Che importanza hanno le cose che facciamo se non cancellano il dubbio, il rumore di fondo della vita? Che valore hanno successo, potere, amore, piacere, dolore e desideri, davanti all’infinito? Una volta pensata la domanda non c’è via di ritorno.
Il decimo titolo della fortuna collana di narrativa Tunué – diretta da Vanni Santoni – rappresenta un oggetto non identificato nel panorama editoriale italiano. Francesco D’Isa – giovane scrittore e artista visivo, già autore di diverse prove narrative – si addentra nel territorio dei paradossi logici assemblando la parodia di un codice medievale in cui le questioni metafisiche sono accompagnate da disegni e miniature. La trama del romanzo è semplice: Thérèse, isolatasi dal mondo in una camera d’albergo, invia lettere a sua sorella. Il tema delle riflessioni di Thérèse – ciò che lei chiama semplicemente «la domanda» – riguarda l’esistenza di Dio.Una materia di tale portata per non scadere nel pretenzioso necessita di un’elaborata cornice formale: la narrazione è affidata alla struttura del romanzo epistolare. Leggiamo le lettere che Thérèse invia alla sorella, e che lei rispedisce prontamente al mittente, corredandole di notazioni a margine. Il contenuto del carteggio intreccia episodi di vita vissuta nel segno dell’odio-amore fra le due, paradossi filosofici e matematici , ritagli di enciclopedie che – incorporati nel testo – dispiegano in forma grafica i ragionamenti della protagonista.
L’apparato visivo riveste un ruolo di primaria importanza. Se da una parte i corsivi della sorella di Thérèse chiariscono e guidano il lettore nel soliloquio – creando una sorta di “dialogo in assenza” – dall’altra il cut-up di brani e immagini ci fornisce il quadro del percorso speculativo della donna. Se la ragione cerca di investigare i paradossi del linguaggio – e dunque si approssima al limite ultimo della razionalità – il solo segno linguistico non basta, occorre inglobare l’immagine come superamento del limite. Allo stesso tempo la forma delle ricerche di Thérèse – un mucchio di appunti slegati fra loro – dà conto della natura frammentaria della nostra cultura: l’idea di Dio, la nozione di infinito, la concezione di io, il rapporto fra mente e corpo non sono altro che annotazioni incapaci di coagularsi in un disegno unitario. L’entropia della tradizione occidentale induce alla fallacia logica: non rimane che abbandonarsi alla nevrosi della citazione, alla curatela di un archivio sterminato. Come ne L’uomo nell’Olocene – iconotesto di Max Frisch che riecheggia il metodo di assemblaggio grafico di D’Isa – la ricerca della verità porta verso la follia: nel lavoro di Frisch si manifesta nel progressivo deterioramento fisico e psichico del protagonista, in quello dell’autore fiorentino – nonostante Thérèse affermi «i veleni sono medicine, se presi nelle giuste dosi» – assume i contorni dell’ossessione.
Il soliloquio del romanzo è solo un espediente per attestare l’impossibilità – o quantomeno l’estrema difficoltà – del conoscere se stessi. Nella dialettica fra Thérèse e la sorella viene a galla una conflittualità riconducibile a due differenti visioni del mondo. In Thérèse il solipsismo («provo una sensazione/faccio un pensiero → mi osservo mentre provo una sensazione/faccio un pensiero → mi osservo mentre mi osservo mentre provo una sensazione/faccio un pensiero eccetera.») è una maniera per estraniarsi dal mondo, un meccanismo di difesa per astrarsi dal dolore, negare la propria individualità in relazione alla realtà circostante («Più mi allontano dai pensieri più l’io si manifesta come una scatola vuota, priva perfino di se stessa, e se riesco a innescare una sorta di “salto senza fine” ho la sensazione di essere strappata via, evaporare.»). La sorella fornisce un controcanto che si poggia sui dogmi del senso comune («che importa, se si sta male si sta male, se si sta bene si sta bene»), evidenzia l’aspetto patologico del comportamento di Thérèse.
Il dolore della protagonista è frutto dell’ormai sin troppo nota condizione terminale della nostro stile di vita. La sua stanza è simile alle mille altre in cui ci rinchiudiamo per proiettarci nell’universo fittizio della rete, è un posto statico che ci condiziona in quanto orizzonte onirico («Ho contemplato il panorama di questa stanza fino allo sfinimento e ho ripetutamente imposto posizioni, ruoli e confini agli oggetti che mi circondano. I libri, soprattutto.»). In fin dei conti a parlare non è altri che una hikikomori affetta da quell’insaziabile quanto acritico consumo culturale – Mark Fisher lo chiamava “edonismo depressivo”– che divora il lato emotivo dell’individuo. Il conflitto con la sorella svela la propria natura puerile («Credo che l’invidia sia stata l’inevitabile risultato del non poter mai essere ciò che era l’altra; tu quella appariscente, socievole e sfrontata, io quella sobria, silenziosa e timida.»), le intricate costruzioni filosofiche si sfaldano al cospetto della mancata realizzazione affettiva della donna.
Se persino un grande misantropo letterario come il Peter Kien di Auto da fè ha dovuto guardare il mondo al di là del suo universo fatto di libri (infatti la seconda parte del romanzo è ambientata nelle strade di Vienna), per Thérèse il rapporto con la realtà si è fatto fantasmatico – esiguo quanto le annotazioni di sua sorella, abulico come la lista dei volumi comprati online che non manca di allegare. Non le rimane che oscillare nell’indeterminazione, rimanere chiusa nel limbo della stanza, perché «la risposta a qualunque domanda è sia sì che no». E per questo non può che affermare: «Il paradiso è comunque una prigione: se sia la ragione che la sua negazione mi portano alle stesse conclusioni, sono costretta a credere nell’assurdo».
Nasce ad Andria nel 1992. Attualmente risiede a Bologna, città in cui studia Italianistica. Ha scritto per varie fanzine e blog. Collabora con 404: File Not Found e Rivista!Unaspecie. Ha fatto parte di due antologie di racconti patrocinate dal collettivo Wu Ming. Ha pubblicato racconti su TerraNullius e Nazione Indiana. Nel tempo libero mangia gelati, guarda match di wrestling e ascolta noise.
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