Tina? Ah. Scusa, Tina. che mi sembravi uno di quei maschietti tedeschi. Tanto tu sei un pesce. Aspetta che avrai le tettine. Guarda che mica sei brutta.
[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]Q[/mks_dropcap]uesto è Tina, il quarto romanzo di Alessio Torino. Un racconto lungo che, se letto in pieno autunno, è capace di risplendere di una naturale poeticità mille volte di più di quanto succederebbe se venisse letto nel suo periodo d’ambientazione. Perché Tina, questo romanzo breve che sa di mare e disillusione, di curiosità e dolore e che pare voler rendere eterna proprio quell’estate di crescita e cambiamento che capita nella vita di ognuno (quel momento, quel rito di passaggio in cui non si è più come prima e che arriva così, senza che ce ne accorgiamo), è figlia del filone iniziato nel 1957 da Elsa Morante con L’isola di Arturo.
Tina si sfilò la canottiera e l’appese al gancio delle parananze. Era piatta e senza sedere, ma lei era un pesce, quindi non se ne curava. Gliel’aveva detto Andre che era un pesce, e anche se gliel’aveva detto dopo che aveva fatto l’errore che facevano tutti, Tina ci credeva.
Tina è una bambina di otto anni che tutti scambiano per un bambino. Sarà per le sue canottiere o per quei calzoncini che usa al posto del costume quando, retino alla mano, va in acqua a far strage di meduse, chi lo sa. Intanto, durante le vacanze che sta trascorrendo con mamma e sorella gemella sull’isola di Pantelleria, ogni nuovo arrivato non sembra sottrarsi all’ormai solito cerimoniale che impone di scambiarla per maschietto.
«Tinaaaa!»
Bene così, che sua mamma continuasse a chiamarla. Tina. Tina. Tina. Con quella a che non lasciava scampo. Le venne però il sospetto che lo facesse apposta: un modo per avvisare la Cala e il bar-ristorante Alta Marea che la signora Ottaviani di Urbino aveva due figlie femmine.
La loro è un’estate tutta al femminile: il papà è rimasto a Urbino e non le raggiungerà. C’è una crisi in corso tra i loro genitori a causa di una certa Laura, giovane che prende lezioni di musica dall’uomo. Il fulcro dello narrazione di Alessio Torino sta tutta in questa dinamica familiare che viene messa in crisi: non c’è tra in Tina, o meglio ci sarebbe anche e resterebbe sul filo della linearità, ma ciò che traspare maggiormente dalle pagine di questo romanzo di formazione (perché di questo si tratta) è proprio la crisi: un crescendo di nevrosi prima individuale e poi collettiva che investe Tina, la mamma, sua sorella Bea e tutta una serie di personaggi secondari che animano l’isola con le loro storie di vita più che con le loro azioni.
Finito il pranzo, squillò il cellulare, ma era Sonia Cell, un’amica che lavorava all’Ersu con la mamma. Fu liquidata in un minuto e Tina aveva capito perché. Era la mamma che sperava che il babbo telefonasse, e lei lo sapeva come se il cuore della mamma fosse nel proprio petto. Tina sapeva le cose meglio degli altri.
Si tratta della nevrosi di Tina che, silenziosamente, riversa tutto l’odio per quella situazione che, pur essendo solo una bambina, riesce a capire e la riversa su quelle meduse a cui, instancabilmente, dà la caccia in mare, come se per magia si trasformassero nel capro espiatorio di tutti gli errori dei grandi: suo padre, in primis ,che le ha tradite per un amore più giovane che sua madre, con disprezzo, chiama “il suo nulla”. A questa situazione si aggiungono tutte le avvisaglie tipiche della preadolescenza. Tina è inquieta anche perché, sull’isola, subisce il fascino delle cose e delle persone: vede il mare come luogo ideale per l’avventura e sarà la curiosità verso Parì, nuotatrice parigina e fidanzata di Stefano, che la farà vacillare. Tina cerca la novità, il contatto, desidera conoscere cose come se la loro vacanza a Pantelleria fosse l’occasione perfetta per un’avventura, ma al tempo stesso ne ha paura. Agli occhi degli altri, non si sente pienamente riconosciuta per quello che è.
«Sai come voleva chiamarle lui?», disse la mamma, mettendo in moto.
«No».
«Kezia e Lottie».
«Come?»
«Tina Kezia e Bea Lottie».
«Che razza di nomi sono?»
«Che nomi sono… Sono i nomi di due bambine in uno dei suoi racconti preferiti. Di una scrittrice che mi sfugge sempre il nome. Comunque una mezza australiana. Immagina all’appello alla Pascoli di Urbino. Kezia Ottaviani. Lottie Ottaviani. Capisci che egoismo? Ma tanto poi all’anagrafe ci sono ci sono andata io, che lui doveva suonare».
Il romanzo di formazione di cui questa ragazzina è protagonista è fortemente individuale benché sia al centro di una collettività. I personaggi comprimari, infatti, offrono una gamma di tipi umani, forti e deboli: a partire dalla mamma, la signora Emma Ottaviani, che si culla tra la delusione per la propria vita coniugale, passando per Bea, sorella gemella di Tina e sua nemesi, fino ad Andre, il ristoratore dell’isola, a Charles, canadese che cerca in quel luogo la possibilità di dimenticare il dolore per la morte di sua moglie Angela e purtroppo non la trova, a Stefano il corso e Parì la parigina. L’unica figura in grado di catalizzare il lettore con la sua figura non conforme, le sue domande e i suoi silenzi rimane Tina: delicata e coraggiosa, silenziosa, ma sempre presente.
«Aspetta un attimo», disse Tina, «controllo una cosa».
La cosa, agli occhi di Bea, sembrò il cimitero delle meduse. A quell’ora la poltiglia mandava i riflessi di una pozza di benzina. Spandeva un odore nauseante. Tina avvicinò le mani al naso. Puzzavano di pesce e di limone che Andre aveva spremuto nella bacinella per fargliele lavare. Si spinse in acqua di qualche passo. Le meduse erano dappertutto – era il mare che puzzava in quel modo?
Alessio Torino scrive una storia in divenire e col finale a sorpresa, al cui centro c’è sempre e solo il concetto di identità. Si cresce e si capisce chi si è e cosa si voglia diventare solo quando la nostra vita subisce uno scossone. Si tratta della nota sfasatura tra infanzia ed età adulta, in cui niente sarà come prima. Un romanzo in cui la prosa si fonde con il paesaggio, che arriva persino a personificarsi nelle figure onnipresenti delle meduse e del maestrale che impedisce ai traghetti di salpare. Il ritratto di Tina sembra essere tratteggiato con pennellate lievi, proprio come quelle dell’illustrazione di copertina, ma non nasconde forza e disperazione, caratteristiche innate e vitali in lei, non più bambina, ma non ancora adolescente, che altro non vuole fare, se non cercare di reagire a tutto quello che ha intorno.