Sono femminista. Se tanti anni fa avevo il timore di dirlo ad alta voce, adesso quella paura è del tutto scomparsa, e lo dico con fierezza e cognizione di causa. Con assoluta sincerità, posso affermare che è anche merito di Chimamanda Ngozi Adichie e delle sue parole. La scrittrice nigeriana – di etnia Igbo – autrice di Ibisco viola, Metà di un sole giallo e di Americanah ha scelto di adattare le parole di un discorso che ha tenuto nel dicembre 2012 per TedxEuston, rendendole così parte del breve saggio dal titolo Dovremmo essere tutti femministi, pubblicato in Italia da Einaudi lo scorso anno.E quando, tanti anni fa, cercai la parola sul vocabolario, trovai: “Femminista: una persona che crede nell’eguaglianza sociale, politica ed economica dei sessi”.
Questo saggio potrebbe essere già noto, se non per sentito dire, visto che dei brani della sua conferenza sono stati inseriti da Beyoncé nella canzone Flawless e da lì il messaggio della scrittrice si è esteso. In circa quaranta pagine, si ha quello che si potrebbe definire vademecum del femminismo “livello base”, sia per chi si avvicina per la prima volta all’argomento sia per chi ne sa già qualcosa.
Un’informazione continua, assieme al ricordo di quelli che possono essere i concetti fondamentali del femminismo stesso, può permettere di porsi nuovi interrogativi, di cui ricercare le risposte in modo attivo e propositivo. La Adichie, partendo da alcune delle sue esperienze personali, solleva dei dubbi e con una chiarezza espositiva data anche dalla semplicità delle sue parole, accessibili a tutti, ci porta a riflettere assieme a lei su alcune faccende. Si mette in gioco in prima persona, con un tono ironico, realista e diretto, che non fa sconti a nessuno. I suoi aneddoti sono sia derivati dalle vicende capitate in Nigeria sia da quelle accadute negli Stati Uniti, il che ci fa capire come anche nei Paesi definiti “occidentali e moderni” le donne devono ancora lottare per ottenere dei diritti che invece gli uomini hanno. Chimamanda spiega delle idee basilari che tendono a non essere mai del tutto ben comprese o a essere mal interpretate, a partire da cosa sia effettivamente il femminismo e perché questa parola abbia un connotato negativo, come anche l’immagine di una femminista:
La parola “femminista” si porta dietro un bagaglio negativo notevole: odi gli uomini, odi i reggiseni, odi la cultura africana, pensi che donne dovrebbero essere sempre ai posti di comando, non ti trucchi, non ti depili, sei perennemente arrabbiata, non hai senso dell’umorismo, non usi il deodorante.
La ragione è da ricercarsi in alcuni elementi che spesso vanno di pari passo: il femminismo viene visto come il contrario del maschilismo; se quest’ultimo è un insieme di comportamenti e atteggiamenti volti a sottolineare – erroneamente – la superiorità del sesso maschile, allora si pensa che il femminismo predica la superiorità della donna. Non è così, ma è anche vero che molte donne che si proclamano femministe tendono a millantare la supremazia delle donne, odiando tutto il genere maschile. Oppure esistono persone che si dichiarano femministe per fini esclusivamente opportunistici, per vedere vinte le battaglie che possono dar loro un vantaggio in prima persona, non curandosi di quelle delle altre persone per essere davvero tutti uguali, cosa auspicabile nella nostra società. Queste persone non sono femministe:
Se facciamo di continuo una cosa, diventa normale. Se vediamo di continuo una cosa, diventa normale. Se solo i maschi diventano capoclasse, a un certo punto finiamo per pensare, anche se inconsciamente, che il capoclasse debba per forza essere un maschio. Se continuiamo a vedere solo uomini a capo delle grandi aziende, comincia a sembrarci “naturale” che solo gli uomini possano guidare le grandi aziende.
Nel quotidiano tantissimi sono gli ambiti in cui le donne sono viste come “inferiori” sia da un punto di vista economico, politico e sociale, e si tende moltissimo a voler condannare le abitudini delle donne che non si confanno a canone che potremmo definire “prestabilito”. Spesso le donne sono destinate a non ottenere posizioni importanti in ambito lavorativo. Quanto più questi retaggi culturali vivono nella società senza che qualcosa muti tanto più ci sembreranno “normali”, “giuste”, quando non lo sono.
Essendo gli uomini – nell’accezione di umanità tutta – esseri sociali, essi sono portati a interiorizzare le idee derivanti dalla società in cui sono inseriti. La scrittrice, da bambina, si era impegnata a scuola per avere i voti più alti della sua classe, riuscendoci, di modo che potesse diventare capoclasse. Purtroppo non lo divenne mai perché la maestra si era dimenticata di dire che il capoclasse sarebbe stato un bambino, avendolo dato per scontato. «Il problema del genere è che prescrive come “dovremmo” essere invece di riconoscere come siamo.» Il genere è un forte discriminante nella società, e tante disparità e differenze tra uomo e donna sono presenti sin dalla tenera età.
Si danno dunque dei modelli comportamentali da seguire, senza tenere conto delle inclinazioni dei bambini, ma tenendo conto del sesso (Elena Gianini Belotti lo spiega molto bene in Dalla parte delle bambine). Si pone un marcato accento sul fatto che le donne che hanno molto successo o guadagnano di più possono intimorire gli uomini, rendendoli agli occhi delle persone meno “virili”, con la conseguenza che non ci si cura del fragile ego maschile, contrariamente a quanto una donna “deve” fare:
Insegniamo alle femmine a restringersi, a farsi piccole. Diciamo alle femmine: puoi essere ambiziosa, ma non troppo. Devi puntare ad avere successo, ma non troppo, altrimenti minaccerai l’uomo. […] Mi sono sentita dire se non avevo paura di intimidire gli uomini. Non era un mio timore, anzi, non ci avevo mai pensato, perché un uomo intimidito da me è esattamente il tipo di uomo che non mi interessa.
Chimamanda Ngozi Adichie sostiene con forza e decisione che i ruoli imposti dal genere non solo sono discriminanti per le donne, ma rafforzano anche molti stereotipi sugli stessi uomini, perché viene insegnato loro a essere soltanto dei “duri”, non tenendo da conto della loro sensibilità e della fragilità che può derivare da un ruolo che può rendere qualcuno un personaggio, e non una persona. Questo è uno degli esempi di doppi standard che abbiamo attualmente. «Sorvegliamo le ragazze. Se sono vergini le osanniamo, ma se a essere vergini sono i ragazzi non facciamo altrettanto.» Lo stesso si può dire delle donne, a cui viene insegnato il ruolo che si può riassumere in “moglie, madre, casta e pura”.
In molte società, compresa quella italiana, il simbolo della donna che incarna queste caratteristiche è Maria (la Madonna), di cui viene sempre lodata l’immacolata concezione, scelta da un Dio di sesso maschile, e la contrapposizione tra la donna “santa” e la donna “poco di buono” (come Maddalena) che vede la prima come migliore; contrapposizione talmente ben radicata persino nelle donne che non è infrequente trovare donne che giudicano come gli uomini, se non peggio, la sessualità delle donne, ponendo tale condotta sessuale come primo e unico metro di giudizio di una donna. La Adichie stessa, una volta, visto che è entrata da sola in un albergo in Nigeria è stata scambiata per una prostituta. Non importa, quindi, se una donna è capace o competente, se ha determinati talenti adatti a farle svolgere un dato incarico, tutto si riduce a voler giudicare la donna per la propria condotta morale.
Esistono quindi le “donne che odiano le donne” – parafrasando un titolo di Stieg Larsson – donne che sono maschiliste e che tendono a competere con le altre donne, denigrando le altre che hanno una condotta di vita differente dalla propria, per una ragione spiegata dalla Adichie in questi termini: «Insegniamo alle ragazze a considerarsi in competizione tra loro, non sul piano del lavoro o del talento, cosa che sarebbe positiva, ma per guadagnare l’attenzione degli uomini.» Se nella nostra società viene ancora insegnato che il fine ultimo di una donna è quello di trovare un uomo, sposarsi e di avere una famiglia, allora queste parole risultano più veritiere che mai. Gli stessi uomini si sentono minacciati dal femminismo quando pensano che il raggiungimento dei pari diritti esisterà solo togliendo loro diritti acquisiti; ma non è quello che il femminismo vuole ottenere. Ne deriva un’incomprensione di fondo non indifferente, laddove la parola chiave del femminismo è parità.
Perché allora non usare un termine che lo faccia capire? La scrittrice ci risponde così:
Scegliere di usare un’espressione vaga come “diritti umani” vuol dire negare la specificità del problema del genere. Vorrebbe dire tacere che le donne sono state escluse per secoli. Vorrebbe negare che il problema del genere riguarda le donne.
Si è partiti dalle donne e col tempo (attualmente stiamo vivendo la quarta ondata del femminismo) siamo arrivati anche a parlare agli uomini che sostengono, anche coi fatti, la parità. Sì, anche gli uomini possono essere femministi dato che i problemi delle donne non riguardano solo loro e consiglierei la lettura del saggio soprattutto agli uomini che, quando sentono la parola “femminismo” hanno un’immagine distorta di esso. Non per nulla una delle frasi presenti in copertina recita: «Dobbiamo cambiare quello che insegniamo alle nostre figlie. Dobbiamo cambiare anche quello che insegniamo ai nostri figli.» A tal proposito, la rabbia e l’indignazione – definite così “sbagliate” e “sconvenienti” se vengono da una donna perché non le si addicono – se incanalate in modo positivo, cosicché le persone possano riflettere sugli accaduti sociali parlando e agendo in modo informato e consapevole, sono ben accette, soprattutto se l’umanità può migliorare, scossa da quello che impara a conoscere meglio.
Chimamanda non fa sconti a nessuno, e con la sua capacità di sdrammatizzare ci permette di riflettere su questioni importanti adducendo esempi molto semplici, capaci di avvicinare anche le persone più scettiche alla causa.
Il tono deciso, ma che non scade mai nel bieco odio, della scrittrice è percepito in ogni pagina del pamphlet e il modo in cui scardina gli stereotipi che aleggiano sul femminismo è pacato, trasudante comunque sicurezza, convinzione. Come le protagoniste dei suoi romanzi, l’autrice non esita mai a dire quello che pensa e lo fa con acuta sensibilità, dimostrando che il femminismo non si avvale delle urla scriteriate – come molti pensano – ma utilizza la forza della ragione. La scrittrice afferma a chiare lettere che la cultura, specchio della società e che muta assieme a essa, non è un’entità statica, e far finta di non vedere le problematiche che ancora affliggono il nostro mondo non è la soluzione giusta per raggiungere il cambiamento sperato. Evitare di parlare di argomenti scomodi, come la disparità di genere, non annulla il divario sociale tra donne e uomini, e questo deve cambiare. «La cultura non fa le persone. Sono le persone che fanno la cultura. Se è vero che la piena umanità delle donne non fa parte della nostra cultura, allora possiamo e far sì che lo diventi.»
Classe 1991, accanita lettrice, aspirante ginecologa, irriducibile criticona, sarcasmo-munita e amante del black humour.
Il nonno le ha trasmesso la passione per la lettura sin da piccolissima, dottor House le ha insegnato che non è quasi mai lupus e Philip Roth le ha rubato il cuore.
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