Romano alzò la testa al sole e riguardò verso Gioia del colle che luccicava sotto il sole con i due campanili: spuntava appena da sopra le querce che la circondano. E la via di Santeramo, con i mulinelli di polvere che s’alzava in nuvolaglie spazzate dal vento, ai lati del carro, dove s’intravedevano, sotto il paese, pezzi dei terreni sottratti ai boschi e alla macchia, col grano tagliato che essicca al sole o con gli ulivi verdi delle prime olive e i mandorli con i fiori che appassiscono. […] Romano si rimise a sedere, dietro il pariete a secco, e rigirava le parole tra i denti: bofonchiando: “Mannaggia alla puttana… ma qua c’abbiama a vendicare… l’infame, l’infame, che sto a fare qua? io c’ho da vendicare… m’ò da vendicare…”.
[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]S[/mks_dropcap]pesso i romanzi nascono da eventi realmente accaduti, da piccole vicende, talvolta di provincia, che avvengono a margine della storia ufficiale, di quella riportata nei libri, che, per necessità di cose, non può raccontare la vita delle persone, di quelli che non ricorda più nessuno a distanza di anni. Ma talvolta accade che qualcuno si interessa alle loro vicende e riporta a galla piccole gesta eroiche o disperate, piene di cognizione o non volute, di persone che un po’ per caso, un po’ per incapacità di tirarsi fuori, si ritrovano immerse in qualcosa che non riescono a identificare, che li vede protagonisti e che li trascina sino a farli diventare parte di gesta che si collocano a cavallo tra l’eroico e l’antieroico.
È nelle gesta di Pasquale Domenico Romano, ex sergente dell’esercito borbonico, nel 1861, in un Sud alle porte dell’unità d’Italia, in attesa che la popolazione diventasse e si sentisse realmente italiana, che ritroviamo la volontà di opporsi al cambiamento e la casualità del ritrovarsi in qualcosa più grande di sé stessi. Le vicende, ripescate da Marco Cardetta e pubblicate da Liberaria, nel romanzo Sergente Romano, prendono la forma di una narrazione estremamente ritmata e con un linguaggio studiato, ed è proprio da qui che partirei, Marco. Nelle pagine finali del libro c’è una nota che inizia così: “Non mi riconosco nella grammatica italiana, diceva un comico poeta che ebbi per riferimento fin dalla fanciullezza […] Questa nota sta a dirvi che il libro è zeppo di sbagli e storture, per lo più volute: ondivagazioni nelle occorrenze di alcuni termini, nonché nei ritmi”. Da cosa nasce questa scelta di legata all’errore grammaticale?
Beh, come spiego nella nota, l’errore ha a che fare con il fuori-norma, con l’andar fuor dalla norma.
E qui l’errore e lo star fuori è di tutto: della storia raccontata prima di tutto, e dello “star fuori” dei locutori, dei parlanti di “Sergente Romano”, che sono dei fuori-legge. Gli errori grammaticali, dunque, non sono del narratore, ma dei personaggi, anzi, dei nomi-parlanti-che parlano nel libro. E perché questo? Perché questi nomi, queste persone, questi cristiani, sono degli analfabeti, ignoranti, contadini del Sud e del 1861: non si poteva certo pretendere che parlassero forbito. Questi sono i contadini che si affastellano nella vicenda e la affollano letteralmente in una coralità confusa, da caos di nascita di una nazione. Nella primavera del 1861, il Sergente Romano, Pasquale Domenico Romano, ex sergente del disciolto esercito borbonico, del fallito e spodestato regno borbonico, torna a casa, suo paese natale Gioia del Colle, e trova borghesi, massari e nobili nostalgici che già tramano per la restaurazione del Regno Borbonico: mettono Romano a capo della parte militare della faccenda e lo circondano, e Romano dis-volutamente sempre più si circonda, di miserabili, pessimi parlanti e pessimi combattenti, in una rivoluzione che è più un Casse-pipe e un Armata Brancaleone che un insieme di eroismi.
L’uso però che faccio del finto dialetto in questo libro, e che assomiglia più all’Eduardo (De Filippo) che parla e scandisce male, o al Totò che ben conosciamo, non ha solamente una funzione mimetica (che è il punto d’approdo minimo e primario essenziale per la verosimiglianza della storia), ma ha anche e soprattutto una funzione epistemologica relativa alla mia esplorazione dell’antropologia del Sud, attraverso appunto il linguaggio, il mito, la visione. La lingua di questi parlanti è una lingua storta soprattutto nei ritmi e nella semantica, perché ritmi, sintassi, gerarchie di valori e semantica, sono un cosmo che si muove in tutt’uno… in maniera “relativa”, per dirla con Einstein, e i cui elementi s’influenzano a vicenda in una sorta di ideologia implicita. Questo porta a squarci verso un mondo nuovo, antico, diverso da quello che viviamo e che è l’intento primario del libro: cantare un mondo contadino e pre-moderno, che non esiste più. Parlare dell’antico e del moderno, delle civiltà contadine e della globalizzazione appiattente.
In Puglia molti autori, alcuni dei quali conosciuti anche a livello nazionale, hanno tratto i loro primi romanzi dalle storie popolari e dalla cultura locale, mi riferisco principalmente a Percoco di Marcello Introna (da poco ripubblicato per Mondadori), ma anche alla verosimiglianza utilizzata nell’ultimo romanzo di finzione di Nicola Lagioia ambientato in una Bari possibilissima. Nel tuo caso da cosa nasce questa necessità, e perché proprio le gesta del Sergente Romano?
Perché di tante storie del brigantaggio proprio Romano è molto semplice: è una figura estremamente affascinante, atipica e particolare nel contesto del brigantaggio post-unitario, perché è un piccolo proto-letterato (aveva imparato a scrivere nella maturità, durante la carriera militare, nei dieci anni a Napoli) e dunque abbiam di lui lettere e canzonette, con slanci retorici e lirici tipici ottocenteschi, e poi errori e zoppicature tipiche dell’illetterato. È un idealista ed è donchisciottesco. Per quanto riguarda la questione Puglia… a me la Puglia interessa relativamente. Io son tornato a vivere in Puglia in qualche modo anche e soprattutto per lavorare a una ricerca che mi sta coinvolgendo in questi anni e di cui questo libro “Sergente Romano” è il primo piccolo pezzo, il primo approccio. Non sento una necessità del locale e di parlare di cose che conosco. Anzi, semmai il contrario. Mi sento e considero un ricercatore. Per me fare arte e scrivere è in realtà un pretesto per conoscere e ricercare, per studiare. Come già accennavo, la mia ricerca sul banditismo post-unitario è una ricerca sull’ancien régime e sulla modernità, sullo schiacciamento delle culture tradizionali e la scomparsa della cultura contadina e pastorale. È un lavoro che ha molto a che fare con Pasolini ed Ermanno Olmi. Ma con una consapevolezza in più, forse, data dal fatto che lavoro in un mondo ancora più vecchio del loro: la consapevolezza di Raimon Panikkar sullo stato delle cose. Io sto cercando nel pre-moderno, ciò che Panikkar e altri cercano nell’oriente. Una fonte rigenerativa per una modernità derelitta in cui le persone non si reggono più in piedi, da sole o insieme (inutile citare il cumulo di problemi individuali-psicologici e sociali).
E dato che l’Unità d’Italia è stata anche e soprattutto una rivoluzione liberale, ateista e iper-laicista, una rivoluzione francese a scoppio ritardato, io cerco nello scontro di culture, antropologie e civiltà (tra quella reazionaria, retrograda, quasi-ancora-feudale del Sud, e quella laicissima e liberalissima dei garibaldini e Savoia liberatori-conquistatori) una frizione che renda visibile ciò che non lo è più: non lo è più perché siamo ben oltre quel laicissimismo e liberalissimismo, e quindi non riusciam più a vedere né conosciamo com’era prima.
A me interessa la complessità di quel Sud, che è mediterraneo e che è Oriente: quel Sud che nella cultura contadina ha in sé l’eredità delle sue mille culture, di millenni di copule multietniche; quella cultura pastorale che è cultura universale e la prima cultura antica per eccellenza, in tutto il mediterraneo; m’interessano le eredità nel mondo contadino del mondo greco, che a sua volta eredita il medio-oriente e l’oriente.
Ritorno ancora sullo stile del romanzo, alla mera narrazione si alternano documenti di vario tipo, dalla registrazione delle morti in battaglia ad articoli di giornale a lettere. Quanto è stato complesso mantenere il ritmo alto, come riesci a fare effettivamente, con il desiderio di inserire queste documentazioni?
I documenti giocano il ruolo che devono giocare di contrappunto alla narrazione, dato che la narrazione dei capitoli, come già accennato, è tenuta volutamente bassa, come un reporter che segue continuamente Romano e non vede se non ciò che può vedere Romano. Non è stato difficile inserire i documenti rispetto al ritmo, perché anzi se danno uno stop, è proprio giusto che lo diano. E comunque il ritmo del libro non è alto per un interesse preminente a tenere il lettore sulla pagina. A me interessava un certo modo di buttare lì i fatti, che si affastellassero in un certo modo, e che rendessero la pienezza della vita, ributtante e ribollente, nel bello e nel brutto. Una concezione della vita nella sua assolutezza gioiosa anche nella morte, nella coincidenza degli opposti. Il libro scorre e accadono delle cose e magari alla fine ne vorresti ancora. Hai vissuto il respiro della vita. Il prossimo libro però sul quale sto lavorando e che sto finendo, e che sarà uno step ancora più approfondito del lavoro di ricerca di cui parlavo prima, un secondo volume sul brigantaggio, avrà un numero di pagine più alto, un respiro più ampio e una prosa più articolata (compatibilmente con il respiro), ma credo riuscirà a rendere la stessa sensazione e senso.
Torno sul personaggio del Sergente, perché è un personaggio sfaccettato, che, come ho scritto nell’introduzione, ha la capacità di decidere e portare avanti la sua piccola ribellione, ma anche la fortuna o sfortuna di esser trascinato dagli eventi ai quali sembra non voglia opporsi. Politicamente poi è un Borbonico che si ribella – nella misura in cui sia realmente stato in grado di capire cosa stesse succedendo in quegli anni confusi da molti punti di vista – all’unione d’Italia nascente. Come hai lavorato su questo personaggio?
Ho lavorato al personaggio come lavoro su tutti i personaggi, che poi non sono così personaggi: a tentoni.
Quelli che trovate nel libro più che personaggi sono dei geroglifici, dei nomi, sotto cui scorrono un insieme di azioni, parole, emozioni, passioni, che sbuttano e sfociano; sono dei comportamenti e dei circuiti linguistico-politici che tra loro scorrono e s’influenzano a vicenda. E qui si ritorna al discorso sul linguaggio di prima. Anche le loro parole si confondono e passano dall’uno all’altro come le ombre di nuvolaglie sul terreno che s’attaccano e distaccano.
La questione è: quanto decidiamo noi chi siamo, che facciamo, che pensiamo? Sono davvero io il conduttore delle mie azioni e delle altrui azioni? Cos’è un comandante? Davvero vogliamo pensare nel 2016 che io sono sostanza, che io sono un entità definita e racchiusa, non porosa e osmotica rispetto all’esterno, e comunque inserita fisicamente-psicologicamente-karmicamente in un campo d’influenze? Insomma, la domanda delle domande: dov’è che finisco Io e inizia l’Altro? Questo libro è un esplorazione anche in questa direzione.
Chiunque operi in questo mondo più o meno combattivamente (all’interno di un partito politico, facendo imprenditoria in singolo o in un gruppo di persone, come è nel mio caso, o anche che faccia parte di forze armate, o di qualunque attività più o meno dirigenziale, che sia sopra o sottoposto, o anche semplicemente in famiglia) sa bene che il proprio desiderio è osteggiato e condotto da milioni di altri fattori, per lo più imponderabili e quella volta che il desiderio è realizzato pienamente puramente, quasi ci si chiede: possibile? Non è successo niente? E quel desiderio era davvero mio? Il desiderio una volta realizzato è già diverso, ha mutato forma.
Parliamo delle presentazioni del libro, so che oltre alle canoniche presentazioni, da questo libro è nato uno spettacolo, Voci di sbandati, che stai portando in giro con un musicista in una forma mista tra reading e teatro. Come è nata l’idea di far nascere uno spettacolo di questo tipo?
Sì, a dir il vero è proprio teatro. È un recital concerto. Io interpreto diversi banditi-briganti che spiegano perché sono diventati briganti. Una specie di Spoon river dell’Unità d’Italia, vista dalla parte dei banditi. Ma anche lì è un pretesto in realtà per parlare di Sud, di Mediterraneo e di civiltà contadina. Nei “perché” di questi briganti, le motivazioni sono le più varie e così mostrano la multiformità del fenomeno del brigantaggio. Al contempo più o meno ha tutto a che fare con il mondo contadino, con le condizioni lavorative e bracciantili dell’epoca, con il contesto sociale, con le relazioni con i padroni, con i nobili, ecc. Insomma è un piccolo affresco ottocentesco del Sud. Chi finiva allora in una banda, per quanto ciuccio e cafone potesse essere, sapeva bene che andava fuori legge, si metteva in pericolo di essere arrestato… come minimo, o nel più dei casi, fucilato. Ignorante sì, ma scemo no. Dunque se finiva in una banda c’è da chiedersi perché! Forse sfuggiva a una condizione di fame e miseria, e condizioni lavorative ancora peggiori, e dunque tanto valeva giocarsela e godersela per qualche mese… Un po’ come quei poveri cristi che oggi scelgono il rischio dell’annegamento nel Mediterraneo piuttosto che….
Lo spettacolo nasce dal fatto che ho raccolto molte storie in questi anni, che confluiranno in parte anche nel/i prossimo/i libro/i, e dal fatto che la mia ricerca sul linguaggio e su tutto ciò che abbiam detto prima, va sempre più verso un ragionamento sull’oralità che è ovviamente collegato alle culture tradizionali e gli archetipi del Sud e del Mediterraneo. In questo senso la sintesi, chiarezza, facilità di visualizzazione per lo spettatore, e forza, a cui il respiro di uno spettacolo ti costringe, insegna molto sulla narrazione. La cuntistica come sorgente. In questo contesto anche il fatto di fare lo spettacolo nei luoghi più diversi… Lo spettacolo è infatti inserito nel circuito del Teatro Pubblico Pugliese e quindi sarà presente nei teatri canonici, ma andremo parecchio nelle scuole. Inoltre con Ciclomurgia di Filippo Tito e Cooperativa Serapia di Pietro Chiatante stiamo lavorando su percorsi di trekking sui luoghi del brigantaggio, luoghi più diversi delle storie più diverse in tutta l’area della Murgia, Murge Orientali, Valle d’Itria, Alto Salento e Lucania. Abbiamo giornate di trekking, con mangereccio tipico e bio in masserie, e io che faccio il cuntista lungo il percorso. In altri casi gli ospiti-turisti e/o bambini di scuole, fanno piccole passeggiate fino ad arrivare al posto in cui ci siamo io e il mio fido compare, Roberto Salahaddin Re David, il musicista che mi accompagna nello spettacolo, e alla sola luce della luna e di quale lumino, facciamo lo spettacolo in versione acustica. È una cosa molto bella questa, intima, che mi diverte e mi appassiona molto. Il bosco orchestra insieme a noi la musica. Per questioni pratiche il pubblico non è mai sopra le 30-40 persone, tutte raccolte attorno a me e Re David, seduti in terra sull’erba, ascoltando delle storie, mentre il sole scurisce. Quando restano solo i lumini e la luna, ci si vede quasi niente. Resta solo la mia voce, campane tibetane, altri strumenti e i rumori delle fronde di querce che frusciano al vento, nel bosco. Poi si fa un altra piccola camminata fino alla masseria e lì si mangia e si beve. Fossero tutte le ricerche così piacevoli!