Sono usciti i nuovi corsiny!

Ai margini dell’orrore: Voglio il tuo cuore e La casa dei pulcini di Jioke

Scritto da

Gaia Facchetti

Pubblicato il

23 Aprile 2025
Copertina doppia recensione libri
« Torna al blog

L’horror non esplora soltanto demoni, fantasmi, mostri ed entità antiche – anzi. 

Perdita, isolamento, follia, decadimento fisico, tradimento, l’essere diversi: questi sono i veri temi dell’orrore, anche se a volte vengono nascosti sotto una patina di sovrannaturale. 

Non è il caso delle opere di JioKe

Quando lo scorso maggio ho acquistato La casa dei pulcini e Voglio il tuo cuore sapevo benissimo cosa stavo facendo: avevo da poco scoperto Giovanni dell’Oro online e sentivo il bisogno di leggere altro, al di là delle tavole postate sui social… Anche se – o forse proprio per quello – passo il tempo a inveire contro le storie che crea

Appartengo a quella parte della specie che vuole che la storia sia “un’ascia per rompere il mare di ghiaccio che è dentro di noi” (cit. Kafka) meglio ancora se l’ascia arriva in velocità a frantumare i denti.
Sono allegra? Leggiamo qualcosa di drammatico!
Sono arrabbiata? Mi sfogo con qualcosa di tragico!
Sono triste? Annegatemi di angst. 

Qualsiasi momento è giusto per l’orrore. E dato che, poi, ogni occasione è buona per un buon fumetto, si capisce che non esiste un momento sbagliato per recuperare queste chicche. 

Le trame

Per una volta, tratte direttamente dal sito dell’editore e senza spoiler: 

La casa dei pulcini
Due bambini vivono con la mamma a contatto con la natura, nell’atmosfera fiabesca e fatata di una casa in mezzo al bosco. Ma la curiosità dei bimbi di visitare la città, sfidando il severissimo divieto da parte della madre, sta per condurli verso un confronto drammatico e violento contro il loro stesso, misterioso passato. Un racconto crudo che colpisce anche per l’ispirato stile di disegno, con le radici nell’estetica horror del manga e della scena indie

Voglio il tuo cuore
La periferia è un luogo di depositi, dove i resti di vite danneggiate si sedimentano tra le carcasse di palazzoni cadenti. In questo soffocante oceano di cemento armato, due vite disperate cercano di non affogare: Martina, studentessa delle scuole medie schiacciata da una famiglia disfunzionale, e Umberto, spacciatore trentenne che si arrabatta come può per sopravvivere. Il rapporto che nasce fra loro è un edificio pericolante, che oscilla in bilico fra innocenza e desiderio, morbosità e manipolazione, amore e disprezzo.

Ciascuno dei due vede nell’altro un’opportunità di fuga dalla propria esistenza squallida e disperata, come se questo fosse davvero possibile. Ma quando sul corpo di lei iniziano a comparire dei lividi, qualcosa cambia in maniera definitiva e la loro storia degenera in un tragico finale di violenza e paranoia, verso la più scioccante dimostrazione di ciò che l’animale umano è in grado di fare per ciò che chiama amore.

I bordi

Il bosco da un lato, la periferia dall’altro. E, nelle tavole disponibili sui social, ferrovie, città bombardate, camere nella penombra… 

Le ambientazioni di JioKe sono spazi di transizione che riflettono l’ambiguità della storia e i conflitti interiori e sociali dei personaggi – e con loro, anche di chi legge. Sono luoghi di confine che rappresentano zone di passaggio tra mondi opposti: noto e ignoto, attenzione ed emarginazione, sicurezza e pericolo (ma dove sta la prima e dove il secondo?). 

In una parola, sono liminali: zone intermedie che non appartengono completamente a nessuna delle dimensioni che delimitano, ma esistono in una condizione sospesa, precaria, dove tutto è incerto, le regole si allentano e chiunque può mentire. Persino chi ci sta raccontando la storia.  

Inoltre, ci parlano a un livello istintivo che non c’è quasi bisogno di spiegare: la periferia è da un secolo scenario d’elezione per la rappresentazione dell’esclusione e della perdita di identità, un gigantesco non-luogo composto da più piccoli non-luoghi, come intesi da Augé: spazi che non hanno una storia o una identità, rendendo difficile una reale interazione sociale o un senso di appartenenza. Non-luoghi dove chiunque è un anonimo, disposto a qualsiasi cosa per trovare riconoscimento, accettazione, libertà. Martina e Umberto si incontrano in questi spazi dello stesso colore della loro relazione, sospesa fra amicizia, desiderio di protezione e una sessualità che appare tutto fuorché innocente, dove qualcuno è manipolato e qualcun altro manipola. Dare per scontato chi faccia cosa, fra il piccolo criminale trentenne e la ragazzina vittima di bullismo – e violenza domestica? – potrebbe rivelarsi avventato. 

E poi il bosco, luogo liminale per eccellenza, teatro di trasformazioni e mistificazioni dai miti alla narrativa moderna, passando per le fiabe, dove la persona protagonista a compie quei “riti di passaggio” necessari per arrivare all’età adulta o evolversi in qualcosa di diverso da chi era quando ha mosso i primi passi fra gli alberi. Tommy e Diego sono un perfetto esempio: soli in una casetta sperduta, assieme a una madre apprensiva che li tiene lontani dal resto dell’umanità, incarnano la grata sia l’accettazione dello status quo sia la smania di seguire la propria curiosità e superare il limite imposto. Sarà il secondo – Diego – a sfidare il divieto di uscire dal giardino, inoltrandosi nell’ignoto e scoprendo… altri bambini. Come lui. Con cui giocare. E per un periodo tutto sembra filare liscio, finché… 

Accadranno cose. E chiunque si sarà inoltrato oltre il conosciuto e tra gli alberi – i fratellini, la mamma, il gruppo di amici – ne uscirà, alla fine della storia, cambiato. Come chiunque stia leggendo. 

Insomma, per quanto li si possa erroneamente considerare come elementi secondari, gli ambienti sono dei veri e propri protagonisti e non dei meri sfondi in cui si svolge l’azione: ogni distanza, ogni silenzio, rende più tangibile quanto si sta raccontando, pericolosamente simile a una realtà che spesso si preferirebbe non riconoscere.

Redenzione? Si mangia?

Abbiamo parlato degli spazi, adesso tocca alle persone.

Come immagino si sarà intuito, entrambe le storie sono inquietanti e rendono chiaro fin da subito che qualcosa di tremendamente sbagliato è avvenuto, prima dei fatti che stiamo leggendo, e che qualcosa di peggiore stia per succedere. 

Sono piccoli gesti o dialoghi dissonanti a lasciarcelo capire: una madre che non si preoccupa di lasciare due bambini in casa da soli per tutto il giorno, impegnati nelle faccende domestiche, ma con un’ansia sproporzionata all’idea che conoscano il mondo fuori dal recinto del loro giardino. E se uno dei due è insofferente alla restrizione, l’altro accetta di buon grado, anzi, collabora con la madre contro il fratello. Cosa può essere successo per renderli così? E cosa succederà quando – è inevitabile e lo sappiamo fin dall’inizio, Barbablu ce lo insegna – la curiosità avrà la meglio? Basterà l’amore – ce n’è? – a risolvere il tutto?

E poi Martina, una diversa, troppo matura per la sua età, troppo autodistruttiva, con problemi familiari che vanno a braccetto con il bullismo subìto a scuola – come è successo, perché nessuno interviene? E perché Umberto si affeziona a questa bambina, ha qualcosa di losco o ha solo riconosciuto un’altra anima persa nel cemento? 

Uso affezione, uso amore, perché quello che accomuna tutti – oltre all’essere “ai bordi” – è essere mossi da questi sentimenti… o, quanto meno, la convinzione di esserlo

Sta a chi legge valutare quanto ci sia di reale e quanto no, quanto i personaggi meritino quello che accade loro.  

E qui entra in gioco il dono dell’autore per trattare con naturalezza tematiche pesanti, pesantissime, lasciando scivolare la disperazione e l’orrore senza far trapelare un giudizio, senza cadere in quella pornografia del dolore che oggi affolla organi di informazione che dovrebbero essere teoricamente imparziali. 

I personaggi picchiano? Disubbidiscono? Nascondono? Mentono? Bene tutto, procediamo con la storia. Il che da un lato non condanna chi fa il male, ma non salva, né condona, a chi fa il bene. Anzi: non c’è nulla che venga davvero condonato e ogni piccolo sbaglio costa sangue. 

Mi ha ricordato tantissimo la neutralità dell’Infanta Imperatrice ne La storia infinita: chiunque merita di raccontare la sua storia. Anche il più bieco dei criminali.  

Però, ecco, che questa assenza di critica non inganni: non significa ci sia un lieto fine.

La storia, così come il tratto con cui è disegnata, non è mai dolce, non fa sconti. E chiunque resti lo fa guardandosi le spalle, perché non basta essere vivi e aver raggiunto il proprio obiettivo per essere salvi. 

Il tratto

Farmi parlare dell’aspetto grafico è un po’ come chiedermi di parlare di astrofisica. 

Non è il mio, grazie, davvero. 

Eppure, è impossibile scollegare la storia dal come viene raccontata, dai tagli delle vignette che ricordano certi claustrofobici primi piani da film slasher o dal modo (apparentemente) grezzo e approssimativo con cui tutto è tratteggiato – con tratti ben marcati, linee sporche, contrasti netti. Uno stile di disegno crudo, che mi ha ricordato una via di mezzo fra il graffiato delle litografie e i disegni rabbiosi dei bambini che buttano sul foglio qualsiasi forte emozione stiano provando. Ecco, è emotivamente intenso e il bianco e nero, coi suoi contrasti, mi fa pensare all’illuminazione drammatica dei film senza colore. E se nelle due opere commentate ci sono anche i dialoghi a portare avanti l’azione, spesso nei “corti” online non ci sono parole – solo immagini. Ma bastano. Bastano davvero.  

Qualcosa che non va

Critiche? Non necessariamente. Si tratta di volumi brevi, che giocoforza non hanno spazio per un grande arco di crescita ma – come tutti gli ottimi racconti – suggeriscono abbastanza, senza dilungarsi, prima di mirare al centro del bersaglio

Solo che… non sorprendono. Sarà che la vostra lettrice è un filino cinica, sarà che – come dicevo nelle premesse – mastico e consumo molto orrore, ma son bastate poche tavole per cominciare a notare la strada di bricioline che conduce alla casa della strega, ad anticipare le svolte. 

Ma, come dicevo, personalmente non lo ritengo un difetto: se volessi la sorpresa a tutti i costi, non leggerei saggistica storica o prodotti true crime. E mi piace poter dire a fine libro “Ah ah, ci avevo preso”! E in realtà un po’ di sorpresa c’è, perché è molto difficile capire dove si fermerà l’autore nella sua opera di scavo all’interno del buio degli esseri umani. 

Concludendo

Lo dicevo all’inizio: l’horror non è solo una questione di mostri o fantasmi, ma un modo per riflettere sulle fragilità umane, sulle contraddizioni della realtà e sulle paure più recondite che affliggono ognuno di noi. Volendo essere sintetici, è quel genere che ci costringe a confrontarci con l’ignoto, sia esso esterno o interno.
In questo contesto, l’approccio di JioKe è particolarmente efficace: il suo modo di esplorare l’orrore rende le sue opere non solo avvincenti dal punto di vista narrativo, ma anche significative per le loro implicazioni sociali e per le riflessioni a cui portano – anche perché al netto di alcune prevedibilità, l’autore continua a sorprendere con la profondità e la crudeltà delle esperienze umane che affronta. Quindi, leggetelo.

E seguitelo online. Davvero. 

L'articolo è stato scritto da

E tu cosa ne pensi?

Torna al blog
>