Tutto il nostro sangue: la visione di Sara Taylor

Non era abbastanza grande per essere il dente di una mucca. Probabilmente era appartenuto a un cervo che era stato aggredito dai coyote. Oppure era da poco morto di vecchiaia, sotto quel cielo, con il vento che si portava via la sua anima e i piedi delle Blue Ridge a fare da contorno alla scena. Non un brutto posto per morire, tutto considerato.

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]C[/mks_dropcap]’è un punto, più o meno a metà di Tutto il nostro sangue, in cui il lettore potrebbe sentirsi smarrito, abbandonato dall’autrice Sara Taylor tra le paludi e le sabbie e i sentieri di gusci d’ostrica delle Shore. Dopo cinque o sei capitoli in cui si susseguono stupri, fughe ed evirazioni notturne si è un po’ frastornati, e la domanda è la seguente: dove ci sta portando Sara Taylor? Siamo sicuri che si tratti di un romanzo, e non di una semplice raccolta di racconti?

Per quanto legittima, la domanda è anche fuorviante, così come il ricorso a classificazioni e generi che servono a rassicurare più certe direzioni marketing che i lettori – soprattutto, poi, quando si è alle prese con una generazione di scrittori, quella a cui appartiene la stessa Taylor, in grado di gestire temi e soluzioni formali tra i più disparati (la tradizione, direbbe qualcuno) in un’unica opera. Con un po’ di pazienza, dunque – la stessa che si mette nella ricostruzione e nelle ricerche imbastite a partire da un albero genealogico, ad esempio – il lettore si schiarirà le idee e pian piano vedrà riannodarsi i fili del racconto. Non tutti, però.

Tutto il nostro sangue copre un arco narrativo che va dal 1855 al 2143. Ambientato nelle Shore, un arcipelago di isole al largo delle coste della Virginia, segue le vicende di due famiglie rappresentate graficamente nell’albero genealogico posto all’inizio del libro, realizzato da Emma Lopes. Taylor si diverte ad andare avanti e indietro nel tempo, mescolando generi e registri, raccontando ora in prima persona, ora in seconda e poi in terza; si comincia con una storia di violenza e tossicodipendenza del 1995 riportata dall’adolescente Chloe, si prosegue nel 1933 con un amore da feuilletton che apre a un futuro di follie, fughe e tentati suicidi, si sprofonda in un primordiale ’800 di praterie e stregonerie da mito fondativo, e così via fino a una sorta di detective story che vede di nuovo protagonista Chloe nel 2010 e a due distopie, quella del 2037 e quella del 2143, in cui l’umanità è stata quasi spazzata via da un morbo tanto misterioso quanto inarrestabile. In tutto questo non saranno poche le volte in cui il lettore si vedrà costretto a tornare all’inizio del volume per consultare proprio l’albero genealogico e cercare di capire su quale ramo si sia appollaiata ora la voce di Sara Taylor, quali collegamenti ci siano tra questo o quell’altro avvenimento, fino allo smarrimento di cui sopra.

Inizialmente Tutto il nostro sangue si presenta come una saga familiare in forma di romanzo – forse un romanzo di racconti, un po’ come per Il tempo è un bastardo di Jennifer Egan e altri esperimenti simili come Olive Kitteridge e il nostrano Sofia si veste sempre di nero. Ma nel corso dell’opera – come già detto – ci accorgiamo che non tutti i fili sono riannodati, che non tutti i rami dell’albero genealogico sono percorsi, esplorati a fondo. A volte i personaggi si sfiorano soltanto, alcune parentele restano svelate a metà, la storia sembra avanzare per poi richiudersi di colpo in un vicolo cieco (o in un guscio d’ostrica, per restare in tema).

Allora sorge il sospetto che il vero protagonista del libro non sia tanto l’intreccio tra la famiglia Day e la famiglia Lumsden quanto l’arcipelago in cui la storia è ambientata. E ne abbiamo certezza, finalmente, proprio nei capitoli (racconti?) ambientati nel futuro, che sono la parte filosoficamente più robusta di tutto il libro, quella che ruota attorno alla natura, dando così ordine e grazia, finalmente, all’apparente girovagare senza meta tra amori da soap opera e violenze difficilmente riferibili fuori da un contesto strettamente narrativo.

Viene in mente un parallelo con un’opera che c’entra poco con i romanzi di racconti sopra citati e solo in parte con la letteratura southern gothic cui Taylor viene accostata; un’opera che è, peraltro, uno strano fumetto, che piega il genere (o il medium, in questo caso) fino a farne uno strano oggetto narrativo e poetico. Mi riferisco a Qui di Richard McGuire, in cui si racconta, attraverso una sorta di camera fissa, la storia di un singolo appezzamento di terra attraverso i millenni; in cui, soprattutto, la presenza umana – per quanto viva, piena di compassione e dignità – sembra poco meno che un accidente.

Proprio come in Qui, raccontato da voci simili a interferenze e spesso fuori campo, anche in Tutto il nostro sangue la storia principale, quella che in genere rappresenta la spina dorsale di un romanzo tradizionale, è nascosta. I collegamenti tra ciò che avviene alla mezzosangue Medora nel 1855 e ciò che resta della sua famiglia sulle Shore nel 2143 ci sono, affidati tanto a un residuato d’epoca proibizionista quanto al frammento di un dente di mucca o a un armadietto che contiene erbe medicinali e altri intrugli, ma lo sviluppo dell’intreccio, la parte mitopoietica, è affidata all’immaginazione del lettore. È come se la storia-scheletro del romanzo fosse un flusso inarrestabile di diramazioni che il lettore sa esistere, e che però restano fuori dall’occhio di bue: Taylor decide di isolare solo alcuni degli avvenimenti topici della famiglia Day-Lumsden, e le sue scelte potrebbero essere non meno arbitrarie di quelle che avrebbe fatto un lettore qualsiasi al suo posto.

Ecco dunque che i capitoli non sono né racconti né possibili stazioni di un romanzo-saga, ma semplici sguardi, per quanto approfonditi, su ciò che accade ad alcune persone in un determinato momento e, soprattutto, in un determinato luogo, che sono sempre e comunque le Shore. Insomma, è come se la storia principale esistesse a prescindere dallo sguardo della voce narrante, che però finisce comunque col modificarne, con l’osservazione, le singole diramazioni. Per usare un paradosso, potremmo dire di trovarci in presenza di un’opera modulare che ipotizza la scomparsa dell’autore e però deve comunque arrendersi alla presenza della sua voce, alle sue scelte.

Senza tirare in ballo le tendenze letterarie contemporanee o le cosiddette scienze dure – per cui dovremmo citare da un lato la forza centrifuga che fa implodere un romanzo, come nel caso dell’incompiuto 2666 di Roberto Bolaño, e da un altro ci troveremmo a dover ricorrere al solito principio di indeterminazione di Heisenberg, che Matteo Bordone tempo fa ha applicato persino alle elezioni politiche americane – possiamo dire che tutto questo è coerente con la visione di Sara Taylor. Visione che viene prepotentemente a galla nell’episodio ambientato nel 2010, quando è proprio Sally Lumsden, la “zia folle” di Chloe, a spiegare:

[…] Contagi che potevamo imputare solo a Dio, perché non capivamo cosa stesse succedendo. Ora che abbiamo la teoria dei germi e le tute anti-contagio pensiamo di essere immuni a questo tipo di eventi, che saremo in grado di impedirli. Così, quando ricapiterà, il che è inevitabile, e i nostri medici e i nostri scienziati non riusciranno a fermarne la diffusione, il mondo cadrà in preda al panico. E se il motivo del panico sarà la paura di non riuscire a preservare i singoli individui, allora ci saranno ottime ragioni per disperarsi. Ma se l’obiettivo è la conservazione dell’umanità, allora c’è qualche speranza.

Dopo che, del resto, la stessa Chloe aveva detto:

Le specie si estinguono, qual è il grande dramma se una di queste specie sono gli esseri umani?

In altri termini, Taylor ci accompagna in un viaggio che potrebbe persino prescindere dalla presenza umana, facendone un corollario proprio attorno alla magnifica presenza, d’altro canto, della natura delle Shore. Possiamo dire che la natura sia, per Taylor, ciò che in effetti Dio rappresentava di solito nella letteratura southern gothic tradizionale, quella di autori come Flannery O’Connor, William Faulkner o del “nonno” Sherwood Anderson. Taylor ci lascia credere, per duecentoquaranta pagine su trecentotrentasette, di essere sulle tracce di esseri umani alle prese con l’assenza di Dio e coi soliti quesiti che abbiamo assorbito – per tramite di quei profeti americani sopra citati – dal Libro di Giobbe o dall’Ecclesiaste; invece ci sta raccontando la splendida avventura di un avamposto della natura selvaggia su cui brulica innanzitutto la vita di ostriche, polli, cavallini selvaggi, vipere e pivieri. Il punto, l’ossessione tanto della Taylor quanto dei suoi personaggi indecisi se restare a vivere sull’acqua o andare via, sono le Shore, nient’altro che le Shore; e non è un caso che il nome di Dio, così come quello degli Stati Uniti d’America, venga pronunciato pochissimo.

Non bisogna però pensare che questa visione – che ho definito filosofica, ma che è anche fortemente religiosa per come la intendeva un autore come Colin Wilson nel suo L’outsider – sia nichilista. Se la presenza umana è un accidente almeno quanto lo è quella di una voce narrante, questo non significa che le vite degli abitanti delle Shore non siano comunque preziose, proprio come lo sono quelle di chi vive sull’appezzamento di terra di Qui. Un pregio della scrittura di Sara Taylor è la capacità di trasmettere l’affetto per i suoi personaggi, soprattutto quelli femminili, per il loro lottare o arrendersi di fronte alla violenza insensata dello stare al mondo, di fronte alla caduta vertiginosa di una famiglia, il loro atteggiamento anche involontario di preghiera quando sono immersi nella natura e nell’atmosfera delle Shore.

Ed è questo l’altro punto di forza di Tutto il nostro sangue: l’atmosfera, l’umidità delle paludi di Chincoteague o Assateague, quella che ci assale, come lettori, tanto nei boschi frequentati da Chloe nel 1995 quanto nelle baie purificate dal morbo e battute dal Mezzo Uomo Simian nel 2143; in questa rappresentazione Sara Taylor riesce a toccare dei picchi letterari in cui gli ingombranti paragoni (soprattutto con Flannery O’Connor) vengono dimenticati, giacché poi proprio quest’atmosfera diventa lo strumento ideale per approdare alla visione filosofica e religiosa potente di cui si è detto – se vogliamo inusuale per un’autrice nata nel 1988 e ancora al suo primo romanzo.

In tutto questo, Taylor dà prova, oltre che di una cura pressoché maniacale per i dettagli, di una buona padronanza di toni e soluzioni stilistiche diverse (sempre comunque nell’alveo di una scrittura tipicamente americana, tutta, per così dire, al servizio della storia), facendosi ora fortemente espressionista, ora sfiorando il grottesco o il melodrammatico, lasciandosi talvolta prendere la mano da similitudini e metafore – alcune molto poetiche, altre meno riuscite – e inceppandosi nei meccanismi tipici dell’ingegneria romanzesca – quando deve raccontarci, al trapassato remoto, cosa ha fatto o pensato un personaggio in un certo arco temporale; per approdare tuttavia a quella splendida voce spiritual, purificata e simbolica, che non a caso ci accompagna nell’ultimo capitolo ambientato nel 2143: quando, nonostante il morbo e le deformità, le Shore sembrano finalmente e senza più esitazioni un bel posto in cui vivere, in cui uomo e natura hanno stabilito una fragile, e forse addirittura nobile, tregua.

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