Sono stato il custode degli oggetti di nostro padre, ora faccio come che non possano scappare, aggrappati a queste righe. Sono forma e potere della vigna di nostra padre, del mondo come deve essere, nei nostri affreschi. Questa maschera mi piace fino all’indistinguibile.
[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]A[/mks_dropcap]lessandro Raveggi non ha neanche quarant’anni ma ha già messo mano a una quantità cospicua di progetti. Pescando a caso dal suo curriculum possiamo trovare: insegnamenti universitari fra New York e Città del Messico, la curatela di un’antologia dedicata alla letteratura sudamericana (Panamericana, La Nuova Frontiera, 2016), la direzione di una rivista di narrativa bilingue (The Florentine Literary Review, di cui è appena uscito il primo numero), un romanzo (Nella vasca dei terribili piranha, Effigie, 2012), diversi saggi (fra cui la monografia su David Foster Wallace per Doppiozero Edizioni) e racconti sparsi in varie antologie. Proprio nella misura del racconto la scrittura del toscano si mostra in tutta la sua forza: la raccolta edita da LiberAria è l’occasione per riunirne l’intera produzione in un unico volume.
Il grande regno dell’emergenza dispiega una partitura variegata che restituisce la diversità di contesti e situazioni in cui i racconti sono stati scritti, ambientazioni che vanno dalla Firenze borghese e turistica alle aule universitarie di Città del Messico. Eppure non è difficile trovare un tratto comune che diviene la cifra dell’autore: in primo luogo la scrittura capace di venire a patti con la tradizione letteraria senza appesantirsi di manierismi. C’è anzi una leggerezza che ricorda le migliori prove di Daniele Del Giudice, amalgamata a una profonda conoscenza della tradizione postmoderna: la capacità di rielaborare la produzione culturale in chiave sentimentale, come riesce a Del Giudice in Nel museo di Reims o in Atlante Occidentale. Lo stile di Raveggi si confronta con le forme della letteratura – e con le tradizioni più disparate: americana, sudamericana, italiana – e le ingloba per acquistare velocità, trasportare il lettore senza mostrare funambolismi di sorta. Prendiamo l’incipit del racconto Romanzo da spiagga:
Se questo deve essere proprio un museo a cielo aperto, d’accordo: mi ricorda Mueck. Le opere di Ron Mueck, quelle sculture iperrealistiche, di poco sovrumane, di resina e polivinile, con gli esseri umani più comuni. L’aria fiorentina è fatta di corpi di resina, di vinile opaco, stamani. La sua pesantezza mi spinge a percorrere intontita le stesse strade che attraverso d’inverno. Via dei Malcontenti, il mattatoio dei turisti orientali, il corridoio dove vengono piano piano ingabbiati verso il cuore pulsante della tagliola turistica, ha una strana perversione: vorrei odiarla, questa via, ma mi ci abbandono, col lino che si cinge alle cosce per il sudore. Ho solo evitato il Lungarno della Zecca Vecchia, l’ho attraversato come rettile in fuga, il caffè acido nell’alito in bocca sigillato dal rossetto che ho applicato al volo. Siete proprio quelle sculture.
In questo caso la citazione dell’opera d’arte si innesta in una prosa che procede nella descrizione materica: l’esperienza mediata dalla cultura e riportata all’esperienza. Le considerazioni della voce narrante restituiscono la fotografia del suo universo personale, composto in egual misura di elucubrazioni intellettuali e sentimenti viscerali. È un’impostazione simile ai racconti di Rivka Galchen, una nuova scuola che ha ben presente i limiti delle costruzioni postmoderne (la moltiplicazione del racconto e il cerebralismo) e per questo le sfrutta con sapienza, evitando la complessità fine a se stessa o – allo spettro opposto – la chiusura in un semplice intimismo.
I contenuti, al pari della forma, vivono di una natura mediata: forte è il sentimento di precarietà, di saturazione borghese che nasconde l’immobilità del nostro tempo. Nella schiuma dei giorni cerchiamo la metamorfosi, la realizzazione dei nostri desideri, che sia rivedere un fratello, scrivere un romanzo, conquistare una donna, ottenere la custodia di un figlio; ma alla fine ci ritroviamo a girare a vuoto senza accorgerci del sentimento di perdita che si fa strada. Emblematica è la situazione del racconto I nostri oggetti paterni, peraltro riprodotto magnificamente sulla copertina: un padre morto e dei figli che si travestono da animali per sfuggire al dolore, regredire e affrontare la burocrazia del rito funebre. Tuttavia siamo solo al racconto iniziale, traccia delle coordinate che riproducono la nostra condizione. Proseguendo la lettura si afferma una volontà positiva che emerge dal pessimismo iniziale; il padre è morto e bisogna farsi genitore, riattivare una funzione morale, contrastare il mutismo comunicativo con l’espressione dei sentimenti, delle sensazioni, anche solo con la semplice riproduzione del reale. E allora un padre insegna la lingua a un figlio (Essi scrivono), la vertigine del Messico diventa la vertigine della lotta per la vita (Qualcosa nell’oscurità), le memoria degli avi erompe nella forza immaginifica del racconto (Il genio della guerra), l’ispirazione biografica diventa il mezzo per tramandare differenti visioni del mondo (Altre vite illustri).
Nelle metafore dell’autore Il grande regno dell’emergenza racchiude il sentimento di precarietà e di possibilità del nostro tempo, ciò significa che l’emergenza può rientrare, che la frattura può essere sanata. Dall’universo semantico dell’emergere si profila la possibilità di ricominciare la risalita, ecco che il titolo dell’opera acquista un secondo e più profondo significato.