Raccontare Donald Trump

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]A[/mks_dropcap]lla magniloquenza fisica e sentimentale dei luoghi americani ormai abbandonati, Giorgio Vasta faceva corrispondere un tonfo altrettanto sonoro nell’oblio. Sonoro perché, se l’esistenza era destinata alla decomposizione, la vita iniziava nella finzione come tradizione tramandata oralmente. Il fatto era insospettito dal dubbio, screditato da un complotto o ingrandito da una storia più grande della verità. È una delle caratteristiche più affascinanti della cultura americana che appartiene sia ai luoghi abbandonati, sia a chi la finzione la crea.

La storia di Donald Trump è particolarmente interessante perché da personaggio pubblico, fautore del racconto sopra le righe e di un orgoglio autocelebrativo, è riuscito a diventare un protagonista della storia politica americana. La scissione tra personaggio e realtà è già nota anche a chi non interessa la politica, per cui l’affermazione di un politicante punta alla migliore vendibilità di idee e non di fatti. Una distinzione che non è nuova nella fiction americana se si pensa a un racconto di David Foster Wallace contenuto ne La ragazza dai capelli strani (traduzione di Martina Testa, minimum fax, 2011): Lyndon descrive la vita privata dell’omonimo presidente americano, allontanandolo dal suo ruolo nella guerra del Vietnam e trasformandolo in un essere intimo, quasi vulnerabile. Altro esempio è Forza Simba Sette giorni in Cammino con un Anticandidato (contenuto in Considera l’aragosta, traduzione di Adelaide Cioni e Matteo Colombo, Einaudi, 2006) – il reportage per Rolling Stone sul tempo passato nell’entourage di McCain durante la campagna elettorale del 2000 – ancora una volta, un modo per Wallace di distinguere tutte le microfratture che scindono l’identità dalla realtà politica. La fiction di Trump, volendo indicare così il suo racconto, ha seguito direttrici diverse: da un parte la stampa americana ha rinunciato a essere un avamposto obiettivo e riflessivo preferendo, invece, l’informazione; dall’altra alcuni libri su Trump hanno abbandonato qualsiasi invenzione stilistica e si sono attenuti alle forme della critica politica e del giornalismo d’inchiesta.

I rapporti di Trump con la stampa attraversano momenti di indecisione mediatica. Se ora è il presidente a proibire ad alcuni giornali di assistere alle conferenze stampa, durante la campagna elettorale gli organi di informazione hanno modificato la loro deontologia professionale. La selezione dei fatti da trasformare in notizie ha ecceduto nell’obiettività, sconfinando nella sottovalutazione a priori.

Dopo aver guardato e ascoltato Donald Trump da quando ha annunciato la sua candidatura per la presidenza, abbiamo deciso che non parleremo più della campagna di Trump come parte delle notizie politiche. Piuttosto seguiremo la sua campagna come parte della nostra sezione sull’intrattenimento. La nostra motivazione è semplice: la campagna di Trump è uno spettacolo di secondo livello. Non abboccheremo […]

Così scriveva l’Huffington Post poco dopo la candidatura di Trump e in accordo con lui c’era anche Rupert Murdoch proprietario del Wall Street Journal e del New York Post. Contrari a una scelta del genere erano il Washington Post, Politico e il New York Times. Cameron Barr, caporedattore del Washington Post ha affermato: «Dobbiamo prendere seriamente chiunque si candidi sul serio. Noi [giornalisti] non prevediamo l’esito delle elezioni. Vogliamo servire al meglio i lettori e gli elettori». «[Trump] non sembra comportarsi con i filtri che la maggior parte dei politici applica alla sua presentazione». La differenza con il passato è che nel mondo dei comizi, dei sorrisi e delle strette di mano, l’atteggiamento di Trump non cozzava affatto con il suo curriculum. E questo suo essere più vicino all’apparenza di un essere umano ha nutrito gli elettori che non ascoltavano i versi autocompiaciuti di un politicante ma il discorso di “uno di loro”. Per questo sono andate a segno tutte le accuse e gli insulti agli avversari, perché non stimolavano uno squallido dibattito politico ma un bisogno di genuinità.

Tra i libri più interessanti pubblicati dopo il voto statunitense c’è L’America di Trump (traduzione di Valentina Nicolì, Ponte delle Grazie, 2016), un piccolo volume che raccoglie alcune interviste a Noam Chomsky. Il linguista cerca di spiegare i motivi del successo del nuovo presidente: la delusione della classe lavoratrice, per il declino economico partito dal 2007-2008, si identifica in un modo classico di fare politica sia democratico che repubblicano che ha protetto gli interessi delle grandi banche; tra i motivi che esulano da ogni spiegazione politica e razionale c’è la corrispondenza tra il sentimento dell’elettorato, la perdita di dignità lavorativa e il desiderio di rivalsa, e un nuovo modo di condurre la campagna elettorale che ha dato voce a tali frustrazioni e ha evitato il confronto sui contenuti.

In tutto l’Occidente queste categorie condividono la stessa rabbia verso la dirigenza centrista, come dimostrano del resto il voto a sorpresa a favore della Brexit e il crollo dei partiti centristi in Europa.

Il libro prosegue con l’incontro-intervista tra Chomsky e Graciela Chichilnisky, esperta del cambiamento climatico, quel fenomeno che Trump ritiene una balla inventata dai cinesi. Questa parte si allontana dagli scopi del libro ma chiarisce l’esigenza di rispondere alla deriva demagogica che afferma senza una prova. Il nuovo modo di fare politica che si identifica con il voto di protesta ha caratterizzato però anche un altro candidato. In Perché vince Trump Andrew Spannaus (Mimesis Edizioni, 2016) offre uno spunto importante per capire cosa è accaduto anche con Bernie Saunders. I due candidati avevano stili diversi di comunicare il loro programma: entrambi sostenevano alcune posizioni affini al partito per cui si candidavano, avevano punti in comune (l’opposizione a Wall Street), la loro forza prorompente stava nella diversità di presentarsi all’elettorato come fuori da ogni sistema:

Entrambi hanno condotto campagne contro il sistema, identificando come principale avversario del popolo un’élite corrotta, piuttosto che collocarsi nella più consueta dialettica destra-sinistra.

Nel descrivere la situazione economica e politica, Spannaus racconta i programmi dei candidati alle elezioni e dedica ampie sezioni a Sanders e Trump. Il loro destino però rimane diverso: se Trump ha gestito la sua immagine senza lasciarla scalfire dagli attacchi e dalla sottovalutazione del suo stesso partito, Sanders è stato sconfitto da alcuni errori di gestione dell’immagine, forse fin troppo radicale per svecchiare le file del partito.

Il Trumpese

In una conversazione telefonica con Francesco Pacifico, Franzen parla delle grandi organizzazioni della Silicon Valley e, a margine, le collega all’avvento di Trump:

L’appartenenza inevitabile a una filter bubble, a un sistema di social media che ci restituiscono solo la realtà che vogliamo vedere noi e i nostri simili, produce dissonanze cognitive: Trump governa l’America dal basso della sua percentuale di voto popolare, la più bassa di sempre per un vincitore, e l’opinione pubblica insorge, ma «nelle città la gente non ha perso la testa; e in Stati interi dell’Unione, soprattutto in California, se non ci fossero le manifestazioni non ti renderesti nemmeno conto che sia successo qualcosa di brutto a Washington».

Il giudizio è sicuramente affrettato – come lo era in parte Purity, il suo ultimo romanzo, che restituiva solo in parte la realtà delle grandi organizzazioni del calibro di Google e Facebook – ma ha un fondo di verità. Trump su Twitter ha sviluppato una comunicazione che attinge a piene mani alla condivisione immediata e senza verifiche e a una dialettica da leone da tastiera. L’essere estraneo a ogni tipo di comunicazione istituzionale ha portato al concepimento di idee che ottengono risonanza attraverso lo scandalo e una larga base di seguaci.

Anche George Lakoff sta dedicando molta della sua attività online all’analisi della comunicazione di Trump. Il presidente in 140 caratteri è in grado di elargire attacchi o assicurarsi l’esclusività di notizie che solo in seguito rivelano non avere nessun fondamento.

Quando i media sono attenti alla verifica delle sue affermazioni, lui ha semplicemente spostato l’attenzione dal suo operato verso l’esterno. Anche i discorsi di Trump seguono un’impostazione simile, perché si rifanno più a una conversazione orale che a un discorso con una profonda struttura analitica. Preferisce esprimersi attraverso brevi frasi («Washington flourished, but the people did not share in its wealth. Politicians prospered, but the jobs left and the factories closed»), mentre i periodi più complessi sono composti da diversi frammenti, collegati tra loro attraverso la ripetizione. Quando Jimmy Kimmel gli ha chiesto se non è sbagliata la discriminazione religiosa, riguardo il proibire ai musulmani di entrare negli Stati Uniti, Trump ha risposto:

We have people coming into our country that looking to do tremendous arm. Look at Paris, look what happened in Paris. I mean…these people they did not come from Sweden. Look what happened in Paris, look what happened last week in California with fourteen people dead, other people going to die, they are so badly injured. We have a real problem. There is a tremendous hatred out there. You can’t solve the problem until you find out what’s the root cause. I want to find what is the problem and what’s going on.

Dipinge melodrammi sotto forma di metafore («mothers and children trapped in poverty in our inner cities», «an education system flush with cash, but which leaves our young and beautiful students deprived of all knowledge») e come argomentazione ha sempre pronto un esempio noto all’opinione pubblica.

In realtà il linguaggio di Trump ha sviluppato una tecnica consolidata negli anni che ha attinto a una tradizione famigliare. David Cay Johnston, giornalista vincitore del premio Pulitzer nel 2001, scrive Donald Trump (traduzione di Emilia Benghi, Stefano Massaron, Andrea Mattacheo, Elisabetta Spediacci, Einaudi, 2017) che è un degno esempio di giornalismo d’inchiesta. La storia di Trump, dal nonno Friedrich emigrato dalla Germania fino all’attualità, è corredata di testimonianze, fonti criminali, documenti e articoli (molti dei quali raccolti alla parte finale del libro). Nella geografia mitica di Trump convivono i peggiori luoghi comuni, tutti risultati di un racconto promozionale.

Donald Trump si affida a due principali strategie per gestire l’immagine pubblica che da decenni costruisce, raffina e vende.
La prima sfrutta una pecca tipica del giornalismo di cronaca: enunciare i «fatti» senza leggere tra le righe.[…]
La seconda strategia di Trump consiste nel distorcere le notizie, contraddirsi e bloccare le indagini condotte sul suo conto da giornalisti, polizia, garanti e dai legali altrui.

Per esempio, quando nel 1973 il Dipartimento di Giustizia lo citò in giudizio per aver discriminato gli affittuari di appartamenti di sua proprietà in base alla razza e al colore della pelle, Trump rispose che volevano costringerlo a cedere gli appartamenti a chi usufruiva di sussidi pubblici. Anche il suo patrimonio si costruisce a sua immagine e somiglianza e, quindi, l’ammontare è sconosciuto e cambia continuamente, almeno fino all’entrata alla Casa Bianca. Quando gli viene chiesta conferma della registrazione con delle sue affermazioni su Carla Bruni («molto piatta, non il tuo tipo, Howard». Trump derise con volgarità la Bruni, accusandola di avere una misura di reggiseno «piú piccola della coppa A. Una A meno»), lui afferma di non ricordare. La stessa forma testuale scelta da Johnston si presenta ostile alle speculazioni e più orientata alle azioni concrete. I suoi attacchi sono aspri e diretti, percorsi da un’amara ironia: la sua scelta è stata di non appellarsi alla teoria politica, ma all’azione concreta, dimostrata, al contrario di Trump, attraverso le prove. La personalità del presidente ricade al di fuori delle notizie politiche e la finzione deve fare lo stesso: per affrontare un personaggio, l’impegno di fondo di un racconto non deve essere la retorica dello scandalo, ma deve recuperare modi e metafore della narrativa che indica senza esasperare, che narra con il disinteresse di un osservatore onnisciente e lascia libero il giudizio. È complesso fare tutto questo con chi ha fuso la maschera e l’autenticità annullando ogni riflessione impegnata. La finzione di Trump vive in lui una contraddizione e lo rende l’esempio vivente del sogno americano, uno di quelli nati all’epoca delle grandi migrazioni, che si esaurisce nella dimenticanza delle origini. In questa sede si è nominata la personalità di Trump attraverso volti, voci e ritratti, ma la verità è che la sua natura è così trasparente e immediatamente riconoscibile da risultare subdola.

Più che agire su di lui, più che inventarsi come affrontare Trump, bisognerebbe capire come sta cambiando il sogno americano.

(Immagine: RALPH FRESO / GETTY IMAGES NORTH AMERICA / AFP)

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