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Black Mirror: la distopia impoverita

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]N[/mks_dropcap]el film di Oliver Stone W, che tratta della presidenza di George W. Bush e delle sue scellerate politiche imperialiste, il protagonista è Josh Brolin: interpreta un Bush scimmiesco e non troppo brillante, vessato da un padre implacabile, non troppo a suo agio nella politica estera; un ragazzone texano finito per caso al potere. Ciò che vediamo è uno stereotipo, una convinta presa per i fondelli. Cosa non funziona in un film del genere? L’ironia greve, lo snobismo con cui si stigmatizza un fenomeno complesso e lo si trasforma in una macchietta. In Black Mirror troviamo lo stesso tipo di problema.

Una donna vive un’esistenza idilliaca: si sveglia la mattina e si fa un selfie, fa colazione e fotografa la sua brioche, a lavoro ha buoni rapporti con tutti e attraverso un app vota le sue interazioni, è ossessionata dalla popolarità. Scopriamo che l’intera società in cui vive lo è, la popolarità funziona da livellatore economico e sociale, non è difficile intravedermi la degenerazione del nostro stile di vita basato su pomeriggi inerti spesi sui social network. Ma questa società futura che aspetto ha? Colori pastello, villette borghesi, paesaggi da campagna pubblicitaria: l’intento è creare una discrasia fra l’ossessione per l’apparenza e la reale falsità dei rapporti. Questo è il tono della prima puntata della terza stagione di Black Mirror, in cui possiamo notare – anche più amplificato del solito – il meccanismo con cui Charlie Brooker concepisce la distopia. Gli universi dell’inglese vivono di una perenne critica dell’esistente, perpetrano una forma totalizzante di luddismo tecnologico, si nutrono di una critica al mondo contemporaneo ingigantita e portata a elemento fondante di un’ipotetica società futura. Ne risulta una visione del mondo impoverita, privata delle antinomie che sono proprie di un universo complesso, una distopia talmente grigia da valere come esorcismo e non come reale momento di riflessione.

Non bisogna andare tanto lontano per capire quanto questa strada risulti infruttuosa: Orwell incrociava il controllo linguistico alla propaganda continua, il feticcio del nemico alla riscrittura della storia, Huxley inscenava una minuziosa ingegneria sociale coadiuvata dal controllo statale dell’umore attraverso la droga; in tutte e due i casi si incrociavano fattori diversi, anche contrastanti fra loro, pur di donare tridimensionalità a una certa idea di futuro. Nella narrazione di Brooker il tema di ogni puntata spicca con tanta veemenza da risultare l’elefante nella stanza, una vistosa trave che non ammette pagliuzze accessorie. Questa fantascienza non ci dice niente del domani perché elimina la possibilità di strade collaterali, allo stesso modo ci dice poco dell’oggi perché eleva a feticcio paranoie e devianze che nel nostro stile di vita sono celate, nascoste fra mille altre, dunque in grado di agire in modo più subdolo e decisamente meno scontato.

In un saggio su Terminator 2 (contenuto nella raccolta Di carne e di nulla edita per Einaudi) David Foster Wallace coniava il termine “porno ad effetti speciali”. Come nel porno la trama e la recitazione sono elementi secondari che riempiono le fasi morte fra un amplesso e l’altro, così nei film d’azione lo svolgimento è solo lo sfondo su cui si innestano le scene più movimentate; lo spettatore lo sa e calibra la coscienza in modo tale da elaborare solo gli stimoli che si adattano a quella determinata forma. Lo spettatore di Black Mirror agisce con la medesima passività: scruta rapito lo svolgersi di consunti meccanismi narrativi nell’attesa di sentirsi investito dalla riflessione di turno sulla pericolosità della tecnologia. L’azione è portata avanti da automatismi del racconto che denunciano l’ansia di creare un prodotto-puntata che funzioni da unità autosufficiente, un mondo chiuso solo abbozzato. Questa tendenza è accentuata dalla nuova collocazione nel panorama Netflix: ci ritroviamo a riconoscere Bronn di Games of Thrones, Doug Stemper di House of Cards, gli ammiccamenti a Stranger Things. Il tasso di fan service è altissimo, così come gli inside jokes che strizzano l’occhio alla condizione di spettatore compulsivo di serie tv.

Guardare Black Mirror è rassicurante: riconosci l’universo intradiegetico della nuova televisione e t’illudi di riflettere sulla contemporaneità attraverso metafore grossolane, quando hai finito puoi discuterne su Whatsapp o Facebook, in qualche modo ti senti acculturato. Se Mr. Robot punta sul sensazionalismo della paranoia e del complotto – e dunque mistifica l’oggetto dietro una lente di allucinata banalità – Black Mirror agisce sullo spettro opposto: reifica fino a rendere lo sviluppo tecnologico un vettore univoco che non contempla gli inaspettati cambiamenti dell’agire umano. Le società ideate da Brooker sono ipotesi parossistiche dell’oggi, le coscienze umane messe in scena sono solo macchiette dei nostri comportamenti peggiori, si colorano di una bidimensionalità disarmante. Analizziamo, analizziamo ogni dettaglio e perdiamo il senso del tutto, ci sorbiamo granitici blocchi di immagini in movimento senza poter ragionare sull’origine degli stimoli: forse è questa la vera distopia.

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