Tra musica e romanzo di formazione: I gatti non hanno nome di Rita Indiana

Al termine, Zia Celia mise della musica ed era un po’ alticcia, perciò obbligò tutti quanti ad alzarsi e ballare, prima un disco completo degli Hermanos Rosario e poi uno di merengue natalizi in pieno agosto. I miei genitori non ballarono per niente. Rimasero seduti sulle sedie a dondolo con la faccia stanca per il jet lag chiedendomi da bere di continuo.

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]I[/mks_dropcap]l Sud America letterario di García Márquez e della Allende, di Mario Benedetti e di Vargas Llosa, passando per Cortázar, è fiorente e produce storie incredibili: attualissime, racconti che si portano dietro anni e anni di realismo magico, ma che riescono ad lo attualizzarlo, rendendolo vivo e palpabile, accompagnato al  ritmo sfuggente seppur sincopato dell’esistenza. Un realismo, più che magico, molto molto umano.

È il caso di Rita Indiana e del suo I gatti non hanno nome. Classe 1977, domenicana, in tutto e per tutto un’artista completa e poliedrica: scrittrice, blogger, attivista per i diritti LGBT e leader di Rita Indiana y los Misterios, un gruppo di merengue alternativo, scoperta e portata in Italia dalla giovane casa editrice indipendente milanese NN Editore che, proprio in questi giorni, festeggia il suo primo anno di attività.

Chiudete gli occhi e lasciatevi guidare dalla protagonista della storia. Una ragazzina Senza Nome come quegli stessi gatti del titolo. Avete di nuovo quattordici anni, vi ritrovate vestiti con completi color pastello e non è vostra abitudine. Secondo sua madre, infatti, questi vestiti ben si addicono all’esperienza lavorativa dell’estate che trascorrerà come segretaria nella clinica veterinaria dello zio Fin.

Sì, perché i suoi genitori partono per un lungo viaggio in Europa e la lasciano, da ospite lavorante, a casa dello zio materno, il veterinario Fin, e della zia Clelia, sua moglie, intraprendente architetto e impresario edile, donna affetta da manie e gelosie di vario genere che la rendono simpatica come «delle scritte al neon che dicono ROMPERE I COGLIONI ALL’UMANITÀ», sebbene avesse le qualità per amministrare il lavoro di cento e più haitiani, ci dice la nipote. Tra questi operai spicca Radamés, «la cui voce sembra uno sciroppo per la tosse». La protagonista passa le sue giornate ad annotare sul suo quaderno svariati nomi di gatti: maschili, femminili, dai più inusuali ai più scontati.

Questo romanzo che è, in realtà, più un racconto lungo intervallato da sbalzi temporali e capitoletti in inglese, si distingue fin dall’inizio per il susseguirsi incessante di volti, voci, genti e vite che si incontrano, poi si scontrano e si amalgano. Una storia corale a tutti gli effetti, con molteplici punti di vista, in cui a guidarci è sempre la ragazzina Senza Nome.

Di quali punti di vista parliamo? Sicuramente di quello disincantato dei nonni, queste figure tenere e schive, svanite, ma lucidi testimoni, a modo loro, dei tempi che furono; quello dei clienti dell’ambulatorio veterinario, persone coloratissime vivide seppur secondarie. Ancora le digressioni sulla vita degli zii, legati e nella stessa maniera resi distanti da un avvenimento passato; il suo rapporto con Vita, una sua quasi coetanea italiana, con cui stringe amicizia alle medie e che, come vorrebbe dimostrarci il suo “nome parlante” significherà molto per la nostra segretaria amanuense, che annota nomi di gatti, aneddoti eventi e (almeno è ciò che dovrebbe fare) tutto ciò che succede sul posto di lavoro per poi riferirlo alla zia Clelia, che le fornisce una paghetta extra proprio per questo motivo.

Lo stile di Rita Indiana, fluido e scorrevole, si intreccia perennemente con la musica: che sia la radio classica sempre sintonizzata per allietare i padroni dei pazienti a quattro e a due zampe o la sua playlist preferista che raramente può ascoltare quando lavora poco importa. Dai Fleetwood Mac fino a Jovanotti, I gatti non hanno nome è un eccellente contenitore musicale, intriso da atmosfere caraibiche e pop, non tralasciando Lizst. Questo escamotage narrativo altro non fa che rendere la narrazione piacevole e immediata. Sembra quasi che l’autrice ci descriva immediatamente i gesti delle animate persone di cui parla, più che delinearli troppo a fondo sotto il profilo psicologico.

Un romanzo breve o un racconto lungo, che dir si voglia, che ci fa immergere dritti dritti in località molto distanti dal nostro vissuto quotidiano: luoghi al massimo turisti, che ognuno di noi ha imparato a conoscere tramite i documentari in tv o sulle pagine allettanti di qualche catalogo di viaggi.

Con una protagonista dall’identità sfumata, ma in perenne divenire, I gatti non hanno nome, man mano che ci si addentra nella storia, si tramuta in un piccolo, ma importante, romanzo di formazione: lontanissimo da questo genere inteso in senso stretto (e qui è quasi banale il riferimento alle atmosfere di metà Ottocento di Dickens, per dire), ma che segue lo stesso percorso di scoperta di sé, in quegli anni difficili dell’adolescenza.

(Immagine articolo via)

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