“Mi sono divertito a scrivere questi racconti”.
È quello che dice Salvatore nelle note iniziali della sua antologia.
Ed è una osservazione davvero banale, cielo… così tanto che mi ha bloccata e mi son trovata a pensarci e ripensarci. Era da tantissimo che non sentivo – leggevo – qualcuno riferirsi alla propria scrittura come a un divertimento. Chiunque frequenti scrittrici, scrittori e gruppi online si abitua presto a leggere sempre le stesse cose: come vendere, come farsi leggere, come gestire tutto il contorno della scrittura. E poi a trovare ansia per la promozione, tristezza per i rendiconti, rabbia per chi usa gli LLM (le IA), rabbia per chi non accetta gli LLM, stizza per il mancato riconoscimento della propria Grande Capacità Autoriale, sdegno per la gente che osa criticare l’oculata scelta dell’editoria a pagamento (qua sono sarcastica)…
Un crogiolo di negatività.
Viene da chiedersi chi glielo faccia fare, di buttarsi in questo carnaio.
Poi, ecco, la risposta banale: perché qualcuno ancora si diverte. Per qualcuno è ancora è una passione (sappiamo l’etimologia, no? Che significa dolore, prima che amore intenso?).
Perché siamo fatti di storie e siamo nati, come specie, quando abbiamo iniziato a raccontarci storie d’amore, morte e paura mentre ci spulciavamo il pelo, illuminati dalle braci, tendendo l’orecchio ai predatori all’esterno.
E amore e morte si trovano in questi racconti, anzi, di fatto micro-racconti, spesso lunghi un paio di pagine e nulla più. Soprattutto morte, a ben guardare. Pure sanguinolenta. Mica male per una antologia che si intitola “Uno sguardo delicato sul mondo”, ah?
Di primo acchito non ho trovato un filo rosso che li legasse: non lo stile, non l’argomento generale. E non la lunghezza: certi sono dialoghi brevissimi, incapsulati lì senza un prima o un dopo, altri sono preamboli più lunghi che si raccolgono attorno al plot twist finale. Non tutti finiscono bene, non tutti finiscono male…
Poi ho capito che il filo c’era ed era la fragilità, la vulnerabilità delle persone, unite all’estrema contemporaneità dei fatti narrati. Sono microscopici spaccati (lo so, il termine è abusato) di cose che potrebbero star avvenendo proprio adesso, mentre leggete. Ci sono malattie, figli delusi e l’hikikomori che si rende conto di dover chiedere aiuto; la violenza di genere e la vendetta, la vecchiaia che apre nuove strade o fa calare il sipario su quanto si amava.
Ci sono influencer che farebbero di tutto per l’adorazione di qualche milione di sconosciuti, criminali dentro il carcere e appena usciti, giovani che imparano ad amarsi, immigrati alla deriva.
L’uomo che tradisce il proprio amore, forse considerandolo già perso per la droga, dove lo mettiamo? Morte o amore? E l’anziano morente, vedovo, che ancora parla alla donna che ama? E il reporter di guerra che pensa a Instagram e palloncini?
Insomma, un concentrato della nostra epoca che, nonostante la brevità dei racconti, riesce a offrire uno sguardo attento sulle sfaccettature della condizione umana e sul confronto con i propri limiti, con il proprio dolore.
Il mio preferito? Probabilmente “Mi sei venuto a prendere a scuola”. Ho la fortuna di avere genitori relativamente giovani e in salute, però…
Però.
“Ma allora Gaia, pofferbacco, perché non sono quattro o cinque stelle?”, sento chiedere dalla platea.
Perché io non sono delicata. E i temi che sfiora questa antologia li avrei preferiti approfonditi, mantenendo la forma del racconto, eh, mica romanzi, e trasformati in quell’ascia nel mare gelato dentro di me, o – per non citare sempre Kafka, ma un più popolare Deaver – al proiettile di un cecchino: rapido e scioccante. Ma per scioccare non puoi carezzare.
Si tratta, ovviamente, di qualcosa di molto soggettivo che non mi permette di dire che il libro mi sia davvero piaciuto al 100%: riconosco, però, il merito di saper trattare anche la materia più cruda e reale con uno sguardo lieve. Non è qualcosa di comune.
Oggi tendiamo a una sempre maggiore spettacolarizzazione e glorificazione del dolore e la narrativa bianca italiana non è da meno.
Ecco: questa antologia cerca di portarsi lontano dal solco del solito romanzo in cui bambini muoiono per spingere il lettore a profonde riflessioni, prima che l’impellente bisogno di acquistare l’ennesima cagata su Shein agisca come una spugna su quanto letto.
Non ti sbatte in faccia la tragedia, la morte. Ma ti ricorda che queste cose esistono, che per quanto non ci tocchino (ancora?) sono possibilità che possiamo vivere, o potremo vivere.
… ok, e forse, un pochino, non mi sono piaciute alcune situazioni american-sounding, con anche dollari e stivaloni, ma nomi italiani. Mi son rimaste un po’ indigeste.
Il mio consiglio è di leggere questi racconti – va bene, il mio consiglio è sempre di leggere racconti. Che c’è bisogno di narrativa breve.
Ma adesso leggete questi. Perché leggerne è un po’ come “sedersi insieme per raccontarsi storie all’ora del tramonto”. E cosa c’è di più bello che raccontare e raccontarsi storie?