Eravamo figli della classe media di un paese occidentale medio, due generazioni dopo una guerra vinta, una generazione dopo una rivoluzione fallita. Non eravamo né poveri né ricchi, non rimpiangevamo l’aristocrazia, non coltivavamo sogni utopici e la democrazia ci era ormai indifferente. I nostri genitori avevano lavorato, ma mai al di fuori di uffici, scuole, poste, ospedali, amministrazioni. I nostri padri non portavano né tuta né cravatta, le nostre madri né il grembiule né tailleur. Eravamo stati educati e formati da libri, film, canzoni – dalla promessa di diventare individui. Credo avessimo il diritto di aspettarci una vita diversa.
Tutto nell’introduzione a Faber di Tristan Garcia suggerisce che la storia raccontata potrebbe essere come tante altre: animata dai personaggi anonimi che popolano le rivolte studentesche in una piccola realtà francese, mai veramente arresa alle differenze borghesi. Le parole “medio”, “media” ridimensionano quella che sarà la protagonista principale: la memorabilità dell’adolescenza come parte della vita dove tutto può succedere e tutto viene sepolto.
La storia percorre la vita di Faber e la sua amicizia con Basile e Madeleine. Nonostante siano molto diversi tra loro, sin dalle elementari il loro rapporto si fonda su equilibri ben definiti: Basile l’imbranato, Madeleine a tratti goffa ma decisa e Faber, colui che non si arrende al trascorrere del tempo, ai cambiamenti che minano la libertà di diventare ciò che si desidera. Avventurarsi nei meandri di un’età come l’adolescenza allontana il reale e rischia di diventare un’enorme frase di circostanza pronunciata da chi quella parte della vita l’ha vissuta e l’ha classificata come vacanza dalla responsabilità adulta e dall’infantilità bambinesca. Il problema di ogni età è il suo essere tragicamente reale per chi si ritrova nel suo limbo, per cui sembra che, vivendola, il tempo non passi mai e, una volta superata, sia passata troppo velocemente. Calibrare lo sguardo e, soprattutto, la scrittura per raccontare una parte della vita non facile da inquadrare, è ad alto rischio banalità. Tutto può ridursi a un rammentare nostalgico, troppo sentimentale, che eviscera i ricordi dalla loro vera identità e li rende neutrali all’autore, prima che al lettore. Non succede a Tristan Garcia probabilmente per alcune sue intelligenti trovate.
Prima di tutto il racconto per età dei protagonisti è una narrazione dinamica, dai capitoli brevi e in costante movimento verso il presente. Quello che può apparire come il cadenzare ridotto alla cronaca di un contro alla rovescia, è in realtà una serie di fasi d’azione nelle quali compaiono frammenti e riflessioni più estemporanee. Perché di tutti i ricordi la coscienza di averli vissuti arriva dopo:
Poi l’immagine del passato si oscura e quella del presente, più viva, s’impone. E la nostalgia trattiene nell’ombra il bagliore che svanisce. Così funziona l’indebolimento delle sensazioni negli esseri umani: la maggiore lucentezza della sensazione presente, invece di offuscare lo splendore del passato, lo esalta; così siamo pronti a credere che l’immagine che adesso è più scura sia quella che è stata la più chiara. Ma se chiudiamo gli occhi, vediamo due fonti di luce distinte: la fonte superiore del ricordo, che santifica il passato e lo magnifica, e la fonte esteriore del mondo così com’è, che vi sovrappone il presente e lo lascia trionfare.
La storia di Faber è già avvenuta, si tratta di parte del memoir di uno dei protagonisti, eppure al realismo contribuisce uno stile documentario, una geografia ben precisa: Mornay è la tacita testimone delle avventure, un insieme di strade percorse e ripercorse che diventeranno familiari. La piccola e fittizia città di provincia è adatta a isolare le vicende, rafforza le origini dei protagonisti legandoli nello spazio e nel tempo a un luogo che diventa scrigno di memorie e mappa ideale della metamorfosi.
Uno degli elementi decisivi è costituito dalle lotte studentesche che lasciano intravedere un indizio più grande che esula, ancora una volta, dalla storia oggettiva: le proteste e il loro prolungarsi nella scuola dei tre protagonisti sono indizi di un malessere intestino, di un’opposizione diversa dall’idea originaria della protesta. Basile, Madeleine e Faber incarnano i dubbi generazionali e i sogni adolescenziali, di quel tempo in cui si può essere chiunque ma si sceglie di vivere per quello che alla fine si è.
È impossibile non menzionare Faber, difensore delle ingiustizie, sempre più maturo della sua età, un genio consapevole delle sue capacità, pericolosamente in bilico tra bene e male. È lui l’adolescenza, un personaggio che si fa concetto tanto da assumere un carattere esoterico. Perché Faber all’adolescenza non ha rinunciato e ha preferito l’esilio piuttosto che il tradimento dei propri ideali, come dimostrano Basile e Madeleine. Loro, naufraghi di una vita di cui si sono accontentati, addossano la colpa all’amico perché è Faber che, continuando a vivere, alimenta la fiamma delle speranze e della convinzione che i figli avrebbero cambiato il mondo lasciato in eredità dai padri.
Ho capito che ero un provinciale e che probabilmente lo sarei rimasto. Questo significa che esistevo solo a metà, che ero in parte già morto. Mi sentivo intorpidito, paralizzato dal un lato. Questa vita mista a non-vita era il mio destino. E questo destino mediocre mi piaceva. Poi ho guardato Faber. Ho capito che non avrebbe mai accettato queste verità piatte, deludenti e placide. Quelle che ci fanno ammettere che esiste un reale fuori dalla portata della nostra volontà. Lo scorrere del tempo. Il quotidiano, l’ordinario. Le occasioni colte e quelle mancate. Un pezzo di tomba già nella culla. L’idea che quello che aspettiamo non arriverà mai veramente. La sensazione di non essere la capitale di niente, semplicemente di un reame che non conosceremo mai.
Il mistero e il noir sono i motori principali del romanzo, anche lì dove i ricordi sono un semplice elenco di fatti. Garcia è stato in grado di raccontare anni difficili riempiendoli della scoperta del corpo, della sessualità, delle idee politiche, della metamorfosi nei gusti musicali che fanno da sottofondo alla crescita dei protagonisti. Prima di lasciare il posto all’identità, le influenze esterne giocano un ruolo fondamentale nella scoperta dell’individuo mentre l’opera depositaria dei ricordi sedimenta la personalità.
(Immagine copertina di François Bouchon / Le Figaro)