L’alleanza dei corpi come forma di dissenso

Ogni “io” prevede un “noi”, tutte le volte in cui si entra o si esce dalla porta di casa, o ci si trova in uno spazio privo di protezione, o esposti in mezzo alla strada.

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]C[/mks_dropcap]osì scrive Judith Butler all’interno del suo ultimo lavoro, L’alleanza dei corpi, pubblicato per Nottetempo, ed è forse proprio dalla formulazioni del concetto di “noi” che bisogna partire per capire lo stato delle democrazie nel mondo: cosa è cambiato dopo Occupy Wall street o dopo le primavere arabe? In che modo i corpi scesi in piazza hanno modificato il mondo e le democrazie stesse?

La filosofa americana si interroga in maniera ampia e argomentata, partendo proprio dalla presenza fisica del corpo. Argomentazioni che si possono utilizzare per interpretare anche eventi successivi alla stesura del testo, come le manifestazioni femministe contro Trump. La Women’s march tenuta il 21 gennaio a Washington Dc ha dimostrato come la rete di corpi, scesa spontaneamente in strada, possa trasformarsi in una perentoria richiesta politica e sociale, in una opposizione netta fondata sull’alleanza reciproca di tutte quelle donne contro la visione politica del corpo del presidente americano in carica. Ma una manifestazione così imponente che ha visto le donne marciare parallelamente in molte città del mondo, deve essere analizzata facendo un passo indietro.

Il ragionamento della filosofia di Judith Butler, infatti, ha un punto cardine che risiede negli studi di genere e nelle lotte per i diritti delle minoranze sessuali, ed è da questo approccio che bisogna iniziare a ragionare per rispondere alle domande sulle forme di dissenso di piazza. Scrive ancora la Butler:

L’esercizio della libertà non è qualcosa che si origina in te o in me: la libertà è qualcosa che nasce tra noi, dal legame cui diamo vita nel momento in cui esercitiamo insieme la nostra libertà, un legame senza il quale non ci sarebbe alcuna libertà.

La ricerca di questo noi è la base sulla quale costruire le singole identità, infatti prima di arrivare alle grandi manifestazioni di massa, la Butler si interroga sul rapporto tra i movimenti spontanei e le manifestazioni per i diritti degli omosessuali e di tutto il mondo LGBTQIA, composti da persone che lottano e spesso rivendicano diritti senza averne nessuno, in modo tale da mettere in risalto la negazione del potere che spetterebbe a ognuno all’interno di un “noi” condiviso. La stessa presenza in piazza stabilisce la modalità di dissenso attraverso le sue caratteristiche principali come ad esempio l’aggregazione spontanea. Questa è probabilmente il punto cruciale perché organizzandosi sui singoli temi, le persone condividono uno spazio e una richiesta, un’esigenza, che tenderà a dissolversi con il disgregarsi della manifestazione. Ed ecco che emerge il rapporto con le forze dell’ordine che reprimono la richiesta di diritti estemporanea, e che rappresenta il dialogo con il potere, scrive la Butler:

Non prevenire la violenza contro le minoranze, da parte della polizia di stato, è in sé un atto di criminale negligenza; è la stessa polizia a commettere un crimine, dal momento in cui abbandona le minoranze per strada, consegnate alla loro precarietà.

Iniziano qui a formularsi i primi concetti cardine sui quali impiantare tutte le forme di protesta: precarietà, fragilità e vulnerabilità. Per parlare di precarietà è necessario comprenderne i confini, i limiti che la governano, presentando la sua antitesi non tanto nella sicurezza (tema molto utilizzato dalle destre) quanto sulla lotta per un ordine politico e sociale egualitario. Tra i punti di riferimento dell’analisi di Judith Butler troviamo Hannah Arendt, citata spesso all’interno del saggio sia come punto di partenza del ragionamento, sia per evidenziare le differenze odierne rispetto agli anni ’50. Lo spazio di apparizione, in questo caso la strada, le piazze e i parchi, rappresenta un luogo pubblico all’interno del quale ogni singolo soggetto si ritrova spossessato del proprio io e riconfigurato attraverso la prospettiva degli altri, ma questo non basta, lo spossessamento del noi avviene anche attraverso il passaggio mediatico. È il corpo a rappresentare l’elemento cruciale di questo passaggio dal soggetto privato al soggetto pubblico, scrive infatti la Butler:

È la persistenza del corpo, nella sua esposizione, a mettere in discussione la legittimità statale, e lo fa proprio attraverso una specifica forma performativa. Tanto l’azione quanto la gestualità esprimono un significato e parlano, sia in termini di azione, sia di rivendicazione; l’una non è separabile dall’altra.

Si torna così ad un tema estremamente attuale e alla gestione di questi raduni, perché bisogna chiedersi se l’azione corporea sia scindibile dalla tecnologia che utilizza, quindi in definitiva, se l’azione mediatica social (l’utilizzo di twitter durante le primavere arabe, al di là dell’impatto reale nel costituire l’aggregazione; o tutto l’insieme dei social nel movimento occupy) non sia essa stessa già una reazione politica che il corpo di ogni singolo compie in favore in un noi di volta in volta condiviso. La Butler si interroga ancora sul fatto che ogni dispositivo utilizzato durante queste manifestazioni è prima di tutto tenuto in mano, e che ogni smartphone può essere usato per filmare, per compiere un’operazione di controsorveglianza sulle azioni militari e di polizia.

Per questo parlare di un soggetto fisico è un concetto diverso rispetto alle analisi che ha compiuto la Arendt, che improntava il noi metaforicamente attraverso un tavolo che collega tutte le persone che vi sono sedute, ma crea nello stesso tempo la distanza. Il tavolo genera una relazione, la possibilità dello scambio, ma ne preserva l’indipendenza. In questo caso la Butler lavora sia sulla smaterializzazione del corpo, che è sì fisico, ma è anche presente qui e altrove contemporaneamente, attraverso una connessione internet, sia sul contatto e sulla presenza fisica con gli altri.

Il secondo aspetto fondamentale dell’analisi della filosofa americana è nel concetto di “vulnerabilità”, caratteristica che si formula proprio dalla forza del noi. Dalla precarietà si genera la capacità dei corpi di aggregarsi, di passare dall’io al noi, ma creato questo noi si diventa responsabili degli altri, e questa responsabilità crea grosse difficoltà. Si arriva così al fulcro etico che il ragionamento porta con sé. Le risposte a queste domande devono riformulare il tema politico che è alla base del dissenso.

L’etica rappresenta però anche una difficoltà nella costruzione di forme sociali egualitarie, motivo per il quale gli assembramenti di cui parla Butler non sono di per sé positivi, solo per il semplice fatto d’aver preso corpo in un insieme di persone. Il dissenso diventa quindi uno strumento che tende a modificare eticamente la società, ma che nello stesso modo modifica anche il corpo stesso di chi dissente, in funzione di un corpo per l’altro, un corpo che agisce in relazione con altri corpi. In questo modo l’assembramento genera il aspetto di cambiamento e si relaziona con la democrazia come organo fondante, e non solo come un popolo al quale un determinato insieme di leggi, diritti e doveri viene applicato.

Il percorso lungo compiuto da Judith Butler ne L’alleanza dei corpi, indaga il modo di stare insieme all’interno delle forme di dissenso organizzate, ma, essendo un testo di circa 350 pagine, riesce, partendo dalle manifestazioni e dai diritti delle minoranze, a delineare un’etica fondata sulla relazione con le debolezze e con i punti di forza che essa stessa implica. La lucidità con la quale la filosofa americana riesce a mostrare l’importanza della lotta per i diritti delle minoranze è il punto di forza per creare una società nella quale il dissenso non sarà mai estinto, ma al contrario sarà uno strumento attraverso il quale modificare continuamente la struttura sociale.

(Immagine:  (AP Photo/Seth Wenig)

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