Ci sono molte ragioni per cui Mi chiamo Sara, vuol dire principessa, il nuovo libro di Violetta Bellocchio (Marsilio), mi ha colpita: è la storia di Sara, ragazzina quindicenne che scappa di casa e si trova ad essere una “ragazza immagine”, una finta cantante-bambolina il cui aspetto di plastica in realtà racchiude un violento processo di crescita e di scoperta di sé, la capacità di attraversare più o meno indenne abusi fisici e mentali, la capacità di scoprire il mondo e cambiare il proprio sguardo. In questo la copertina estremamente kitsch è d’aiuto: racconta molto bene quell’aspetto patinato e squallido degli anni 80 in cui è ambientata la storia, con quel filtro rosa che vorrebbe far credere che tutto è bellissimo, luminoso, che la ragazza non è appoggiata sugli schienali di un brutto bar della periferia, la schiena incollata alla finta pelle dal sudore, la puzza di fumo attorno a lei.
La grande quantità di argomenti che una trama tutto sommato semplice (ragazzina scappa, scopre il mondo dello spettacolo, dopo un primo momento di gloria tutto crolla, rinascita) è riuscita a far emergere non poteva essere racchiusa in una recensione. Ho così chiesto a Violetta un’intervista: la sua incredibile disponibilità ha prodotto un’ora di parlato e circa 10 cartelle di sbobinatura. Di queste, ho selezionato le parti salienti, che stanno in quanto segue.
S – In una mail mi hai detto che si tratta di un libro delicatissimo: mi interessa capire, secondo te, dove si annida la reale pericolosità, la delicatezza, di un libro di questo tipo.
V – Mi chiamo Sara è un libro scritto in prima persona, una prima persona che non sono io. Per scrivere un libro dopo il memoir avevo bisogno di essere certa di essere in una dimensione altra da me. Io sono diventata Sara mentre stavo scrivendo e per certi aspetti non ho smesso di esserlo, ma non è autobiografia. Per risponderti, la storia entra in un binario molto oscuro molto rapidamente, e la delicatezza sta nel fatto che se io ti racconto una storia in cui una ragazzina viene manipolata da un adulto, ogni tanto devi essere lì con lei, ci devi cascare anche tu.
S – La scelta della prima persona è un espediente che rende difficile realizzare davvero quanti anni ha Sara e quanto spesso lei venga travolta e mangiata da un sistema che non si era andata a cercare. E però Sara ha una personalità talmente forte, e ha talmente chiaro il suo obiettivo, che spesso durante la lettura la manipolazione appare bilaterale: è lei che va a cercare Antonio (e non “Tony” come per tutti gli altri) ed è lei che fa in modo di farsi vedere e lo conquista fino a diventare Roxana. Questo è molto complicato da gestire mentalmente, bisogna spesso fermarsi a far mente locale e ricordarsi che la protagonista è una quindicenne di provincia che non si sa realmente quanto sia consapevole di quello che “si è scelta”.
È interessantissimo il modo in cui nel libro si gestisce questo confine, ad esempio in una scena chiave del libro, quella in cui Antonio le mette il medaglione, da una parte c’è ovviamente la rivendicazione di un possesso, del marchio, dall’altra parte lei è felice di ricevere quel medaglione, ne aveva bisogno per essere riconosciuta e lasciare spazio alla presenza di Roxana dentro di sé.
V – Un medaglione con dietro scritto “sii fedele a te stessa”! Questa è la cosa più tremenda che ho scritto.
Sara nelle primissime pagine del libro ha un momento di lucidità, si rende conto di essere molto piccola, paradossalmente troppo per avere una vita ordinaria nella città di provincia in cui abita, ma si rende anche conto che se non fa attivamente qualcosa per cambiare finirà a seguire il percorso disegnato per lei: stare al bar, farsi guardare dai burini di passaggio, insomma quello che sta già facendo. Lei è una cui non è mai stato detto che è intelligente, ha lasciato la scuola appena possibile, nessuno si aspetta niente da lei, non è una ragazza disciplinata, è solo bella. E quindi scappa di casa con in tasca le mance del lavoro estivo per andare a Milano e aspettare che qualcuno la scopra – all’inizio del libro non vuole nemmeno diventare famosa, lei più che altro vuole che le succeda qualcosa. Vuole essere scelta. Ha la pelle dura ma come la si può avere a quell’età, come solo le ragazzine di quindici anni possono avere, in un periodo della vita che è difficilissimo, in cui su di loro si riflettono i desideri degli altri, di rivalsa e erotici nonostante la giovanissima età. Sara si vuole emancipare da un’immagine di sé, dalla sua famiglia, e in quei casi diventare un oggetto serve anche a evitare di prendere delle decisioni. Lei è contenta di fare quel che le viene detto di fare, perché una parte di lei vuole avere quell’esperienza, che è un netto passo avanti in termini di riconoscimento di se stessa. Il libro doveva essere una corsa da questo punto di vista, doveva stare lì con lei in tutte le fasi della sua trasformazione.
S – Così come sembra tutto normale, l’amore, il desiderio, sembra tutto quasi predestinato e accettabile ma, e questo è un punto di forza del libro, proseguendo la lettura emergono tutti i mostri con cui questi ragazzi hanno a che fare e non soltanto nelle scene più palesi ma anche e soprattutto dai piccoli momenti ‘dietro’, tutte le cose che stanno quando Sara non è Roxana – è molto bello il momento in cui Sara sale sul palco e gradualmente lascia spazio a Roxana, quasi una trasformazione, ma è lì che si vedono anche tutti i tic, le nevrosi, i segnali di pericolo, il sovraccarico di tensioni e di aspettative. La trasformazione di Sara, animaletto selvatico in bambolina d’oro che canta in playback…
V – Se scrivi una storia del genere e non fai sentire la bellezza potenziale dell’oggettificazione, secondo me hai fallito. Io scrivevo una storia che aveva a che fare con la musica italiana degli anni 80, italo disco, italo pop, dove queste cose succedevano ogni giorno, dove non era richiesto di saper cantare, in quel periodo era dato per scontato da tutti che fosse tutto un grande gioco, una grande finzione, che i personaggi fossero tutti assolutamente costruiti e andava bene così.
Peraltro, in termini di costruzione della storia e del personaggio, mentre lavoravo al libro mi sono anche detta che per renderlo più serio, più credibile, se avessi davvero voluto fare un buon lavoro sulla storia di una ragazzina-oggetto, avrei dovuto necessariamente metterci la storia di un personaggio che quelle stesse cose le vive molto meno male. Sarebbe stato secondo me immorale fare un libro sull’oggettificazione senza mostrare che c’è chi riesce a scendere a compromessi con questo e anche a plasmarsi un’identità personale al di là del proprio personaggio senza per forza rinunciare a uno dei due, anzi questo personaggio ha una volontà, vuole scrivere i propri testi, o scriverne per altri, vuole effettivamente far parte di quel mondo e non esserne una meteora.
Quello era un mondo in cui non importava a nessuno del successo duraturo, come dice un personaggio del libro a un certo punto «un paio di singoli non si negano a nessuno», te falli poi al massimo ti bruciamo, del resto era tutto vuoto, testi della più ridicola esterofilia privi di senso, pura immagine senza costrutto.
S – Nella costruzione del personaggio di Sara/Roxana, è molto interessante che lei non si annunci mai come elemento importante ma come riempitivo, la sua linea nei concerti, quando tocca a lei, è “mentre aspettiamo vi canto qualcosa”. Mentre aspettiamo…
V – Certo perché lei nel pacchetto della serata è quasi collaterale, anche quando va in tournée. Lei poi in estate, durante la tournée, si diverte, le piace quando sente Roxana che entra, e poi in tournée vive quella parte di infanzia/adolescenza, i fuochi sul mare, le scappatelle, tutto quello che finora non aveva mai visto né vissuto e di cui poi sentirà più acutamente la mancanza, certo, nel momento in cui conosce un p0’ di mondo, anche senza abbagliarsi, il mondo della tournée che è tutto irreggimentato risulta già delimitato, anche se si tratta di un gruppo di ragazzi che non provano interesse nei confronti dei posti che visitano, ma semplicemente gli incontri allargano la testa, aprono i confini mentali. Il mondo di Sara è quello che lei vede, che decide di vedere.
S – E infatti questa è una lettura che per prima cosa ti prende alla gola, alla pancia, per quanto sia evidente il lungo studio che c’è dietro, è un libro che prima di tutto colpisce all’istinto.
V – Bene così, anche perché ho letto una quantità di libri, e visto una quantità di film in cui questi personaggi come Sara sono sempre raccontati dall’esterno e sono sempre personaggi minori e connotati in qualche modo negativamente, la starlet, il desiderio di apparire… perché solo negativo? Il desiderio di apparire può essere una valida alternativa a un altro tipo di vita per una persona, il desiderio di essere irreggimentato e di imparare a fare qualcosa, di sentirsi dire ‘bravo’, è legittimo e valido, può essere una sirena allettante. Non è possibile che le storie che parlano di ragazze nello spettacolo le descrivano sempre come delle stupide, delle poverette, avide di denaro e di potere – Sara peraltro è abbastanza indifferente nei confronti del bello o del denaro, lei è più interessata alle esperienze umane, all’imparare, si sente gratificata quando impara bene il playback di una canzone o un balletto. Che lei fosse molto orgogliosa di essere una macchina ben funzionante è evidente, e infatti la bastonata arriva quando lei pensa di essere malata; non essere più un corpo perfetto e desiderabile la manda in crisi.
S – “Sono sana, sono bella, vado bene” è il suo motto. Ti mando una foto:
Più che per una questione di trama, nonostante alcune somiglianze, è un discorso di suggestioni, di immagini. Di fatto l’associazione è nata quando hai iniziato a pubblicare su facebook le ‘rare immagini d’archivio’ di Sara Monfasani. Ci pensavo perché come immaginario Neon demon secondo me rappresenta come loro si vedevano, come loro pensavano di essere quando salivano sul palco: il vestito d’oro sgraziato e puzzolente di sudore di un intero tour le trasformava in eteree bamboline luccicanti.
V – Può darsi, è molto verosimile quello che dici. Poi sì, Neon Demon va in un territorio completamente diverso, in un altro ambiente, è nel presente – del resto quando vogliamo parlare di immaginario collettivo, o ragionare con un po’ di criterio sulla contrapposizione tra alto e basso, a parte leggerti dei romanzi che ne parlano, è il caso di guardarsi qualche film. Prima di scrivere avevo visto Fish Tank di Andrea Arnold, e quello è un film in cui il consenso è rappresentato in un modo molto ambiguo, è un margine che si assottiglia molto. insomma oltre a leggersi Lolita è utile guardarsi Fish Tank, così come appunto se vuoi raccontare una storia in cui i colori sono caramellosi ma il contenuto è pericoloso è utile guardarsi Spring Breakers di Harmony Korine.
S – A questo punto ti chiederei qualcosa sulla costruzione della voce del personaggio. La voce di Sara, che ironicamente canta in playback, è molto elettrica, scattante, ossessiva, c’è tutta una serie di frasi che ripete continuamente, ha una serie di tic, di rituali che danno ritmo alla storia, è una voce ritmata e che ti fa entrare nella testa di una ragazzina che pensa ossessivamente tante cose, e quasi non riesce a fare spazio a tutto e cerca di darsi una qualche regolarità (sto andando bene / vado bene), tanto che via via che cresce, e soprattutto verso la fine, il tono si addolcisce, si calma, si vede la crescita di Sara. Ecco, come hai costruito questa voce?
V – La voce si è configurata in fretta quando ho deciso di scrivere la storia di Sara, ma è stato molto faticoso reggerla e portarla avanti fino alla fine. La voce di una persona che è sensibile ai colori e alle forme del mondo, che va avanti per immagini prestando attenzione a quello che ha intorno ma essendo anche già un pochino da qualche altra parte. Mi interessava anche rappresentare, in un mondo in cui tutto era palesemente fasullo, arrangiato, mediamente brutto, avere una voce chiara e che andasse dritta, rapida. Tutto il libro con la sua voce iniziale sarebbe stato insostenibile, per cui la voce a un certo punto si apre e si allarga, man mano che lei comincia effettivamente a vedere un mondo che non è solo quello che vedeva in tv o quello che le viene ordinato di fare, e comincia a vedere anche altro, allora chiaramente cambia anche il modo in cui le cose le dice, le racconta, e quindi cambia il ritmo, la prosa.
S – Avrei un’ultima domanda che riguarda il tuo percorso, che riguarda il memoir e poi Abbiamo le prove. Mi chiedo quanto in questo libro sia importante l’esperienza di Abbiamo Le Prove, cioè una raccolta di storie vere in prima persona, raccontate da varie donne che dicono di sé in momenti più o meno difficili della loro vita, forti, particolari. E il lavoro che tu hai fatto di raccolta, di editing, di studio, in qualche modo ti ha influenzata?
V – Probabilmente sì, sicuramente ha allargato la mia testa a una quantità enorme di usi della prima persona, una scrittrice di ALP che io ho editato ha avuto su di me un’enorme influenza, mi ha portato a riflettere su quanto ci sia di manipolatorio nel lavorare su un testo altrui e quindi su una persona: è una molto talentuosa che era agli inizi, io mi sono sentita a un certo punto in bilico – sto cercando di farla migliorare, di farle sviluppare una voce, o di farla diventare come me? Questo piccolo passaggio morale mi ha aiutata a scrivere una storia sulla manipolazione, è difficile raccontare il fascino che si può subire da un manipolatore, ed è difficile raccontare il fascino della manipolazione.
Ama i libri, la fotografia, le serie tv e i film della Marvel. Vive a Firenze, dove ha organizzato il festival Firenze RiVista e ogni tanto presenta un libro.
È fondatrice e redattrice della rivista culturale 404: file not found, collabora con la rivista cartacea con.tempo, ha scritto su Abbiamo Le Prove. Ha un alter ego, Giorgeliot, che si diverte a raccontare i fatti suoi.
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