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La vita profonda è il romanzo di esordio di Martina Faedda, edito da Edizioni nottetempo e pubblicato per la prima volta lo scorso 15 luglio. Attivista e scrittrice con una laurea in Contemporary Humanities alla Scuola Holden e un master in Writing & Visual Storytelling allo IAAD, questo suo primo romanzo sembra il risultato naturale di una carriera votata alla letteratura e alla scrittura.

Il libro è bello già quando lo tenete in mano: snello, verde acqua, il profilo sbiadito e sfumato di una ragazza con gli occhi da cerbiatto disorientato, il titolo che promette una storia profonda che vi terrà incollati alle pagine, scomodi sulla vostra poltrona e pronti a divorarlo in un boccone. In fondo, sono solo 156 pagine, che sarà mai, no?

Ma come dicono gli anglosassoni, first things first.

Trama de La vita profonda

Olivia è una ragazza con due papà.

“Ma come, di nuovo i gheis?”

No, la sua non è una amorevole famiglia arcobaleno, bensì una casa spezzata in due, dove il collante, l’unica cosa in comune tra i suoi padri, è proprio lei. 

Il cuore della nuova casa di Torino, dove si trasferiscono tutt’e tre all’inizio del romanzo, è la sua stanza da letto, che collega le estremità di questo insolito nucleo famigliare, in cui Olivia vive divisa tra i suoi genitori: da una parte c’è Gioele, padre biologico inflessibile e con un lavoro noioso, dall’altra Vittorio, compagno della sua defunta madre, agente immobiliare di professione e brioso amante della montagna.

La contrapposizione tra le personalità dei suoi padri è un vento impetuoso che la fa oscillare come una barchetta in balia delle correnti; loro sono due, mentre lei è una, per quanto cerchi di farsi in schegge di vetro per riflettere l’immagine di due ragazze diverse così da soddisfare le aspettative di entrambi.

A Torino, per la prima volta, Olivia sembra trovare la sua dimensione, pur con tutti i problemi radicati nella sua infanzia frammentata. Conosce dei nuovi amici (i gemelli Clara e Lele) e comincia a vivere lo spettro di una vita normale, da diciottenne qualunque. 

Quando sembra che le cose possano aggiustarsi, a Vittorio viene diagnosticato un male incurabile e fulminante, che minaccia di sbilanciare di nuovo l’esistenza della protagonista. I suoi due papà, a breve, si ridurranno a uno, Gioele, quello che l’ha fatta sentire sempre piccola ma non abbastanza piccola.

Al suo senso di inadeguatezza e di costante terrore, che si manifestano nei tagli che la protagonista si incide nella carne, si unisce un rifiuto rinnovato per il suo stesso corpo; se finora ha cercato di tagliuzzarlo e vivisezionarlo, quando Vittorio si ammala cambia rotta e inizia a ridurlo, mangiando ogni giorno di meno, con la convinzione di potersi fare minuscola per lasciare più spazio al padre moribondo.

Meno spazio occupa nel mondo, più ce n’è per Vittorio, che si barcamena tra la vita e la morte come un equilibrista.

Il male gaze che ti divora da dentro

Il tema principale di questo romanzo è quello dei disturbi alimentari. Sì, c’è l’anticipazione di un possibile lutto e la sua elaborazione, la difficoltà di vivere in un nucleo famigliare diviso, la mancanza di una madre, ma tutto concorre a portarci nella mente di una ragazza flagellata dallo sguardo maschile, dalle aspettative di un mondo radicalmente patriarcale dove “magro è bello”… o, per essere più precisi, “magra è bello”.

Fin dalle prime pagine sappiamo che Gioele, padre biologico di Olivia, è quello che oggi l’internet definirebbe un “uomo cis-etero basico”. 

È lui a inculcarle nei primi anni di vita la convinzione che la magrezza sia l’unico modo per piacere agli uomini (senza tra l’altro porsi l’annosa domanda: ma a Olivia piaceranno gli uomini?) e per risultare bella allo sguardo maschile.

Stai dritta ché ti vengono le tette tristi. Se non fai sport non sviluppi i muscoli della schiena e diventi gobba, agli uomini non piacciono le tette cadenti. Agli uomini piacciono le donne in forma.

La maglia stretta non ti sta bene, senza addominali. Per avere gli addominali devi sudare, suda.

L’ananas brucia calorie, l’ananas ha le stesse calorie della mela, novanta.

La frutta però è tutta zucchero, mangia le verdure che fanno bene, ma non condirle.

Se mangi il prosciutto ti viene la cellulite, mangia la fesa di tacchino che è più sana, il crudo ha il doppio delle calorie, la fesa ha solo proteine magre. Il salame fa venire i brufoli, poi chi ti viene dietro se sei piena di brufoli?

Devi stare attenta, ché poi quando ti viene il menarca non dimagrisci più. Le donne con gli ormoni ingrassano, devono essere magre da bambine, vedrai quando ti verrà il primo ciclo: piangerai per perdere qualche chilo. Col ciclo ti gonfi.

Devi essere magra.

Più magra.

Suda.

Devi sudare per diventare magra.

Più magra.

I suoi insegnamenti, o meglio, le sue critiche, accompagnano la protagonista dalle prime pagine e pian piano iniziano a scavarne il corpo (tra l’altro perfettamente normopeso, se anche essere sovrappeso fosse un delitto) e la mente, spingendola nel baratro dei disturbi alimentari senza neanche rendersene conto, con la banalità di cui è capace il male.

La vita profonda è una lettura scomoda, non c’è dubbio

Soprattutto quando si è sempre in bilico tra il pre e post estate. Prima la frenetica preparazione per la fatidica prova costume, e poi l’urgenza di tornare in palestra per l’anno dopo, pena sentirsi a disagio all’idea di andare in spiaggia, farsi vedere pallide e con la cellulite, provate da mesi di diete spesso fallimentari e dall’immagine che il web ci restituisce di corpi scolpiti e abbronzati tutto l’anno.

“Posso mangiare tutto quello che voglio e non ingrasso mai, è la mia costituzione”, oppure “Non vado in palestra, sono così di natura”, o anche “Se vuoi, puoi, non essere pigra, vai subito a fare una corsetta”.

Siamo immerse in una società patriarcale estremamente grassofobica, che pretende dalle donne una performance perfetta 365 giorni all’anno, corpi lisci e profumati, la piega perfetta, vestiti “adatti” alla loro fisicità e mai troppo volgari o troppo casti… pena l’esclusione dalla categoria femminile, non di meno. Perché se tutto gira attorno al male gaze, a come veniamo percepite dagli uomini, il nostro valore si basa proprio sullo sguardo e su quello che riesce a catturare: l’esterno, mai l’interno. Se siamo belle, siamo valide. E se bello è magro, l’equazione è completa e distruttiva.

Il romanzo d’esordio di Martina Faedda parla di affetti, famiglie, lutti, ma più di tutto parla di come il corpo femminile sia sempre stato al centro dell’attenzione pubblica (e privata, perché il parente che ti dice Non metterti quei pantaloncini che non ti stanno bene è dolorosamente familiare) e di come esistiamo in funzione dello spazio fisico che occupiamo nel mondo, non per quello che siamo dentro, la nostra vita profonda, ma per come appariamo.

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