Liliana Segre è una dei 25 bambini sotto i 14 anni che sono tornati da Auschwitz, scampando alle camere a gas per quello che lei stessa definisce un caso.
Doveva finire nel gruppo delle donne e bambini destinati alle docce appena giunta a Birkenau, la sezione femminile di Auschwitz. I tedeschi quel giorno ne salvarono 31, tra i nuovi arrivi, i nuovi pezzi (stuck, così li chiamano e li numerano, i tedeschi. Non sono più persone. Sono cose senz’anima) che non erano buoni per lavorare.
Liliana era sempre stata una bambina che faceva le cose come diceva lei. E invece di restare con la famiglia a cui l’aveva affidata papà Alberto al momento della separazione, si era mossa da sola. Uno di quei casi in cui fare di testa propria diventa la cosa migliore. Perché la famiglia a cui era stata affidata finì tutta insieme alle docce.
Fa un certo effetto, leggere questo libro di poche pagine. Perché è un libro di poche pagine essenziali.
Racconta un prima, una vita serena a modo suo, per quanto possa essere serena la vita di una bambina che cresce senza madre. Non lo sapevo, ma Liliana Segre era orfana di madre da quando aveva pochi mesi. Però aveva un padre. E dei nonni. Una balia molto amata che improvvisamente un giorno sparisce perché vuole una famiglia e dei figli suoi. La cameriera della nonna, che seguirà la sua famiglia fino al treno, dove non salirà perché italiana.
Oh, anche la famiglia Segre è italiana. Così si è sempre considerata, perché così è. Papà Alberto e zio Alfredo hanno combattuto nell’esercito italiano durante la Prima Guerra Mondiale. Zio Alfredo è addirittura fascista. Crede nel fascismo. Per lui Mussolini ha ragione.
E italiani sono fino al 1938. Quando scoprono di essere ebrei.
Almeno, lo scopre Liliana, che non aveva mai saputo di esserlo. La sua non è una famiglia religiosa. Non andavano alla sinagoga. Non pregavano. Non seguivano riti. Abitavano in un palazzo signorile in Corso Magenta, il palazzo c’è ancora. Non ci sono più alcuni dei suoi inquilini, invece.
Adesso davanti a quel palazzo ci sono delle pietre, che ricordano la famiglia ebrea che abitava lì e ci ha abitato fino a quando non è stata costretta a fuggire da casa sua, dalla sua città, nel 1943, dopo l’8 settembre. E non ci abita più nemmeno l’unica sopravvissuta, di quella famiglia che abitava al numero 55 di Corso Magenta. Perché non ci è mai voluta tornare.
Corso Magenta è il salotto di Milano. Fai qualche passo e ti trovi davanti Santa Maria delle Grazie. Sullo stesso lato della strada invece ti ritrovi nella casa degli Atellani, dove Liliana passava da bambina e nel cortile vedeva una carrozza misteriosa, e per qualche motivo si era convinta che ci fosse sua madre, su quella carrozza. Liliana cresce amata, anche caparbia a quanto racconta di sé stessa. Va a scuola, e le piace.
Dal 1938 non potrà più farlo. Perché gli ebrei dal 1938 non possono più nemmeno andare a scuola. Ha 8 anni, quando entrano in vigore le leggi razziali. Fa la terza elementare. Ed è l’unica della sua classe che non può più andare alla scuola di via Ruffini.
Non capisce, Liliana.
Un giorno papà Alberto chiede alla maestra di parlarle. Liliana è a casa, li sente. Vuole bene alla maestra, pensa che le importi della sua piccola allieva. E quel giorno Liliana scopre per la prima volta il significato dell’indifferenza. Perché sente la maestra che davanti alle richieste del padre risponde quasi scocciata che non è lei che fa le leggi.
Questo deve essere stato il pensiero di tutte le persone che fino a poco tempo prima erano amiche della famiglia Segre. All’improvviso non erano loro a fare le leggi. E non si facevano più vivi. Così. Da un giorno all’altro, le famiglie ebree erano sparite.
Qualcuno era stato previdente e se n’era andato dal Paese prima che capitasse qualcosa di peggio. Ma il nonno Segre, lui no. Era italiano, era convinto che non potesse essere vero quello che stava succedendo. Ed era malato. E papà Alberto non voleva lasciarlo. Zio Alfredo se n’era andato. Loro erano rimasti fino all’ultimo momento.
Si erano mossi troppo tardi.
Non erano stati completamente abbandonati. C’erano ancora persone gentili. Giusti. Li hanno ospitati, gli hanno procurato documenti falsi, hanno provato a salvare Liliana. Che non voleva separarsi dal padre. Hanno provato a scappare in Svizzera. Ma in Svizzera non li hanno voluti. Non hanno creduto che fossero in fuga perché perseguitati.
E sono stati rimandati indietro e arrestati. Sono tornati a Milano passando per San Vittore.
Era il 1944. L’ultimo alloggio in Italia prima di prendere il treno per Auschwitz.
Quando escono dal carcere per arrivare al Binario 21 in Stazione Centrale, i detenuti comuni li salutano. A nessuno interessa della sorte degli ebrei, fuori dalle mura di San Vittore. Ai detenuti interessa.
Il viaggio verso Auschwitz è il primo momento di perdita della dignità. Perché su quei treni, stipati come bestie, c’è un unico secchio per i bisogni. Lo usano tutti. Indistintamente. Senza nessuna protezione.
Sarà un progressivo annientamento della dignità in cui per evitare di essere sopraffatti tutti i deportati cercheranno di non pensare al mondo di fuori, ai loro ricordi. Non condivideranno nulla con i loro stessi compagni di prigionia. Non saranno più persone, saranno quei numeri tatuati.
Stuck.
Fino allo sgombero del campo. Fino alla marcia della morte, da Auschwitz a Malchow. Dove ad aprile arrivano gli Americani e le SS si tolgono le divise, si mescolano tra le loro vittime.
E quella è la fine, o quasi, perché prima di tornare a casa Liliana passa del tempo in un altro campo, dove lei e le altre donne scampate alla marcia della morte vengono curate e rifocillate, dove tornano esseri umani, con un nome e un cognome.
Torna a casa, Liliana. Va in Corso Magenta 55 perché non sa dove altro andare, e lì va a prenderla zio Alfredo. Papà e i nonni Segre non ci sono più. Va a vivere con lui e sua moglie. Ma non riesce a parlare di quello che è successo a Birkenau perché nessuno vuole sentirlo. Perché la guerra c’è stata per tutti ma adesso è ora di ricominciare. Non deve più pensarci.
Ecco, leggendo la storia di Liliana Segre mi sembra che questo Paese sia stato ripetutamente ingiusto verso lei e tutti quelli che sono tornati. Perché per anni questa storia non ha trovato lo spazio che le serviva. Sì, è vero, tutti erano stati in guerra. Tutti hanno avuto dei lutti. Ma ci sono persone che non hanno solo avuto dei lutti.
Ci sono persone che hanno subito un tentativo di annientamento totale non solo fisico, ma anche morale e mentale. Sono state cancellate da qualsiasi attività sociale in cui avevano contatti con altri esseri umani non ebrei. E al loro ritorno non hanno potuto parlarne per molto tempo. Non hanno nemmeno potuto scegliere loro quando raccontare. Hanno di nuovo deciso altre persone.
Primo Levi non riesce a trovare spazio con Einaudi nel 1947, “Se questo è un uomo” viene pubblicato da un piccolo editore e solo nel 1958 la grande casa editrice, che in quegli anni aveva un’etica di un certo tipo, lo pubblica.
Per una Liliana Segre, donna, senza velleità intellettuali, il momento di parlare arriva ancora più tardi. Ma arriva. E parla. Racconta. Diventa la memoria di chi non c’è più e non può raccontarsi. Del padre, soprattutto. Ma anche dei nonni. E di tutti quelli che non sono tornati dai campi di sterminio.
Questo libro è piccolo. Breve. Pensato come una storia per i suoi nipotini. Ma chiunque lo legge diventa un po’ nipote di Liliana Segre.
Io perlomeno mi sento un po’ sua nipote. Questa storia è scritta anche per me. Perché mi ricordi anche io cosa succede quando l’indifferenza prende il sopravvento.
Giuliana Dea nasce a Milano nel 1975.
Si diploma in sceneggiatura alla Scuola Civica di Tecniche Cinetelevisive di Milano e lavora come sceneggiatrice di soap per qualche anno.
Terminata l'esperienza, comincia a lavorare nell'assistenza clienti e a tenere il blog Ufficio Reclami.
Scrive racconti. Qualcosa di sconveniente compare nella raccolta "Diverso sarò" io per Ad est dell'Equatore. Ha pubblicato il romanzo "Per quest'anno le rondini non tornano" per Bookabook.
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Giuliana Dea nasce a Milano nel 1975.
Si diploma in sceneggiatura alla Scuola Civica di Tecniche Cinetelevisive di Milano e lavora come sceneggiatrice di soap per qualche anno.
Terminata l’esperienza, comincia a lavorare nell’assistenza clienti e a tenere il blog Ufficio Reclami.
Scrive racconti. Qualcosa di sconveniente compare nella raccolta “Diverso sarò” io per Ad est dell’Equatore. Ha pubblicato il romanzo “Per quest’anno le rondini non tornano” per Bookabook.