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La recensione di “Molto vapore per nulla” di Stefano Ottaviani

Questa storia è recensita
da chi l’ha vissuta.

Premessa

Quando ho iniziato a leggere Molto Vapore per Nulla, l’ultimo romanzo steampunk pubblicato da casa Gainsworth e il primo scritto da Stefano Ottaviani, avevo due sole certezze, il ché è già un soddisfacente numero rispetto alla norma (zero).

La prima era che la mia mente, in quei giorni, non era diversa dalla locanda del Refolo Volante dove incontrerete Harvey Langston per la prima volta: null’altro che un tugurio di sette piani sovraffollato giorno e notte, celebre, sì, ma non di certo per la qualità del suo menù (e men che meno per “il miglior pudding di tutta Londra”). Avevo bisogno di quel bel silenzio mentale che sa darmi solo una buona lettura – o l’attimo in cui anche l’ultima chiassosa famiglia al completo abbandona la spiaggia dove vado di solito.

Seconda cosa, avevo bisogno di ridere. Sono dell’idea che una risata seppellirà il mondo e io volevo che una seppellisse il mio.
Bene, ho ottenuto entrambi i risultati

Di Vapore mi avevano detto tutti fosse molto divertente, ma benché nessuno sia arrivato al livello di chi mi ha detto “Guarda A Star is Born, è un film romantico leggero e coinvolgente!” (ho creato un girone del mio inferno apposta per loro), devo ammettere che ho riso (tanto), ma anche meno. La penna di Stefano è capace di un british humor davvero ben riuscito che mescola momenti di consapevole demenzialità a picchi di oggettiva genialità, ma la verità è che questa storia fa anche riflettere e a volte fa ridere, perché è vera. Insomma, è un romanzo di fantascienza, è ovvio faccia anche riflettere, penserete. Ecco, sì, ma non così tanto ovvio. Il risultato è stato che, in alcuni momenti, mi sono trovata in versione Pedro Pascal. No, non un daddy affascinante, timido e dal cuore d’oro (tranne che in The Last of Us, non pensateci nemmeno!), ma questo:

La recensione di "Molto vapore per nulla" di Stefano Ottaviani 1

Ora, per quanto mi riguarda, Vapore ha tutto ciò che considero necessario per farmi dire: wow, è proprio un bel libro. Compreso un cliffhanger finale per cui sto valutando se avvalermi della ben nota Polizia dei Libri per denunciare Ottaviani e la Gainsworth Publishing.

Ha una trama avvincente e un intreccio costruito ad arte, un alone di mistero a tratti tangibile e tutto il gioco di investigazione e risoluzione mi ha tenuta col fiato sospeso, come si conviene a un mistery degno del suo nome.

Il worldbuilding è molto ben bilanciato, fa rientrare il romanzo pienamente nel suo genere e soprattutto ha un sistema magico che non dovete avere timore di non capire. È impossibile non comprendere come funziona, qualsiasi sia il vostro background di studi, ma non per questo è banale o sempliciotto. Ultimo, ma non ultimo, Vapore ha dei personaggi che non mi sembra di osare nel definirli come memorabili

Bene, conclusa questa parte introduttiva che è praticamente una recensione fatta e finita o quasi, mi rendo conto che ci sono due cose molto difficili da qui in avanti. La prima è tentare di offrirvi un’analisi priva di spoiler e la seconda è cercare di essere sintetica. Una delle due l’ho già fallita.

Dato che questa introduzione da sola “poteva essere una mail”, il cerchio si restringe e vi garantisco che di spoiler non ne troverete. Volendo, potete fermarvi anche qui e correre a leggere Molto Vapore per Nulla per dirci cosa ne pensate, ma… 

La trama

Anno 1840. Londra è “una città sporca e metallica, forgiata nel ferro, nel vetro e nel vapore”. Grosse aeronavi della Arcantech Society solcano il cielo grigio, i maghi ingegneri della Bankes Heavy Industries fondono con sapienza tecnologia e magia al fine di migliorare la qualità della vita umana e la Regina Vittoria è un vampiro. Niente per cui sorprendersi, sia chiaro. La sua specie indossa la corona alla luce del sole (si fa per dire) da oltre un secolo ormai e, sotto di loro, qualche Lord umano ha ancora una certa rilevanza (o così crede), ma umani, maghi e vampiri non sono gli unici volti della società. Se prendete uno degli ultimi numeri del Times, troverete un bel titolo urlato che dice: “Ecco perché l’Atto di Registrazione è giusto”.
Composti da “razze così sparute, povere, divise e deboli”, gli Strix sono ciò che ci si aspetta sia una minoranza dotata di una magia tanto potente, quanto ancora poco studiata e, come tale, sicuramente oscura e malevola. Ovvero, gli Strix sono qualcosa da controllare, reprimere e regolare. Ha senso, tra di loro ci sono anche lupi mannari e addirittura demoni. È una questione di ordine e giustizia, se capite che intendo. Ogni buon governo ha il dovere di proteggere il suo popolo!


Alla luce di questo, l’Atto di Registrazione costringerà ogni Non-Umano a dichiararsi come tale all’anagrafe statale, comunicando anche i suoi spostamenti in anticipo di città in città e questo è il primo passo per un mondo più sicuro; per il resto, gli Strix possono continuare a vivere e nascondersi in condizioni tutto sommato (dis)umane nelle periferie della zona industriale e nei quartieri poveri di Londra. In fin dei conti, la fratellanza del Sangue Nero – quel movimento Non-Umano che minaccia ribellione – è solo una diceria, non esiste davvero («Il Sangue Nero? Se vi interessano le storie per bambini ci sono un paio di libri che posso consigliarvi, e con tanto di disegni colorati. Credetemi, non esiste alcun Sangue Nero! È solo una storia che gli Strix raccontano in giro per spaventare la brava gente […]») e la Corona ha tutto sotto controllo. Cosa mai potrà andare storto?
Beh, molte cose tra cui, possibile e non per forza ultima, un’invasione di precisbeni assassini. Quello che è successo però è ben più grave persino di una mandria di velenosi deretauri imbizzarriti.

Il noto parlamentare Lord Aaron Webster, l’uomo che ha redatto l’Atto di Registrazione, è stato rapito. Il coinvolgimento degli Strix è una certezza, è stato un demone. Come se non bastasse, a questa tragedia si aggiunge che sua figlia Catherine, per ritrovarlo, è costretta a rivolgersi all’unico uomo a cui nessuno affiderebbe mai un caso così delicato. Lo studioso di magia, avventuriero pazzo, esperto di mostri, cacciatore di draghi e mago a sua volta: Harvey Langston. Anzi, a voler essere onesti, nessuno gli affiderebbe proprio un bel niente, ma quando ogni speranza è perduta non resta altro da fare se non tentare l’impossibile.

Così, Catherine Webster – donna dotata del più sensazionale Sopracciglio Scettico che esista e Fenton Bower, amico di famiglia, imprenditore e “personificazione dell’ansia e dei tic nervosi”, raggiungono la casa d’angolo all’ingresso di Duncannon Street. Ad aprire loro la porta, il maggiordomo più iconico che esista al mondo: Alford. Nel suo studio, invece, Harvey Langston non aspetta ospiti, ma una volta tirata fuori la testa da una Galleria Dimensionale che causa qualche piccola allucinazione, è ben lieto di accogliere Catherine, Fenton e i loro cavalli. Quali cavalli? Appunto.

Inizia qui un’avventura rocambolesca fatta di mistero, false piste, momenti in cui ci si chiede come sia possibile che Harvey Langston sia sopravvissuto alla sua stessa esistenza e di un superlativo uso della tecnica dell’agnizione “con tanto di sbigottimento del pubblico e possibile svenimento dell’intera prima fila”. Il tutto per scoprire che, oltre le nubi del vapore che alimenta il mondo e della magia Strix che lo lascia inquieto, si dipana una intricata rete di verità nascoste da cui dipende il futuro di tutti, tra cui: come vivono davvero i goblin (non avete idea), la conferma alla teoria secondo cui il male si annida esattamente lì dove immagini e non ultima, il posto dove fanno il migliore pudding di tutta Londra. Forse. 

Quel grande atto eroico che è fallire

In effetti, aveva commentato Alford, forse il segreto della vita non è avere successo, ma fallire senza accorgersene.

Lasciatemi dire che ho fatto tanti errori, ma mi chiedo se la pena di vivere senza un Alford sia commisurata ai crimini che ho commesso. Tuttavia, allontanarlo da Harvey sarebbe un atto di ignobile crudeltà; quei due, insieme, funzionano talmente tanto bene che a volte ho messo in dubbio il rapporto tra il “vero” Alfred e Bruce Wayne. Sì, sono parole dure, parole dure di una donna molto strana.   

La recensione di "Molto vapore per nulla" di Stefano Ottaviani 2

Detto questo, se cercate eroi che risolvono ogni cosa come nessuno di noi potrebbe mai fare nemmeno nei propri sogni più assurdi (come quelli dopo aver mangiato pesante a cena), questo libro non fa per voi.  I personaggi di Vapore non sono entità che tutto possono perché vivono in un mondo dove esistono la magia e una tecnologia molto avanzata e, per questo motivo, gli ostacoli che alimentano l’intreccio si riducono a un apostrofo rosa tra le parole “l’ho fatto per il drama”. Sono personaggi tridimensionali a tutto tondo e non empatizzare con loro, villain compresi, è davvero molto difficile. Dentro e fuori da loro, il “male” si annida esattamente dove lo immagini e dove sta più comodo, come nei ricordi per dirne una, ma le motivazioni che l’hanno fatto scattare trascendono il genere del romanzo e abbracciano la quotidianità di tutti noi. 

I protagonisti, inoltre, ribaltano parecchie convenzioni. Per esempio, se vi aspettate la classica storia in cui una D.I.D. (Donnina In Difficoltà) chiede l’aiuto all’eroe scapestrato di turno e viene salvata con tutto quanto ne consegue, non è quello che troverete. Catherine Webster è una donna come tutte noi, Harvey è… Harvey, Zeph Creighton sa bene che “la vigliaccheria è un brutto difetto, ma mai quanto la morte” e il Demone Cremisi è forse la prova tangibile che se non puoi cambiare il mondo, allora nel processo devi calcolare la possibilità di permettere al mondo di cambiare te. Persino l’ormai quasi del tutto inumano Algernon Bankes non può, con il progresso, cancellare le ferite di un cuore alimentato a vapore e magia, ma con una voragine invisibile a occhio nudo che nessuna macchina potrà mai colmare. 

Quello che voglio dire è che, nei personaggi di Vapore, c’è l’esatta ricetta dell’eroismo e la confortante dimensione della realtà di tutti i giorni, più o meno declinata a seconda della bussola morale di partenza di chi la vive, ma inserita in situazioni estreme che ci costringono a superare i nostri limiti. O quelli che crediamo essere tali. Questa realtà, questa “normalità” è la stessa che ci porta anche ad accettare (o meno) che, a volte, quei confini non sono superabili ed è in quel momento che accogliere la sconfitta diventa un atto eroico di per sé. Da quel punto preciso, il bene e il male vengono ridotti a una delle loro caratteristiche peculiari: una questione di scelte su cosa fare di quelle sconfitte dopo averle subite e non (solo) di mera indole.

Leggendo Vapore, dunque, vi troverete a conoscere personaggi che in un modo o nell’altro, tutti, si ricaveranno uno spazietto dentro di voi perché sono “parte di voi”. Personaggi che l’autore è riuscito a caratterizzare con una cura non così comune per un esordiente (soprattutto nelle relazioni che li collegano gli uni agli altri) e che funzionano perché sono insieme. Chissà se la vera sconfitta, alla fine, non sia essere convinti che da soli sia possibile cambiare il mondo, il nostro o quello di tutti.

Un narratore per amico

La prima cosa che mi è piaciuta di Vapore è l’avermi ricordato la sensazione che provavo da piccola mentre leggevo, quando il significato della frase “avere un libro per amico” aveva tutta un’altra dimensione. E il narratore di questa storia è diventato un mio amico sin dalla prima riga. 

Da qualche parte, in quell’universo strano che è il mondo composto da autori, lettori e da quelle creature mitologiche per metà ratti di biblioteca e per metà overthinker che si fanno pagare per esserlo, quali sono gli editor, si sta affermando la convinzione secondo cui i racconti in soggettiva siano la chiave per accedere al livello che ogni scrittore anela di sbloccare: la fantomatica “immersione” del lettore nella storia. Un po’ come quando in Cyberpunk 2077 ci si immerge in una bella braindance e si spera sia una in cui non scopri cosa si prova a morire, choomba

Chiaro come il sole, dunque, che un racconto in soggettiva sia la scelta più adeguata perché ci sei tu, lettore e poi c’è una diretta connessione con l’universo interiore del protagonista che, a sua volta, filtra l’esterno e gli eventi attraverso la lente delle sue percezioni. Senti quello che lui sente, pensi quello che lui pensa e vivi quello che lui vive. Bene, Vapore è una delle tante dimostrazioni di una teoria in cui credo fermamente, dopo la Legge di Murphy e il motore a gatto imburrato.

Ovunque sia il narratore, chiunque egli sia, ciò che determina il grado di immersione del lettore in una storia non è da quanto vicino chi narra osserva gli eventi, o quanto sa di ciò che accade, ma è quanto abilmente riesce a coinvolgere mentre racconta e quanto rispetto ha del sacro patto che il lettore stringe con l’autore nell’esatto momento in cui sceglie di acquistare quella bugia in tante (a volte troppe) pagine che è un libro. 

Il narratore di Vapore è un narratore onnisciente così ben strutturato, che mai una volta ho smesso di credergli. Il mio canale empatico verso la storia e i personaggi (nessuno escluso) è stato un crescendo di coinvolgimento, complice anche la scrittura di Stefano che è capace di trasformare le descrizioni (a volte anche non così corte) in piccoli ologrammi che escono dalla pagina. Per intenderci, quando una certa cosa è successa a un certo personaggio, ho esposto con disordinata indignazione le mie rimostranze a Julia Sienna, minacciando indicibili e insani gesti (“Chiamo la Polizia dei Libri!”) se quella cosa non si fosse in qualche modo risolta. Non era nemmeno uno dei personaggi principali. 

Il narratore di questa storia sa davvero tutto di tutti, non si esime dal commentare ciò che accade e sopra ogni cosa, sa dosare momenti di tensione a momenti in cui la sua ironia tocca dei picchi a tratti geniali, ma… questo non deve ingannare sulla portata dei temi di questo romanzo. E qui, scatta il momento Pedro Pascal…

Che significa essere umani?

Se un romanzo, qualsiasi sia il suo genere (alcuni generi più di altri per forza di cose), mi porta a fare determinate domande e mi offre la possibilità di riflettere su nuove risposte a cui non avevo mai pensato (che generano a loro volta altre domande), allora per me vuol dire che quella storia ce l’ha fatta. Oppure, che è davvero un bene farmi almeno pagare per essere una overthinker patologica. Resta che Vapore, per me, ce l’ha fatta.

«Perché rimanere intrappolati nella nostra forma umana, quando possiamo sfruttare il ferro e il fuoco per oltrepassare i nostri confini mortali? Io non sono stato solo riparato dopo il mio incidente: sono stato perfezionato. Si segni queste parole, signorina Webster: l’era degli uomini è finita. Perché presto saremo molto di più.»

Uno dei cordoni, se non “il” cordone, che anima la narrativa fantascientifica (il What if? per eccellenza) è sempre stato molto più vicino a noi di quanto si possa pensare (in fin dei conti, “il futuro è oggi”). In un mondo, quale è il nostro, dove vincere è imperativo, fermarsi è reato e fallire in qualcosa è una macchia indelebile, l’idea che un giorno potremmo superare i confini del nostro corpo (e quindi anche della nostra mente) grazie al progresso scientifico usato non solo “per ciò che è giusto” (sì, ma per chi?), è qualcosa che solletica già la nostra coscienza collettiva. In fin dei conti, siamo sempre più spinti a credere che il senso stesso della vita sia superare i nostri limiti. Va bene, facciamo finta sia così, ma quali?

Ecco, il primo e più immediato limite invalicabile dell’essere umano è il suo corpo, se non consideriamo i terrapiattisti, un certo numero di americani repubblicani trumpisti e Vannacci; in quel caso, la mente guadagna di diritto il podio scalzando il corpo fisico. Resta che dobbiamo dormire, mangiare, non possiamo fare il bagno se non dopo tre ore dal pranzo e per svariati motivi, presto o tardi, tutti incorriamo in quella fastidiosa e grave forma di malattia chiamata “morte” che spegne ogni cosa: progetti, sogni, tutto (tranne le tasse, che passano a chi resta in vita). Il nostro corpo è la macchina più vicina alla perfezione che conosciamo e insieme quella più delicata e fragile, seconda solo alla nostra mente. Quella sì che è davvero potente, non fosse che è incastrata in una gabbia di carne destinata a diventare cibo per vermi o, se vi sentite creativi e a partire da circa 3.500€ (penso rateizzabili), un diamante.
“Cara, vuoi sposarmi? Ecco, tieni l’anello di diamante della mia amata nonna. Letteralmente.”

Fin dove è lecito si spinga il progresso scientifico è una delle Grandi Domande. Posso io – limitato essere umano, una mente che manovra un corpo come se fosse un mecha – trascendere ogni limite di questa debole struttura di muscoli, sangue e ossa per arrivare lì dove solo un dio (o Nicholas Cage) potrebbe? Secondo Algernon Bankes, questo non solo è possibile, ma è quasi un dovere morale. Uno dei problemi però è che, quando quel limite viene superato, c’è sempre qualcosa o qualcuno che si fa male. Ci scappa il “morto”, se capite che intendo – concretamente o meno. E il primo morto o moribondo è di sicuro il significato stesso della parola “umanità”. Tutto molto bello fin qui, crediamo tutti di sapere che significa “essere umani”, ma… un momento: che significa “davvero” essere umani? 

«Supponiamo che perda una gamba e che i miei ingegneri la sostituiscano con pulegge e ingranaggi. Sarei forse meno umano? E se perdessi poi anche l’altro braccio? Un orecchio? Il naso? Supponiamo di dividere il corpo umano in un insieme di frammenti infinitesimi e di sostituirne uno alla volta con un corrispettivo meccanico: mi sa dire a che punto si smette di essere umani? Qual è il limite? […] No, non lo sa. Perché nessuno lo sa. Noi non abbiamo idea di cosa voglia dire essere umani, signorina Webster.»

Gran domanda. Catherine ha una risposta (o forse lei, Harvey, Alford, Fenton e gli altri, persino Zeph che umano non è, sono la risposta), ma se sia o meno sufficiente non è qualcosa che è possibile dare per assodato con leggerezza. Sicuro è che da questa umanità, qualsiasi cosa significhi, dipende quel futuro che non è oggi, o non ancora. Vapore in questo ci mette davanti a più di uno scenario possibile.

Umani e Non-Umani (siano essi per metà macchine o soprannaturali) convivono più o meno tollerandosi a vicenda, ma questo non fa che porre un costante confronto tra le capacità degli uni e degli altri e su come la specie “limitata” per eccellenza, l’essere umano, possa collocarsi nel mezzo e possa superare i propri confini per ascendere a un livello superiore di potere su sé stesso, e quindi su un mondo che, anche senza magia o tecnologia, è comunque più “forte” di lui e del suo corpo fisico. Necessario, forse, chiedersi come si possa diventare “più” di quello che siamo. O magari no? Di sicuro, anche il mezzo fa la differenza.

Infatti, la stessa società di Bankes, la Archantech Society, “simbolo della tecnologia, della modernità, della supremazia della scienza sulla magia istintiva e brutale degli Strix” è internamente divisa. Da un lato, ci sono scienziati e industriali convinti sia necessario concentrare gli sforzi e gli studi sull’unione tra “magia e tecnica con l’obiettivo ultimo di inserire anche l’uomo nell’equazione fino a trascenderne i limiti corporei” e dall’altro, “una corrente di giovani industriali” propende più per una nuova indagine approfondita di quella magia Strix tanto sconosciuta rispetto a quella umana, la quale è possibile solo attraverso lo studio perché l’umano nasce, ahimè, solo umano e null’altro che tale. 

«Eppure, questo è il futuro, signorina Webster. Non solo gli automi ovviamente, ma la meccanica e la magia in generale. Dobbiamo smetterla di segregarci nel nostro debole corpo di carne e imparare ad accettare la convivenza con il metallo, il carbone, l’acciaio e la magia. Lo sa che la BHI può sostituire più o meno qualsiasi parte del corpo? Arti, pelle, organi… tutto tranne il cervello, oramai. Ma quanti di quelli che se lo possono permettere sono venuti da me per essere perfezionati? Nessuno, signorina, nessuno. La gente non è ancora pronta a rinunciare al proprio corpo, così ho pensato fosse meglio iniziare con dei servitori meccanici.» 

Sia quel che sia, forse è solo un bene se nel nostro mondo almeno la magia “non esiste”, non quel tipo di magia (forse), perché già col progresso scientifico stiamo camminando su un filo diventato sottilissimo a botte di limiti superati e di concetto di “umanità” rivisitato.

Continuando a scivolare lungo questa china, come una palla su un piano inclinato, a un certo punto e più di quanto già non sia così, sarà difficile che il volto positivo della scienza continui a reggere il confronto con il suo lato oscuro. Non sto assolutamente pensando né agli allevamenti intensivi industriali e ai parlamentari disposti a investire per creare maiali con otto zampe per avere più carne, né ai cani robot cinesi progettati per uccidere, né all’ILVA e al quartiere Tamburi di Taranto, né ad altro. Tuttavia, il genere fantascientifico e storie come Vapore mi fanno riflettere ogni volta che insulto Alexa perché troppo stupida, oppure quando lamento la lentezza della robotica nel creare un androide come Markus di Detroit: Become Human o quando mi dispero, letteralmente, perché la medicina non ha ancora trovato una cura a tante, troppe malattie. Una su tutte, anche se siamo 8 miliardi e 73 milioni di persone su questo pianeta. 

Conclusioni

Se siete arrivati fin qui, complimenti. Avete appena superato i limiti della vostra mente! Scherzi (neanche troppo) a parte, messa così sembra che Vapore sia una specie di opera “perfetta”. Lo è davvero? No, certo che no. Non solo perché la perfezione non esiste, tranne che in Charlie Hunnam, Hunter Schafer, in Lateralus dei Tool, nel finale di Sons of Anarchy, nella quinta stagione di Supernatural e nelle rare volte in cui si riesce ad aprire uno yogurt lasciando pulita la pellicola. 

Qualche capitolo è davvero lungo per i miei gusti (come questa recensione), ogni tanto delle digressioni si dilungano un po’ troppo, specialmente quando inserite in alcuni dialoghi (seppure io non abbia mai avuto percezione di trovarmi davanti a un inutile info dumping) e, poco prima del gran finale, il ritmo narrativo subisce un piccolo rallentamento.

Ma… questa è un’opera di esordio. Alla luce di questo, ritratto e dico: sì, per me è “perfetto”.  È “perfetto” come romanzo per chi è congelato dal blocco del lettore, è “perfetto” per vuole avvicinarsi al genere ed è “perfetto” per chi ha voglia di passare un po’ di tempo con un nuovo amico che, forse, è Shakespeare e sa raccontare molto bene una bella storia.

Adesso, non mi resta che aspettare il seguito. Stefano Ottaviani e la Gainsworth Publishing si sentano pure liberi di pubblicarlo “ieri”. Nel frattempo, me ne starò qui, buona buonina, a chiedermi cosa vedono di preciso quegli occhi che, alla fine, si sono aperti all’improvviso verso il nuovo capitolo di un racconto che sì, potrebbe anche non continuare perché Vapore funziona benissimo da solo, ma c’è chi lo dice credendoci davvero e chi mente. 

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