Il Maureddino vide l’albero della vita, da non toccare mai per nessun motivo al mondo. Certo che no! Lo segò dalle radici con lame d’ossidiana, raccolse dodici mele mature e rosse. Con fronde e tronco fece legna da ardere. Raccolse le mele in una cesta di giunghi e le porse alla dona. La donna mangià con gusto. Anche l’uomo mangiùò ma un tocco di mela gli rimase incastrato in gola. E la donna disse Al Lup Pà U, che voleva dire: ladro.
E Dio disse alla donna: Hai mangiato dall’albero della vita disobbedendo il signore Dio tuo, ora moltiplicherò i tuoi mali e le tue gravidanze, con dolore partorirai i figli. La donna non se lo fece dire due volte, dopo dodici ore era già bella che gravida.
A pietre rovesciate è la storia di un villaggio, Nur, e di quello che vi accade nel corso dei secoli e degli anni e dei minuti, a partire dalla sua creazione, sino alla sua non detta ma probabile distruzione. Attraverso i secoli si intrecciano le vite dei suoi abitanti, che nonna Dora racconta al nipote e a Giana («l’innamorata mia»): e sono storie di regine vecchie e avare che si masturbano davanti alle telenovelas, o di giovani che pur di evitare il supplizio di un matrimonio imposto preferiscono gettarsi in un pozzo antico, di miserie e di poche, molto poche nobiltà d’animo. Il breve romanzo di Mauro Tetti (100 pagine circa) esordisce su un tono biblico, altisonante, la creazione della terra, e l’Eden… e quasi subito emerge la consapevolezza che c’è qualcosa di strano, che non solo quella non è la storia che noi conosciamo, ma che anche il registro, apparentemente così oracolare, è in realtà, più semplicemente orale.
Il primo capitolo rende abbastanza chiaro al lettore quello cui sta andando incontro. Il seguito tiene fede alle promesse. Si scopre che il racconto non viene da parola divina ma dalla voce di Nonna Dora, o meglio: dalla voce di Nonna Dora rielaborata dal narratore ragazzo. È infatti il nipote della vecchia, un bambino che non si sa quanti anni abbia realmente, a raccontare la storia, seguendo un andamento del tutto discontinuo, utilizzando una lingua che a tratti è desueta, a tratti riecheggia la Sardegna, a tratti è semplicemente una bellissima musica.
Dare la voce a un bambino è sempre un espediente narrativo proficuo, perché permette di amplificare alla massima potenza le contraddizioni e le crudeltà della società: in questo caso il gioco riesce particolarmente bene, anche perché l’età effettiva del protagonista sembra essere alquanto diversa da quella mentale. Alle storie raccontate dalla nonna Dora, storie in cui si mescolano la leggenda e la diceria, si aggiungono quelle raccontate dallo stesso protagonista, che sono le storie del paese – un continuo non detto, è una narrazione in levare, ma niente affatto lieve: anzi, colpisce fortissima la frizione tra la voce trasognata del narratore e la violenza crudele delle storie che questi ascolta e riferisce, la cantilena amara delle perdite e la conta delle cose. Perso in quello che solo apparentemente è un mondo lontano da noi, il villaggio di Nur «che significa: pietra preziosa» è in realtà un luogo assolutamente contemporaneo, trasfigurato solo dagli occhi del narratore, ragazzino capace di trasfigurare la realtà, giovane uomo che crede di poter acchiappare il sole e il vento e le fate per regalarle a Giana. O forse no: ma non è molto importante capire quando avvengono i fatti che vengono raccontati, così come non è importante capire se sono veri o no. Anche perché, spesso e volentieri, verità e mito si intrecciano inestricabilmente, come nel caso di Giana.
Forse la storia di Giana, tra tutte, è la più tremenda. Un racconto che si disvela gradualmente, un indizio per capitolo fino alla risoluzione, e ci mostra quella che dapprima sembrava una bambina (forse un po’ lenta? Forse è solo il narratore che ce la racconta così?) comunque una bambina brutta, che pian piano diventa ragazza e forse, quasi, donna, e cresce nella povertà e probabilmente nell’alcolismo, e sono tutte supposizioni perché il ragazzo innamorato dell’amore suo parla solo per accenni. Tra accenni alla grassezza e accenni alla pancia da birra, e ai seni, e a una femminilità forse un po’ ferina di Giana emerge, fin dalle descrizioni di quando erano piccoli, una disperazione intermittente, una tristezza per curare la quale il ragazzo non esita a saltare da un tetto, rompersi una caviglia e continuare a correre per catturare un po’ di vento e far felice l’innamorata sua. Fallendo, ovviamente: Giana è destinata a soffrire e la sua fine – perché Giana non è solo l’innamorata, Giana è anche «quella che è morta»– è in qualche modo speculare a quella di Cristina Passiu, la ragazza che scelse il pozzo al matrimonio impostole.
A pietre rovesciate è un libro corto ma densissimo, è pieno di racconti che si riecheggiano e si intrecciano, a ogni capitolo si scopre un indizio del successivo e al tempo stesso sembra di far sempre un passo indietro, indietro nel tempo e poi di nuovo avanti. Un libro che procede per parabole e per simboli: questo la copertina ce lo ricorda ogni volta che si prende in mano il volume. Perché – come in tutte le copertine Tunué, finora – l’immagine rappresentata in copertina, proprio come i racconti del libro, si rivela lentamente, e quello che dapprima sembrava solo un gioco di simboli grigi (un cerchio, una linea, un triangolo) sullo sfondo di un ocra solare si rivela come una rappresentazione esatta della storia, di tutte le storie che Mauro Tetti racconta.
È una spirale discendente, questo libro, e come tale potrebbe non terminare mai: eppure finisce, finisce con un sogno o una fantasia, o forse una storia vera, la storia di un ragazzo che corre e si addentra nel bosco per cercare fate per la sua amata e fallisce, e quando torna il suo mondo è scomparso e lui sente le orecchie fischiare e si sente svenire, e si immagina la nonna che racconta storie e quel fischio forse potrebbe essere la prima bomba all’idrogeno di Nur.
Ama i libri, la fotografia, le serie tv e i film della Marvel. Vive a Firenze, dove ha organizzato il festival Firenze RiVista e ogni tanto presenta un libro.
È fondatrice e redattrice della rivista culturale 404: file not found, collabora con la rivista cartacea con.tempo, ha scritto su Abbiamo Le Prove. Ha un alter ego, Giorgeliot, che si diverte a raccontare i fatti suoi.
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