Quando si decide di portare sullo schermo una storia inizialmente nata su carta è pressoché impossibile che non vi siano reazioni da parte dei lettori, anche solo quando viene annunciato il tutto. Si sa, noi lettori, quando ci mettiamo d’impegno, sappiamo essere parecchio esigenti, o forse lo siamo sempre, come se questo fosse un nostro tratto innato. Sia esso un film o un serial, il prodotto può essere accolto entusiasticamente – a volte anche dai puristi del cartaceo, dipende da tanti fattori – come anche con freddezza o urlando alla schifezza totale: non si può però negare che, almeno una volta nella vita, alla notizia di un film o di una serie TV tratto da un libro amato, un lettore non abbia pensato in cuor suo «speriamo che il risultato non sia così disastroso». Dire che un film o una serie e il libro non si eguaglieranno mai tra loro è forse scontato, ma resta sempre una doverosa premessa da fare visto che può portare anche a un atteggiamento un poco più ottimista verso qualcosa che non sarà mai come l’originale e che magari può sorprendere positivamente.
Era questo il mio pensiero quando mi sono approcciata con scetticismo e poca – molto poca, lo ammetto – speranza a Bosch, serie televisiva statunitense prodotta da Amazon Studios. Il nome della serie viene dal nome del protagonista, Hieronymus – meglio noto come Harry – Bosch, detective della sezione rapine e omicidi di Los Angeles, nato dalla penna e dalla fantasia di Micheal Connelly, il quale ha collaborato alla sceneggiatura assieme a Eric Overmyer. Lo scrittore, in alcune interviste, ha affermato nel voler tenere separati i due Harry Bosch e le due avventure che lo riguardano ossia quella di scrittore e quella di sceneggiatore: va da sé che nella serie non si avranno perfettamente tutti gli avvenimenti dei romanzi. La prima stagione – in onda in Italia su Premium Crime – si ispira a tre romanzi dello scrittore, nello specifico a La bionda di cemento, La città delle ossa e Il cerchio del lupo, mentre la seconda, ancora inedita, riprende L’ombra del coyote, Musica dura e La caduta. La prima cosa che mi sono chiesta, da lettrice e amante del detective Bosch, fu: dieci episodi per tre romanzi? Non sono troppo pochi? Ma soprattutto: com’è possibile unire la trama di tre romanzi di una serie ben distanti cronologicamente tra loro in dieci episodi? Con la visione della serie le risposte non sono tardate.
La trama si può riassumere in poche righe. I lettori capiranno facilmente quali elementi sono stati presi da questo o quel romanzo, ma non è necessario aver letto i libri per seguire la serie. Los Angeles è in fermento per le elezioni e anche la polizia non è da meno nelle attività politiche: Rick O’Shea desidera diventare il nuovo procuratore distrettuale ed è appoggiato da Irvin Irving (Lance Reddick), superiore di Bosch. Harry Bosch (Titus Welliver) sta affrontando un processo in cui è accusato di omicidio colposo dato che ha ucciso un sospettato che, al suo ordine di alzare le braccia, fece un gesto sconsiderato, lasciando a intendere al detective che stesse per prendere una pistola. Nonostante sia in atto la procedura legale, Bosch è ancora in piena attività investigativa e decide di occuparsi del ritrovamento di un osso umano su una collina da parte di un cane; si riesce a trovare lo scheletro per intero e l’identità della vittima: un ragazzo scappato di casa nel 1989. Il bambino aveva subito maltrattamenti e abusi, cosa che porta il detective a sospettare di qualcuno in particolare. Nelle indagini appare anche Raynard Waits (Jason Gedrick) che si addossa – oltre all’omicidio da lui perpetrato – anche l’uccisione del bambino sulla collina; lo stesso Waits, con la scusa di voler condurre la polizia nel luogo in cui portava le sue vittime per poi ucciderle, riesce a fuggire e inizia a contattare telefonicamente il detective sfidandolo a catturarlo. Intanto Bosch intreccia una relazione con Julia Brasher (Annie Wersching), un’ambiziosa poliziotta che spera di fare carriera in fretta e con qualunque mezzo, e recupera il rapporto con sua figlia Maddie (Madison Lintz), che vive a Los Angeles con l’ex moglie di Harry, Eleanor Wish (Sarah Clarke), un tempo profiler ora ritiratasi.
La storia non presenta buchi di trama e la vicenda ha solide basi. La costruzione della narrazione è perfettamente inserita nel contesto: nonostante siano stati presi e riassemblati elementi di storie diverse, quella proposta risulta plausibile. È il caso di dire che si sente la mano di Connelly: se nei suoi libri non ha mai nascosto di amare Los Angeles e di volercela mostrare anche parlando di luoghi in particolare, sullo schermo ritroviamo la stessa voglia di farci vedere la città per mezzo di ampie inquadrature o con alcuni dettagli della città degli angeli che non fanno altro che arricchire la storia senza appesantirla. Lo stesso si può dire di una delle particolarità di Harry Bosch, che viene inserita con naturalezza. È un amante del jazz, e ammetto di esser stata contenta nel sentire in sottofondo proprio i brani che ascolta Bosch, citati nei romanzi, come anche quando fa ascoltare a sua figlia Maddie Patricia di Art Pepper, brano composto dal sassofonista in onore di quella figlia «che non vedeva tanto spesso», esattamente come lui. Sono piccoli dettagli che non fanno altro che mostrare la cura che c’è dietro la storia.
I personaggi sono ben caratterizzati e, se ne La città buia viene detto a Bosch che «sembra House» (ovvero assomiglia all’attore Hugh Laurie), qui sullo schermo abbiamo Titus Welliver, conosciuto, tra gli altri ruoli, per Sons of Anarchy che lo impersona, dandogli il carisma e l’atteggiamento giusto che ti fa dire: quello è davvero Bosch. Incarna molti degli stereotipi del protagonista tanto caro agli hard-boiled, come quelli di Raymond Chandler e James Ellroy, ma riesce a essere un personaggio particolare, per il quale non si può parteggiare: ha un matrimonio fallito alle spalle e nonostante questo non è immune al fascino femminile, è un solitario dal carattere non molto diplomatico cui stanno strette le regole della polizia e che non esita ad andare all’azione se la situazione lo richiede, oltre a non amare la corruzione. Il suo nome parla per lui: la sua vita è parecchio incasinata, un po’ come le tante figure che animano i quadri del pittore fiammingo da cui prende il nome, Hieronymus Bosch. In molti dei suoi quadri la luce adoperata con colori e tecniche pittoriche illustrano il male del mondo, il peccato, la corruzione, così come accade su una scena del crimine, specchio del male che l’uomo spontaneamente sceglie di compiere. Bosch, coi suoi modi sbrigativi e rudi, prova a portare la luce nel mondo troppo oscuro, cercando di sfidare il buio con le sue lame di luce, alla sua maniera non convenzionale.
Rispetto al cartaceo, tuttavia, molti tratti cupi e oscuri delle storie che hanno Harry come protagonista sono stati smussati, rendendo la serie fruibile a tutti, magari anche a chi non gradisce molto le scene cruente o troppo violente, con tutto che la violenza è ben presente. Si potrebbe avere il sentore del già visto, come anche dire che Bosch non aggiunge nulla di nuovo al filone delle crime series, di cui uno degli esempi più famosi è The Wire (prodotta da David Simon, che è stato socio di Overmyer in Homicide: Life on The Street), ma in Bosch si tende a privilegiare l’approfondimento del protagonista, sia per il vissuto sia sotto il profilo psicologico, senza per questo relegare in secondo piano l’indagine, o peggio, tralasciarla completamente. Non ci troviamo davanti a storie che non presentano i dati delle indagini e che non permettono allo spettatore di calarsi nella parte del detective assieme al personaggio principale: ciò che conosce Bosch lo conosciamo anche noi, e con lui possiamo fare supposizioni, dando anche uno sguardo alle sue vicende personali.
Quando una storia si concentra maggiormente su un solo personaggio, il rischio di essere noiosa nell’eventualità di poco dinamismo delle scene è possibile, specie se si devono conciliare momenti più rapidi come nelle scene d’azione e momenti più lenti per le scene più introspettive. In Bosch la storia invece viene portata avanti con calma, con la giusta tensione che non viene necessariamente adoperata a fine puntata, cosa che invece piegherebbe gli archi narrativi in modo non equilibrato: l’indagine di Bosch invece è solo ripartita in dieci puntate che non vedono un cliffhangher negli ultimi minuti e inserito “perché sì”.
Si ha un buon equilibrio tra indagine e scavo dei personaggi e la recitazione di alcuni attori come Lance Reddick (già presente in American Horror Story, Lost, The Wire) è particolarmente calibrata al ruolo che essi hanno. I personaggi secondari stanno sì al loro posto, ma si fanno ricordare, e gli attori riescono a dare dei tratti distintivi ai personaggi senza strafare. La prima stagione ha saputo regalare così una storia poliziesca lineare, ben lontana dal genere del police procedural che sembra tanto essere in voga tuttora oggi, per concentrarci sul crimine e su ciò che c’è attorno a esso, a partire dalla vita di chi ha scelto, nel bene o nel male, di voler far luce sul mistero, per far sì che la giustizia trionfi.
Classe 1991, accanita lettrice, aspirante ginecologa, irriducibile criticona, sarcasmo-munita e amante del black humour.
Il nonno le ha trasmesso la passione per la lettura sin da piccolissima, dottor House le ha insegnato che non è quasi mai lupus e Philip Roth le ha rubato il cuore.
- Scritto da
- Altri articoli