Eravamo tutti entrati nel mondo in pianto, tirati fuori dall’acqua, pesci a boccheggiare nell’aria, viscidi, unti, usciti da una sacca persa nell’oceano, usciti dalla melodia per accedere alla confusione, al clamore. Il convento di Renacavata, dove eravamo novizi, era anche quel ritorno alla pozza d’acqua primordiale, a quella vitale putredine di girini. Lì era stata estratta pietra arenaria, noi riempivamo quella cava, quel vuoto ci accoglieva come un ventre, noi pietre vive per l’edificazione di un santuario.
[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]C[/mks_dropcap]he l’esperienza del noviziato sarebbe entrata appieno nelle pagine di Emanuele Tonon si presagiva già nei lavori precedenti. Basti pensare a I circuiti celesti, dove nella celebrazione del centauro Marco Simoncelli trova spazio il ricordo di quando l’autore era «pilota ufficiale dell’Ape francescana». Ora quell’esperienza arriva in libreria con Fervore (Mondadori). Dopo ISBN e 66thand2nd, Tonon approda meritatamente a un grande editore, risultato cui si accompagna la traduzione in francese de La luce prima (uscito con Verdier).
La crescita, tuttavia, non è solo editoriale. In Fervore si nota subito un salto stilistico significativo. Gli slanci allocutori che caratterizzavano ad esempio La luce prima, con la figura materna evocata nei passaggi dalla prima alla seconda persona singolare, seguendo la «fame verticale, di cose ultime», lasciano spazio in Fervore a un «noi» che è immediatamente canto e glorificazione. Uno spazio linguistico e immaginifico che è condizione di partenza, e non vertice cercato febbrilmente.
Pregavamo nella risacca del sonno, quasi ancora dormendo, il nostro salmodiare mattutino di giovani eunuchi era tutto un ciondolare di teste. Fuori il vento, precipitando, attraversava radici, muoveva la terra, le erbe benefiche e quelle velenose, le vipere ancora sognanti […].
Già il capitolo di apertura, intitolato «Dossologia del vento» ha un andamento liturgico, giocato sull’immagine del vento che esige «la genuflessione degli steli» e propaga, come un mistero, le preghiere dei frati all’interno del convento. Il periodare, caratteristica di rilievo in tutto il romanzo, predilige una forma tendente al discorso orale e recitato: procede per accumulo e variazione, per iterazioni; il punto e virgola ha una funzione puramente ritmica, e nelle riprese sono frequenti le forme verbali, che diffondono un’aura narrativa. Ogni capitolo inizia con un tempo al plurale («Pregavamo nella risacca del sonno», «Invocavamo il nome del parto nella nostra mente ogni mattina», «Eravamo la sua gioia, il suo divertimento», «Eravate entrati nel convento», «Eravamo precipitati nella condizione angelica senza saperlo»), con l’eccezione dell’ultimo, di commiato. La seconda persona singolare, in Fervore, è una deviazione verso il ricordo più personale del noviziato, una discesa della scrittura a ripercorrere i propri passi, da «vacca» che si presta al macello in fabbrica fino all’entrata in convento:
Correvi, ogni mattina, assonnato, al macello. Eravate vacche che sconoscevano la morte, che non conoscevano i ganci cui sarebbero finite appese; la vostra fatica era ruminare il fieno in un recinto. […] Tu eri la vacca rinsavita, quella che aveva visto il gancio e aveva preso a scalciare, quella che già aveva imparato a riconoscere le mani di chi le avrebbe tirato via le feci dall’intestino dopo lo squartamento.
La dimensione corale e l’immaginario animalesco ed elementale che popola il linguaggio simbolico del romanzo si contrappongono, più per accostamento che per critica strutturata, alla visione codificata del noviziato. Sono citati stralci delle Costituzioni dei Frati minori cappuccini, i loro verbi prescrittivi e burocratici («si consegna il nostro abito religioso», «impegniamoci con tutte le forze a diventare buoni e non soltanto sembrarlo»). San Francesco, per Tonon, è «sciamano stimmatizzato», «il furioso santo che congelava il suo cazzo nella neve, che costruiva i pupazzi di neve chiamandoli figli e che si ammazzò», mentre l’insieme di pratiche che scandisce la vita nel convento è accostato metaforicamente a un teatro da inscenare, o a un copione allestito: «La nostra vita era un’invenzione caricaturale, una sublime, salvifica messinscena».
Fuori dalla messinscena, la vita è «sangue che irrora il cervello. Il cervello inventa, nella visione, il mondo. Dov’è il male, dov’è il peccato? La vipera è santa o peccatrice?». Il divino, dunque, non può che essere un traboccamento, un andare oltre quel mondo, pur amandolo, imparando ad accettare il pensiero della morte, «la suprema avventura della tua coscienza», accogliendo la visione che incendia. E la scrittura «irrorata» non concepisce il puro ricordo o il dato autobiografico come nuclei isolati: può pronunciarli solo con una voce che li trasfiguri, conducendo gli opposti mondani in visioni simboliche, ri-velando per meglio mostrare.
Frati che ruzzolano, convivialità a mensa, crisi epilettiche, effusioni ed eiaculazioni notturne, lavoro diurno, letture sacre e primi segni personali di una vocazione letteraria giudicata «vanità» dai superiori: nella celebrazione svanisce ogni gerarchia tra gli elementi, così come è difficile tracciare una fabula e un intreccio, se non attraverso scarne coordinate temporali fornite a margine del racconto; come se non vi fosse tempo, per come siamo abituati a percepirlo da moderni. È questa capacità di ricondurre la parola proferita a un’urgenza primitiva a rendere Fervore un testo notevole e unico; mutando forma inesorabilmente da immagine a immagine, come danzando, Tonon mira a squarciare la mente del lettore per farvi irrompere «la perfezione dell’inizio».
Complimenti Matteo, recensione raffinata e intrigante. Viene proprio voglia di leggere il libro!
Grazie!