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L’Edipo moderno e cosciente: Il peso minimo della bellezza di Azzurra de Paola

Non serve altro nel tuo piccolo mondo. Ci sono io, ci sei tu e c’è la nostra ignoranza rispetto a tutto il resto. Noi non sappiamo e non ci interessa di niente. Siamo noi due madre e figlio. Prigioniero e aguzzino. E, nonostante le apparenze, non è affatto detto chi sia il carnefice e chi il povero diavolo. 

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]C[/mks_dropcap]i sono casi in cui il rapporto genitore-figlio è tutto fuorché ordinario. Nel suo romanzo Il peso minimo della bellezza, edito da Liberaria, Azzurra de Paola riesce a raccontare una delle tante situazioni, spesso sottaciute, in cui il legame materno diventa così forte da farsi esclusivo, quasi morboso.

A sette anni non lo sai perché odi i baci di tua madre. Ti senti in colpa, ti dispiace, vorresti proprio farla contenta e ti mortifichi. Passi cinque ore seduto al banco a pensare a quanto tu sia cattivo. Cattivo, cattivo, cattivo. Chi vuole un figlio che non si fa baciare dalla propria madre? E allora vivi da cattivo. Ti trasformi nell’idea che hai di te stesso, come se al mondo non dovessi meritare più altri baci perché hai rifiutato quelli di tua madre e quindi la tua fetta di felicità l’hai già avuta. Ogni cosa che fai credi di farla perché sei cattivo o credi perché se fossi buono ti riuscirebbe meglio.

Una madre che, prima ancora di diventarlo, era una ragazza-bambina con un carico di solitudine troppo pesante da sopportare, crede che un figlio possa permetterle di sfuggire alle sofferenze della propria vita, al buio che la inghiotte partendo proprio proprio dall’animo. Quello che vuole è sentirsi sicura con un fagottino tutto suo tra le braccia, avere qualcuno che l’amasse davvero senza lasciarla mai sola e che dipendesse totalmente dalle sue cure. Un esserino su cui riversare tutto l’amore possibile di un’esistenza difficile, vissuta tra crisi e solitudini.

Certe cose sembra non siano mai accadute se non fosse che una cicatrice ci ricorda che dà lì usci del sangue. La tazza dipinta all’asilo per il giorno della mamma è la cicatrice che mi ricorda che anch’io da piccolo ho avuto una mamma. Che sono stato un bambino piccolo. Che ho dipinto tazze per festeggiarla. Che lei mi ha sorriso e mi ha detto grazie e si è commossa e subito si è preparata un caffè a dimostrazione che il regalo le era piaciuto. Anche se il caffè non lo beveva, anche se la tazza faceva schifo. Era un’accozzaglia di colori confusi senza regole cromatiche. Ma era la mia tazza, e sono questo contava. 

I due protagonisti non hanno nomi, le loro azioni li precedono e la narrazione si sussegue per sbalzi temporali. A raccontare tutto è il figlio, che inizia da quel periodo antecedente alla sua nascita in cui non era ancora presente nella vita della madre e lei era sola, ad affrontare una perdita importante: quella della propria madre, sotto gli occhi di tutti, nel giorno del funerale. Sembra quasi che il figlio abbia scelto di tenere un diario a ritroso dei momenti salienti della sua vita e del rapporto con la madre. C’è lui neonato, lui a sette anni a scuola che si rifiuta di baciare sua madre sulla guancia, lui e la giovinezza negli anni del militare, lui a tre anni che, sempre con la madre, conosce il Dottore e, insieme, sembrano quasi una famiglia.

Quella sera lo guardavi al centro di un pensiero in cui io ero assente, non invitato, messo da parte. Quella sera non mi piaceva. D’un tratto, nonostante il gran bisogno di sapere che la sua mano ti conduceva attraverso la casa di nuvole della principessa e il suo drago, volevo mettermi ad urlare. Avrei voluto piangere e strapparmi i capelli. Dov’ero nei tuoi pensieri mentre lo ascoltavi parlare? Che posto occupavo nella tua testa mentre lui ti trasportava in cima alla sua voce da incantatore di serpenti? Mi sembrava tutto molto simile al perderti. 

Il Dottore, appunto. L’elemento disturbante di questo idillio madre-figlio che cerca di ripararsi da qualsiasi pericolo esterno. Seppur da personaggio secondario, il Dottore riveste un compito importante in tutto il romanzo: è la persona che riesce a far sentire bene la madre, di cui questa si innamora dando inizio così a una storia complicata, fatta di tira e molla e dinamiche relazionali che il figlio-bambino guarda da fuori, sentendosi escluso e tradito. Sempre il Dottore resta la persona gentile e premurosa che spera anche in un buon rapporto col figlio, ma che poi finisce inevitabile per diventare una pars destruens: la madre non sopravviverà al dolore, da questo triangolo amoroso fatto di sentimenti intensi e ossessioni altrettanto forti  usciranno inesorabilmente tutti sconfitti. Ognuno perderà qualcosa: una madre, un figlio, un’amata, una prospettiva di futuro insieme, la vita stessa.

Piango davanti a tutte le cose belle perché vedo la loro disperazione per il peso di questa bellezza che sono costrette a portarsi sulle spalle come una specie di maledizione che alla lunga le rende brutte. Povera bellezza. Vorrei prenderla e consolarla. Dirle: come posso salvarti?  E credo sia per questo che disegnavo i baffi ai quadri nei musei e che ho sempre cercato di rompere gli oggetti. Perché a vederli a pezzi, vedere il bagno allagato, vedere te a terra completamente sfatta, era consolante. Mi faceva sentire meglio. Liberato dal peso della tua bellezza, anche minimo.

Il peso minimo della bellezza è un romanzo più vero di tanti nuclei familiari reali in cui vige il sacro ordine dell’apparenza. Il figlio è un moderno Edipo e sa di esserlo, si trova fin dalla nascita nell’invalidante condizione di sentirsi totalmente dipendente dalla madre. La madre ha bisogno del figlio, lo ha egoisticamente messo al mondo per questo motivo, anche se, nelle sue due lettere che intervallano la narrazione, non fa altro che ripetere di voler solo il bene di suo figlio, di volerlo lasciare libero.

In un eterno saliscendi emozionale Azzurra de Paola confeziona un romanzo crudo e appassionatissimo, in cui c’è tutto un mondo sconosciuto di relazioni madre-figlio, ma quello che manca è il lieto fine.

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