seminare il mio amore nel cuore di chi lo avesse meritato.
Giordano Tedoldi è uno degli scrittori più capricciosi del panorama italiano, per questo risulta essere necessario. La prosa di Tedoldi riesce a creare un fondale borghese su cui si muovono maschere perturbanti, capaci di irretire il lettore con la loro familiarità, per poi irriderlo cambiando di segno, imboccando svolte narrative inaspettate. In un certo senso la poetica di Tedoldi si configura come quella di un Moravia rovesciato, di un Houellebecq calato nel paesaggio di una Roma onirica – tanto visitata dalla tradizione letteraria e cinematografica, quanto profondamente mutata da una modernità che l’ha resa estranea anche ai suoi abitanti. Ed è proprio dai sedimenti della borghesia – abbarbicata a un ideale di eleganza ormai sorpassato – che prende le mosse anche questo ultimo romanzo di Tedoldi – Tabù, nuovo pannello della fortunata collana Tunué – un’opera che abbandona la natura umbratile della scrittura tedoldiana per risalire la vena carsica di una poetica incentrata sul desiderio. Finalmente l’autore svela le sue carte – il nucleo adamantino da cui scaturiscono le storie eversive di Io odio John Updike, Deep Lipsia e I segnalati – e indaga con coerenza la relazione fra corpo, società e sentimento. La struttura di Tabù consta di cinque parti che come cerchi concentrici allargano la narrazione e alzano la posta in gioco nella vivisezione delle dinamiche del desiderio. La storia suggerisce tranelli e doppi fondi, il lettore si perde nel labirinto orchestrato dall’autore per poi ritrovarsi di fronte il mostro che risiede in fondo alla sua psiche. La meccanica di disvelamento nel romanzo di Tedoldi somiglia a una psicanalisi stravolta compiuta con le armi della letteratura, un esperimento a cui partecipano autore e lettore. Cercherò di ripercorrere le tappe della narrazione stando attento a non svelare prematuramente i trucchi che rendono Tabù un testo misterioso, farò fede a quanto c’è di già detto nella quarta di copertina.
Nostalgia borghesia
La prima parte mette in scena il più classico dei triangoli borghesi. Piero Origo tenta di sedurre Emilia, moglie del suo migliore amico Domenico. I tre si presentano come figure di una borghesia allo sbando. Domenico è un saggista di successo e vede i suoi libri recensiti sulle maggiori testate internazionali, eppure non smette di ostentare una posa di disprezzo nei confronti della cultura, arrivando a chiamare il suo testo maggiore «autopsia del mondo». Emilia è una donna irrisolta, in competizione con il marito, un agonismo che le crea complessi di inferiorità, la sottomette alle dinamiche del maschilismo da cui – pur essendo esponente di una classe, si presume, così emancipata – non riesce a sottrarsi. Piero è dissoluto, sa benissimo di compiere il male con il suo comportamento libertino, ma non se ne cura, anzi cerca in tutti i modi di annegare la noia nel masochismo dei rapporti umani. La particolarità dell’agire di questi personaggi risiede nell’autocoscienza della loro condizione: pur consapevoli della finzione del mondo in cui si muovono, non riescono a relazionarsi diversamente. Se per Emma Bovary e Nora Helmer il dramma sta nel credere troppo nella falsa coscienza della borghesia, il dramma di Piero, Emilia e Domenico è di segno opposto: ci credono troppo poco, vivono in un universo in cui la mediocrità ha trionfato, a nulla vale elevarsi con il sapere, la cultura o la bontà d’animo. È la stessa condizione di partenza dei personaggi di Io odio John Updike, un malessere non esplicitato che deriva dal sentimento di sconfitta di una classe non più padrona del mondo.
Il senso della lotta
Nella seconda parte viene introdotto il personaggio di Marco – un amico di Piero, nonché amante di Dolly, una delle ragazze di Piero. Marco ha avuto un incidente e vive da Piero, che lo accudisce e lo schernisce allo stesso tempo. Fra i due si instaura una rapporto di odio-amore, una dialettica che può darsi solo come competizione. La dinamica servo-padrone è ambivalente: da una parte Marco ha bisogno delle cure di Piero, dall’altra Piero ha bisogno di ritrovare in Marco un rivale. Il comportamento di Piero con Marco è lo stesso di quello che intrattiene con Domenico, il significato della sua esistenza borghese è proiettare il desiderio nel proibito. Se nella competizione con Domenico si tratta di Emilia, in quella con Marco l’oggetto del contendere è Dolly. Ma se Domenico è parzialmente inconsapevole, Marco al contrario ricerca la stessa meccanica inconscia. Marco e Piero non ci concepiscono come coppia, ma come lati di un triangolo che verte verso un terzo punto – ovvero l’oggetto del desiderio – le loro conversazioni non lasciano dubbi: «A pranzo, una domenica, Marco e io ci dividiamo sul nome del terzo vertice del triangolo, lui insiste a dire che come Dolores non c’è nessuna, mi confessa che la odia, eppure pensa solo a lei come madre dei suoi figli, e io gli rispondo che non c’è niente da fare, proprio non riesco a togliermi Emilia dalla testa, dei figli non me ne frega niente, ma dietro le donne che ho frequentato dietro c’è stata, più forte, lei». Il desiderio e il consumo di esso rappresentano le uniche forme di riconoscimento di una modernità ripiegata su se stessa.
L’alternativa
La dinamica desiderante porta a un doppio movimento di progressione sulla superficie della contemporaneità – o deterritorializzazione, per usare un termine caro a Delueze – e di regressione delle relazioni umani a meccaniche archetipiche. Il focus di Tedoldi si allarga e investe la componente sociale, il desiderio diventa struttura portante di un nuovo patto collettivo. La terza parte di Tabù descrive una comune fondata da Piero, in cui si rinchiude assieme ai suoi amici. Le regole della comune prevedono rapporti sessuali in libertà, purché non si sconfini nella relazione sentimentale. Il desiderio si esplicita nudo e crudo, e si configura anche nella sua natura di mancanza, di anelito verso qualcosa di irraggiungibile: la grande assente dell’esperimento di Piero è Emilia, magnificata con una statua – un totem, come da teoria freudiana – accessibile solo agli adepti di lunga data. All’atmosfera di finta emancipazione che aleggia nel luogo si oppone la scrittura capricciosa di Tedoldi: da questo momento in poi i capitoli prenderanno il nome di “tabula”, “graffito”, “richiamo”, “onda”, per sottolineare la natura regressiva, il disvelamento del cuore segreto della sua poetica. Il primitivismo predicato da Piero e dai suoi adepti sembra la parodia delle teorie sul desiderio tanto frequentate dalla generazione sessantottina, Tedoldi ricapitola la storia del Novecento psicanalitico in una parabola nera. A prendere parte al viaggio iniziatico è Barbara – elemento esterno alla comunità che entra in contatto con il mondo non convenzionale di Piero – Barbara infatti si promette di svolgere una ricerca sull’esperimento sociale, l’ambizione etnografica verrà meno quando si contaminerà con il contesto osservato. Come Barbara, anche il lettore si lascia guidare negli anfratti più oscuri della propria psiche, l’agnizione si dà solo nel perturbante.
La violenza del sacro
È nella quarta parte che la scrittura di Tedoldi s’invola nell’onirismo e la narrazione assume i contorni sfumati di un sedimento della psiche tornato a pulsare su carta. Il resoconto della vita di Piero – della distruzione delle regole basilari della comune, per approdare a una forma ancora più minimale di primitivismo – è affidato a padre Eusebio Kuhn, un prete che raccoglie la testimonianza del libertino. Nel prosieguo del racconto sentiamo sgretolarsi le convinzioni religiose di padre Eusebio, a fronte delle esperienze perturbanti che vive attraverso l’affabulazione oscura di Piero. La dialettica fra il padre e Piero mette in relazione il desiderio con la sfera sacrale, il rituale diviene vettore per una mistica interiore che esonda dai confini dell’individuo. Al crocevia con l’antropologia di Lévi-Strauss e il freudismo digerito dalla cultura postmoderna, troviamo la macchina desiderante di Piero, un meccanismo psichico che si rifà alla filosofia di René Girard: il desiderio è il motore della competizione fra pari, dunque il propellente della progressiva affermazione della classe borghese e – a compimento del ciclo storico – la causa della sua autodistruzione. Nella sfera del desiderio non vi è alcuna forza emancipativa, Piero ne incarna il lato più oscuro, da Eusebio viene così descritto: «L’arroganza, l’incredibile arroganza. La superbia, la chiave di volta di tutti i peccati». A scombinare ulteriormente le carte ci pensa l’apparizione di Emilia, un’Emilia che finalmente si conforma al ruolo di potenza totemica. La nuova Emilia appare velata (in questa sede non si anticiperà perché), negando lo specchio del volto ella nega il polo della dialettica del desiderio. Il desiderio in assenza si trasforma in un vettore che tende all’infinito, gli amanti di Emilia errano in una geografia ignota e si scontrano con il divieto. Nella negazione del velo si dà la potenza della fantasia, la dialettica senza sintesi, il desiderio che si rivolta dall’oggetto verso il soggetto. Ne Il deserto – altra narrazione in cui il volto diviene oggetto del desiderio, un desiderio che è esplorato nella profondità della struttura edipica – Jorge Barón Biza afferma: «“Irregolarità” è una parola invidiosa, che gli impotenti scagliano contro la creazione dal basso della loro triste regolarità». Così nella particolarità della nuova Emilia Piero può trovare l’anelito superomista che rappresenta la liberazione e contemporaneamente la propria distruzione.
La sintesi
Nella prima pagina della quinta parte si legge: «Mi piace molto immaginare quale mondo tenuto per vero e reale abbiamo in testa, e quale disastro ne conseguirebbe se potessimo attualizzarlo come creazione dal nulla.», l’autore sembra suggerire che la natura del sentimento – come quella del desiderio – è artificiale, il mito della regressione è contaminato come quello dell’emancipazione. In questa ultima parte si ritorna alla norma di una stanca vita borghese, un modus vivendi con le proprie meschinità, soggiogato dalla presenza della morte che annulla il desiderio, irride la volontà di potenza, riporta l’animale uomo al piano della prosaica realtà. Piero, Emilia, Domenico, Marco, Dolly e tutti gli altri personaggi hanno compiuto il proprio ciclo, hanno attraversato l’immaginario di cui erano schiavi per ritornare alla meccanica base della relazione fra soggetto e reale. Forse non può dirsi sintesi fruttuosa, ma è l’unica sintesi che ci è data nella cultura odierna, poiché non si è ancora trovato modo di trascendere radicalmente i limiti dell’umano. Il desiderio resta uno scherzo della psiche, un ignoto con cui venire a patti: «È come l’amore: smettiamo di avere fede nelle nostre giocose illusioni quando arrivano gli altri.» L’incontro con l’altro genera il fraintendimento e salda due illusioni opposte, la dialettica fra soggetto e oggetto si gioca sull’asse del desiderio, forse uno di questi ponti è la letteratura. Tabù nella sua natura di crudele scherzo ai danni del lettore ha il merito di ricordarcelo, di lasciarci nudi a combattere contro noi stessi.