Emiliano Poddi, scrittore brindisino trapiantato a Torino da diversi anni, apre il romanzo Le vittorie imperfette con una citazione di Domenico Starnone, di cui è stato allievo: «Sono fatti veri che hanno urgente bisogno di diventare finti per diffondere al meglio la loro verità». E allora è stato naturale chiedere a Emiliano, alla fine della nostra conversazione, se almeno il gatto di Saša Belov, cestista sovietico tra i protagonisti del libro, esistesse davvero.La verità del racconto risiedeva negli effetti che stava producendo.
Tutto Le vittorie imperfette, in fondo, è attraversato da questo continuo rimescolio tra verosimiglianza e finzione (e non, dunque, tra vero e falso, di cui c’importa meno); a far da raccordo tra le vicende di Belov e del suo antagonista Kevin Joyce prima, durante e dopo la finale olimpica del 1972 tra USA e URSS è soprattutto la voce di un ex cestista brindisino decisamente ossessionato dalle coincidenze – la voce di Emiliano, si direbbe, che tuttavia non è propriamente o soltanto la sua.
Il romanzo si apre con una mostra di Hopper a Losanna nel 2012 e si chiude con un autografo firmato con una penna nera a Long Beach nel 2015. Il punto è riuscire a definire ciò che sta in mezzo a queste due esperienze che, seppure in modi diversi, hanno comunque a che fare col segno grafico: la finale di Monaco ’72, con quegli ultimi e infiniti tre secondi della battaglia tra americani e sovietici, è di per sé un incredibile moltiplicatore di storie e di luoghi, richiamati, questi ultimi, dai titoli dei capitoli del romanzo – ed eccoci in viaggio per Leningrado, Londra, Pearl Harbor, Reykjavík, Cisternino, e così via.
Ciò che sta in mezzo, si è detto: e che si annoda e si dipana con i tipici espedienti del romanzesco nonostante, come vedremo, l’ibridazione con codici e generi differenti; generi che Le vittorie imperfette riesce tuttavia a contenere con estrema coerenza, proprio sfruttando appieno le possibilità di uno strumento letterario che per definizione sappiamo fortemente onnivoro. I tratti distintivi del romanzo – soprattutto quello contemporaneo – ci sono tutti, del resto: la proliferazione dei punti di vista, in alcuni casi delle voci, la frantumazione del tempo e il continuo spostamento da un luogo all’altro del globo; tutto tenuto assieme con un raffinato montaggio che rende il racconto sempre scorrevole e avvolgente. In questo senso si muove anche lo stile, come si suol dire piano, in grado però di restituire registri e tonalità differenti (dall’umorismo di certe scene familiari a Brindisi fino all’asciutto melodramma delle vicende sentimentali di Joyce e Belov).
Ma passiamo alla conversazione con l’autore, questo scrittore ed ex cestista brindisino decisamente ossessionato dalle coincidenze e dalle storie.
Partirei dalla fine del romanzo – che viene definito come tale proprio nei due capitoli di chiusura. Capitoli che, mentre concludono le vicende raccontate fino a quel punto, sono però anche le classiche battute finali in cui si fa spazio ai ringraziamenti e ai debiti maturati nei confronti di altre opere. Come mai questa scelta, secondo me molto riuscita, di mischiare il momento del racconto con quello in cui, almeno per il lettore, in genere la realtà ricomincia piano a fluire?
Durante la stesura ho cercato di mantenere un atteggiamento aperto nei confronti di ciò che mi accadeva intorno. Faccio un esempio. Nella mia idea iniziale Kevin Joyce non doveva muoversi da Losanna, il posto dove lui ritiene siano custodite le medaglie d’argento mai ritirate dalla sua squadra. Ma poi ho scoperto che queste medaglie non sono mai arrivate a Losanna: dunque, con ogni probabilità, sono rimaste a Monaco, il che ha deviato la traiettoria originaria del mio personaggio. Allo stesso modo, quando sono volato a New York a libro concluso, io non sapevo che avrei conosciuto Kevin. Forse ci speravo, ma non lo avevo programmato. Quando poi l’ho incontrato, l’esperienza è stata per me talmente intensa da obbligarmi a darne conto. Così è nata l’idea dei due capitoli finali, in cui esprimo la mia gratitudine per Kevin e poi per tutti quelli che mi sono stati vicini. Inoltre mi piaceva che l’ultimo capitolo di un romanzo che se n’è andato in giro per il mondo si intitolasse: A casa.
Le vittorie imperfette contiene al suo interno diversi generi (o forse diversi codici), dal memoir al reportage, dalla biografia a quello che secondo me rappresenta un vero e proprio genere a parte, il racconto sportivo. È stata da subito questa la forma, per quanto ibrida, con cui avevi deciso di raccontare questa storia, oppure avevi provato a sperimentare altre soluzioni, in precedenza?
Questa forma ibrida ce l’avevo in mente fin dall’inizio, ma credo di averla intuita più che programmata. Avevo cioè la sensazione che una storia simile avesse bisogno di una certa libertà. Libertà spazio-temporale, innanzitutto. E poi anche libertà di muoversi tra generi diversi. Alla fine, quando sono arrivato a raccontare la partita, mi è parso di capire che l’intuizione iniziale fosse fondata proprio sulla natura capricciosa di USA-URSS, e in particolare dei suoi ultimi tre secondi. Lì dentro c’era tutto: racconto sportivo, spy story, epica, western e perfino il cinema sovietico degli anni venti, Ėjzenštejn, proprio per via dei tre secondi finali che si ripetono per tre volte.
La forma ibrida concorre certamente a rendere difficilmente isolabile il centro del romanzo. Ogni volta che pensiamo che il tuo è un libro sulla finale tra USA e URSS a Monaco, di per sé un’esplosione mitopoietica, ecco che da qualche parte spuntano Bobby Fischer, i quadri di Hopper o i leggendari tornei con le stelle del basket internazionale a Cisternino. Ho pensato, per restare in ambito cestistico, che è un po’ come se nel libro ci fosse l’area dei tre secondi, che il pivot/centro del romanzo è subito costretto a lasciare per far posto ad altri giocatori, ad altre storie.
È una bellissima immagine, l’area dei tre secondi. In campo è il posto più importante, quello dove c’è il canestro e dunque lo scopo del gioco. Ma le regole impongono ai giocatori di non sostare in area per più di – appunto – tre secondi. E allora bisogna girarci intorno, oppure attraversarla con un taglio o perfino tenersene fuori per una o più azioni. Però l’attenzione di tutti – attaccanti, difensori, pubblico – è sempre rivolta al canestro, naturalmente.
In effetti, credo che anche nel mio romanzo accada qualcosa del genere. USA-URSS resta il centro dell’attenzione anche quando siamo lontanissimi, nello spazio e nel tempo, da Monaco ’72.
Allo stesso modo è difficile isolare i protagonisti del romanzo: certo, ci sono Kevin Joyce e Saša Belov con le loro vicende anche piuttosto intime a svettare sugli altri, e poi il narratore con la sua biografia collegata in qualche modo alla storia con la S maiuscola. Un altro protagonista del libro mi sembra però che sia l’ossessione. Quella per il tempo, soprattutto, ma anche quella per i simboli, le date, i collegamenti tra gli eventi. In altri termini, l’ossessione per il racconto.
Una delle mie battute preferite di Blade Runner la pronuncia Tyrrel, il creatore dei replicanti. Dice: «Cominciamo a riconoscere in loro delle strane ossessioni». In Cuore di tenebra Marlowe racconta di quando, da bambino, vide una cartina geografica in cui un grande fiume si snodava in Africa come un serpente, e quel fiume sarebbe ben presto diventato per lui una vera ossessione. Sto cercando di dire che le ossessioni sono spesso un eccezionale propellente, sono qualcosa che spinge i personaggi ad agire. E prima ancora dei personaggi, è il narratore a essere mosso dalle sue ossessioni.
A proposito del tempo. Nel libro i piani temporali sono completamente scompaginati, ben oltre le necessità di montaggio o intreccio. A volte ho l’impressione che la narrazione non-lineare sia ormai un fatto di gusto, anche per un autore, più che una mera scelta di tecnica narrativa. Tu cosa ne pensi?
Penso che sia la realtà stessa a rendere quasi impossibile la scelta in teoria più semplice, quella del racconto lineare. Prendiamo USA-URSS di Monaco. Onestamente, dopo aver scritto un romanzo di quasi trecento pagine, io non saprei dirti dove inizia questa storia e dove finisce. Il che è un ostacolo non indifferente, se uno vuole procedere in ordine cronologico. E anche se fossero chiari i confini, avrebbe senso la narrazione lineare per una partita che finisce, poi ricomincia, poi finisce, poi ricomincia e ancora oggi, a distanza di quasi mezzo secolo, non si capisce nemmeno chi l’ha vinta? (Temo che la domanda sia un po’ retorica.)
Tornando al narratore: siamo dalle parti dell’autofiction, che – nonostante venga trattata come un vezzo letterario di inizio millennio – è probabilmente una tecnica narrativa tra le più antiche al mondo. Perché hai deciso di metterti in mezzo? È stata una necessità di natura tecnica o una scelta dettata, per così dire, da ragioni sentimentali?
Immagino che tutto sia nato da una domanda preliminare: che c’entra un brindisino del ’75 con Monaco ’72? La distanza spazio-temporale era ragguardevole, e io sentivo il bisogno di colmarla raccontando la mia storia. Volevo esplorare questa specie di nostalgia retroattiva che mi assale in certi casi. So che rischia di sembrare poco più di una battuta, ma io sul serio non mi capacito del fatto di essere nato così tardi rispetto al cuore della Guerra Fredda. Se mi interessa così tanto, mi chiedo a volte, com’è possibile che me la sia persa?
Il libro è in costante dialogo con altri medium: penso ai quadri di Hopper o alla televisione, l’ingenua televisione che durante il sequestro degli atleti israeliani, mentre sembra fare le prove generali per le dirette terroristiche contemporanee, finisce involontariamente con l’aiutare proprio i terroristi di Settembre Nero. E al tempo stesso è totalmente inadatta a raccontare il finale della partita tra USA e URSS: l’ho rivisto su YouTube dopo averti letto, e se non ti avessi letto non ci avrei capito un bel niente, come immagino i commentatori e i telespettatori dell’epoca. Quali sono le difficoltà (e i momenti di felicità, perché no) nel trasformare in scrittura una scena o una sequenza (perché di questo si tratta) di una partita di basket o di un quadro di un pittore americano?
Credo che la risposta a questa domanda sia contenuta in una pagina del libro. Kevin sta sfogliando una guida di Monaco che lo colpisce per il diluvio di dati e date che ne inondano le pagine: quando è stato eretto il Nuovo Municipio, quanti ingranaggi si muovono all’interno del suo orologio, quante birrerie ci sono in città… Anche la sezione dedicata alle Olimpiadi è assai particolareggiata, eppure Kevin nota che alla finale di basket non viene dedicato neppure un cenno. Ed è normale, pensa, perché come si fa a ridurre quella partita ai soli numeri del punteggio? Qui posso aggiungere che le ultime fasi della partita sono irriducibili non solo allo score sul tabellone, ma perfino alle loro stesse riprese televisive. I tre secondi finali sono troppo densi di significato, troppo impregnati di passato e di futuro perché un video – che scorre solo in avanti – possa permetterci di coglierne fino in fondo la portata. Penso ad Anatomia di un istante di Cercas, sul fallito colpo di stato in Spagna nel 1981, documentato dalla tv spagnola in diretta: è uno di quei casi in cui la scrittura si è rivelata uno strumento più duttile, più agile e in definitiva più efficace delle immagini in movimento.
Ultima domanda. Esiste davvero il gatto di Saša Belov?
Esiste davvero una colonia di gatti che tengono lontani i topi dall’Ermitage. Ed esiste davvero un gatto che si comporta più o meno come quello di Saša. Si chiama Gurdulù, il nome di un personaggio de Il cavaliere inesistente, ed è il gatto della mia compagna. Tuttavia, per uno dei miei compleanni, mi sono fatto regalare da lei una quota: perciò attualmente possiedo il 10% del gatto Gurdulù, ma conto di incrementare le mie azioni al prossimo compleanno.
Marco Montanaro vive in Puglia. Il suo ultimo libro è il romanzo “Il corpo estraneo” (Caratteri Mobili, 2012). Altri suoi testi sono sparsi per la rete e riviste cartacee. Il suo blog è malesangue.com
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