E così non combatte, perché non c’è nulla contro cui combattere, e comunque lui nemmeno lo sa com’è che si fa.
Alla poliedrica collana di narrativa Effequ si aggiunge la voce originale di Raffaele Mozzillo, capace di imbastire una storia d’amore in un contesto difficile da raccontare – quello delle periferie napoletane – attraverso il filtro di una forma inusuale. La scrittura di Mozzillo apre lo spazio narrativo di una periferia inquieta, dominata dalle rovine di un mondo moderno che ha abiurato qualsiasi idea di progresso. In questo contesto ibrido si incistano il folklore di un popolo italiano, campano, zingaro, una cultura composita che si dà come somma di stili di vita particolari. Conosciamo il successo dell’estetica del decadimento urbano – da Gomorra in poi il successo del bizantinismo napoletano – nella cultura contemporanea, l’eccesso di narrazioni porta a un eccesso di retorica, la grammatica del racconto si usura, il rischio è di ripetere le solite storie crude e senza morale, cadere nel facile nichilismo della visione. Ma nel racconto di Mozzillo il taglio adoperato fuga ogni banalità: la narrazione si struttura in capitoli che vengono definiti “promesse”, una sorta di rosario che scandisce l’agire dei personaggi, la molteplicità di trame e sottotrame incasellate, nella visione dell’autore, dallo sguardo più ampio della lotta contro il destino. Il rimando al rosario introduce il tema della religione: l’artificio retorico di un popolo che cerca di radicarsi nella tradizione, la speranza degli ultimi ma anche lo strumento del potere per giustificare un agire immorale.
I principali attori sulla scena sono Lello e Mariarosaria, due ragazzi che consumano la loro storia d’amore in un fosso – un terrapieno trasfigurato in rifugio – nel mezzo di un tempo immobile eppure gravido di avvenimenti traumatici: il progressivo deteriorarsi degli amici tossicodipendenti, i morti per faide familiari di cui occorre tacere, il bullismo assurto a modello di vita nell’infinita scala gerarchica di periferia. A loro si affiancano Feliciano, Antonio, Gaetano: sono figure picaresche che consumano il dramma della propria parabola di vita nella farsa della sopravvivenza.
Per Lello e Mariarosaria il potere non è concetto astratto, nel mondo degli ultimi tale forza agisce come un vettore concreto. Nell’allegoria di Mozzillo il potere è esplicitato dalla religione, l’unica grammatica interpretabile in questo contesto che fonde elementi di spietato capitalismo – assurto al grado di natura con una dinamica talmente contemporanea da essere anticipatoria, quasi da laboratorio sociale – e ritualità atavica, un primitivismo di ritorno che copre la periferia come una cesura estetica e valoriale. La religione si incarna in Don Carmine, il parroco della zona, un omone gigantesco che riflette la natura ambivalente della pratica cristiana. Da una parte Don Carmine rappresenta l’istituzione come guida, la potenza della parola che, nel discorso dell’uomo di Chiesa, può tramutarsi in speranza («C’è l’umanità, in chiesa, la domenica: lo sa anche Don Carmine, “l’umanità siamo noi, qui presenti, a santificare la Festa”, dice adesso durante la predica e Lello annuisce di fianco, e la gente si volta a guardarlo, e Don Carmine pure, e lui arrossisce e non annuisce più.»). Dall’altra il prete rivela i lati più oscuri, l’azione oppressiva di chi si muove alla luce di in una morale usurata, connivente con il potere, interessata a mantenere lo status quo. Proprio Don Carmine si frappone come ostacolo più grande nel rapporto fra Lello e Mariarosaria, censura il giovane amore come il simulacro di un grottesco superego freudiano. E allora la religione – a fronte dello spettacolo che si trova fuori dalla chiesa, del teatro del mondo devastato dalla povertà e dai problemi di tutti i giorni – diventa un discorso vano, si scopre nella propria natura di strumento per chi vuole imbellettare una realtà non pacificata. La religione si struttura come discorso umano, aleggia fra le case popolari come custode o fantasma, ma viene percepita in maniera reale: «È la fede al puro stato terreno. Il mistico arrangiato al livello dell’umano, strizzato goccia a goccia, lacrime e saliva. Un rito che si consuma con l’eucarestia, con l’assunzione del corpo di Cristo, l’ostia benedetta che poi sarà digerita ed espulsa, spurgata via dai corpi, decomposta in materia fecale, perché Cristo si è fatto carne e come carne anche lui tornerà a essere cenere».
Lo stile di Mozzillo restituisce la crudezza dell’universo di periferie grazia alla capacità di includere termini colloquiali e dialettali, eppure non si uniforma al didascalico minimalismo che di solito anima le operazioni di questo genere. La lingua dell’autore risulta capace di aprirsi in squarci poetici, mimare l’austerità del rito cattolico, stringersi in chiuse aforistiche che restituiscono il senso del tutto. Si tratta di una scrittura vivace al servizio di una storia ben scandita e dal piglio radicale. L’umanità descritta acquista la statura della parabola simbolica e affresca un più ampio disegno in cui ritroviamo nella lotta contro il destino – inteso come contesto socio-culturale in cui si nasce – il vero nucleo di un’opera gustosa, dall’esito prezioso.
Nasce ad Andria nel 1992. Attualmente risiede a Bologna, città in cui studia Italianistica. Ha scritto per varie fanzine e blog. Collabora con 404: File Not Found e Rivista!Unaspecie. Ha fatto parte di due antologie di racconti patrocinate dal collettivo Wu Ming. Ha pubblicato racconti su TerraNullius e Nazione Indiana. Nel tempo libero mangia gelati, guarda match di wrestling e ascolta noise.
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