Dopo l’intervista all’autore curata da Luca Romano, torniamo a parlare dell’esordio di Gabriele Di Fronzo per nottetempo, Il grande animale.Portare pazienza è una bravura necessaria al pari di saper incidere e dare forma all’animale, così come del resto sgrassarlo, imbottirlo e sezionarlo a occhio nudo, calibrando l’intervento a palmi aperti, perché quasi più di quanto non sia fruttuoso l’agire, mi pare che attendere tra un’azione e la sua successiva sia meravigliosamente foriero di insegnamenti rispetto a ciò che è successo al momento e a quello che succederà da lì in avanti.
Il protagonista del romanzo, Francesco Colloneve, svolge un mestiere inusuale, quello del tassidermista: definizione specifica per chi comunemente è definito imbalsamatore. La pazienza, poi, deve essere per forza uno dei suoi tratti distintivi. Autodidatta, ha acquisito ormai l’abilità necessaria a rendere immortale posa e forma esterna di qualsiasi animale gli venga sottoposto. Lo fa lavorando con uno scrupolo al limite del maniacale, che presuppone ritmi incalzanti da rispettare sempre, quasi fossero dei riti. La cura con cui riesce a rendere eterno un gatto, un riccio o un serpente traspare dal racconto che ne fa in prima persona: una sorta di diario, diviso in sezioni di lunghezza variabile e numerate progressivamente. Come incide, svuota e riempie l’animale su cui sta operando, così fa lo stesso con le parole. Porta avanti le operazioni senza staccare mai: saggia le pelli, divarica gli arti, lucida becchi e artigli.
Tutto procede secondo i suoi ritmi e le sue piccole ossessioni, fino a quando non è costretto a trasferirsi a casa di suo padre per assisterlo durante una malattia invalidante:
Quando misi il piede in quel pasticcio con dentro mio padre, il giorno che cadde senza bisogno d’inciampare in nessuno scalino, sentii il rumore di un intero solaio gettato in cantina spingendolo giù dalle scale.
Da qui in avanti tutto gira attorno alla malattia del padre ed è proprio questa nuova condizione del protagonista a scandire l’andamento della narrazione. Ha un ruolo nuovo che, paradossalmente, si distacca poco da quello del tassidermista. Suo padre ha perso l’autonomia, è entrato del resto nell’immobilità, un po’ come gli animali di cui si prende cura lui, suo figlio, ora chiuso in quel laboratorio assemblato alla meglio in una casa non sua. Se già prima era metodico, Francesco Colloneve adesso lo diventa il doppio. Grazie alla precisione propria del suo mestiere può entrare in uno stato di apparente imperturbabilità. Questo è l’unico modo che conosce per fronteggiare il dolore di una perdita. Non può scappare, cercare un altro rifugio. Può solo svuotarsi, letteralmente e metaforicamente, sia dal dolore che dai ricordi. Lavorare su sé stesso come fa sulle proprie bestie, cercare di riempire il vuoto con la forma.
Il vuoto non impone imbarazzo, il vuoto non suppone paura, non c’è da temere qualcosa o da cercare rifugio lontano.
Fresco vincitore del Premio Volponi Opera prima, Il grande animale di Gabriele Di Fronzo trascina il lettore in un limbo esistenziale e per niente lontano dalla realtà: vita e morte, presenza e assenza, salute e malattia, tempo presente e passato, forma e contenuto si mescolano fino a formare una nuova sovrastruttura sconosciuta ai più. Di sicuro vi interrogherete sulla presenza più o meno tangibile di questa entità, quel grande animale conosciuto fin dal titolo, ma mai visto. Almeno per il momento.
Svuotare, riempire e ricucire i morti è il mio modo di portare il lutto, il nastro al braccio e la coccarda al taschino assieme, sono le mie più sentite condoglianze ai congiunti del defunto, anche quando questi non sono altri che io.
Quello che è distrutto dal dolore dell’assenza viene ricreato dalla forma, sia legata al mestiere del protagonista, così manuale e concreto, sia alla scrittura. L’esordio di questo giovane scrittore, cadenzato nelle parole e nei tempi, non si propone come conseguenza diretta a un’esperienza di dolore, anzi. Vuole esorcizzarlo, proprio come se fosse un animale da far vivere per sempre.
Leggendo Il grande animale, mi è venuto spontaneo accostarlo, per il tema trattato e una possibile vicinanza di fondo tra i due autori, a L’invenzione della madre di Marco Peano (minimum fax, 2015). Malattia, perdita di un genitore, introspezione psicologica, tante sono le caratteristiche che si confrontano tra i due libri, entrambi redatti come se fossero un diario, un modo per riempire l’assenza, per dimenticare e per ricordare. C’è da dire che, se Peano mira a raccontare il momento e lo fa grazie ad un’analisi psicologica diretta e avvalendosi della ripetizione (di parole, ricordi, attimi), Di Fronzo porta il carico di una scrittura difficile, strutturata, scelta nei minimi dettagli. Il linguaggio è ovviamente tecnico (non potrebbe essere altrimenti) e, in più di qualche punto, arriva fino all’aulico. Si pensi a espressioni come “gelosie divelte”, che forse è quella che mi ha più colpito tra tutti i termini usati. Assistiamo a un incessante gorgo di parole ordinate, che descrivono il tutto senza scomporsi, senza tradire sentimenti ed emozioni, senza annullarsi.
Quello di Gabriele Di Fronzo è un romanzo che porta del nuovo al panorama letterario italiano, specie emergente: forma, lunghezza e temi sono non convenzionali. Si tratta di un libro studiato e ponderato, non dell’illuminazione del momento. Può piacere e viceversa, sicuramente dev’essere compreso. Come dev’essere capita l’identità di questo “grande animale”: durante la lettura cercherete spiegazioni, affibbierete l’esistenza di questo presenza invisibile a qualsiasi cosa vi sembri ricordarla anche solo lontanamente. Poi capirete.
Il vuoto, il vuoto c’entra sempre.
(Immagine articolo via)
Vive a Milano, laureata in Lettere moderne, sta ultimando i suoi studi in Editoria. Si occupa più o meno regolarmente di libri, social e cose belle. Cura anche un suo spazio personale sempre dedicato alla lettura, il lunedì dei libri.
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