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I Giorni Selvaggi di William Finnegan: alla ricerca dell’onda perfetta

Ecco come si generano le onde per fare surf. In mare aperto, una tempesta sconquassa la superficie dell’acqua, creando una mareggiata, un’increspatura di onde confuse e poco potenti che a mano a mano si addensano, si fanno più grandi e, incalzate dalla forza del vento, danno vita al mare grosso. A riva, su una costa lontana, noi riceviamo l’energia che si sprigiona da quella tempesta, irradiandosi attraverso acque più calme sotto forma di un treno d’onda

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]L[/mks_dropcap]’anno scorso, al ritorno da un viaggio in Costa Rica, scrivevo queste parole

Tra le lisergiche decorazioni di questa costruzione, la cui architettura mi sembra la cosa più vicina a un campo paramilitare che abbia mai visto, non ci resta altro che abbandonarci ai vizi e, complice il relax psicoattivo, una notte sento nitido il respiro del mare. La sua vibrazione sale attraverso il corpo fino alla mia mente. Il fragore delle onde diventa quasi tangibile nel formicolio che m’attanaglia le dita. Per attimi che mi sembrano infiniti resto lì a contemplare il mar dei Caraibi che mi sbatte in faccia le mie fragilità, le ansie e i cattivi pensieri. Un po’ lo odio per questo

provando a descrivere la sensazione di ostilità provata ascoltando gli ostili borborigmi con cui le onde caraibiche sembravano rimproverarmi, mentre me ne stavo seduto sulla spiaggia del Rocking J’s, un ostello alla periferia dall’abitato di Puerto Viejo de Talamanca.

Qualche centinaio di metri alla sinistra di quella spiaggia si trova la “Salsa Brava”, un celebre break in cui si forma quella che in molto considerano una delle onde più temibili di tutto il paese. Una fama che si deve al tributo di tagli, arti spezzati e tavole frantumate pagato dai tanti surfisti che fin dagli anni ’80 hanno raggiunto Puerto Viejo per sfidare la sua onda più cattiva. Sarà per quest’ultima circostanza che leggere questo passaggio tratto da Giorni Selvaggi mi ha riportato alla mente quella sensazione.

Non c’era speranza. In quel caos era impossibile trovare punti di riferimento, le onde si infrangevano tutte in una volta, e noi eravamo nel pieno del trip. Al culmine, come si diceva. Ad un certo punto rompemmo gli indugi e iniziammo a scendere per il sentiero. Posso immaginare la scena : tutti e due a ridacchiare nervosi. Il ruggito giù in spiaggia era costante, liricamente nefasto. Ero certo di non aver mai sentito nulla del genere prima di allora.

Giorni Selvaggi. Una vita sulle onde è il memoir premio Pulitzer che il giornalista americano William Finnegan ha dedicato alla sua ossessione per il surf e che l’editore romano 66th and 2nd ha pubblicato in Italia all’inizio dell’estate.

Scrivere di surf significa misurarsi con un’attività estremamente coinvolgente, fisica e al tempo stesso tecnica. Nel rapporto che lega l’uomo all’onda, la tavola perde la qualità di puro strumento per diventare protesi; e da protesi diventa il medium con cui il surfista legge e al contempo scrive l’ambiente che lo circonda. Restituire su pagina questa esperienza richiede un linguaggio che racconti. Ma l’invenzione linguistica non significa soltanto slang, ovvero quel gergo fatto di swell, set, break, lineup, spot, take off e tutte le altre espressioni la cui padronanza ci aprirebbe le porte della confraternita dei surfisti; bensì un vocabolario più ampio, il cui abbraccio trasmetta un mondo di sensazioni ineffabili: il surf per l’appunto.

L’onda di Tavarua aveva mille personalità, ma in generale era meglio quando s’ingrossava. Quando raggiungeva i due metri, era di sicuro l’onda migliore che sia io che Bryan avessimo mai visto. Man mano che cresceva, la regolarità meccanica del suo rapido ricciolo acquistava un’anima, il suo ventre ruggente e luminoso e quella specie di soffitto a volta erano un miracolo continuo, con i disegni e le nervature sulla superficie e la potenza della parete, piena adesso di dettagli visibili e delicati, ogni onda soffusa di una fastosità ineguagliabile. A volte il vento soffiava all’improvviso verso est, attraversando il ricciolo e fendendo la parete dell’onda, in particolare negli ultimi cento metri vicino al canale. Quando il vento soffiava verso sud o sud-ovest, girava intorno alla costa occidentale dell’isola, schiacciando le onde che si avvicinavano dall’estremità meridionale della barriera corallina. Ma poi, mentre deviavano per l’ultima volta verso la lineup, d’improvviso riprendevano forma e quella parvenza di fionda che aveva il frangente era come aumentata dal vento che strisciava sotto la tavola, sospirando: «Vai!».

Giorni Selvaggi pullula di questo genere di descrizioni, in cui l’autore si sforza di restituire al lettore le personalità delle diverse onde che affronta durante la sua ricerca senza per questo antropizzarle. Scivolando tra le pagine del libro non si ha mai la sensazione che l’onda, a dispetto delle qualità che il surfista esprime in essa, non sia ciò che è a tutti gli effetti: un fenomeno naturale. Ovvero un accadimento che si verifica con una profonda indifferenza nei confronti dell’umanità che si trova a confrontarsi con esso.

È questo continuo oscillare tra coinvolgimento e indifferenza nei confronti della natura che accomuna Giorni Selvaggi all’evoluzione contemporanea del nature writing di cui Helen McDonald ha dato un saggio brillante e profondo in Io e Mabel (Einaudi, 2016).

Ma questo è non è il solo aspetto del surf che il libro racconta. Giorni Selvaggi non si limita a mettere in fila una serie di descrizioni di onde. Per quanto l’esperienza di cavalcare le onde spinga per sua natura all’isolamento, alla solitudine e alla ricerca di un esotismo che le racchiuda entrambe, il surf è un’attività connessa alle cose. Cambia e si evolve tanto quanto cambiano gli usi e i costumi e spesso cambia insieme a loro.

Dal punto di vista tecnico e stilistico, il grande salto quantico del surfboarding fu il passaggio dalle longboard alle shortboard. Più corte e maneggevoli delle sorelle maggiori, queste tavole rendevano possibili nuove manovre, portando il surf verso territori inesplorati e aprendo spazi di creatività fino ad allora impensabili.

In quel momento qualcuno ci stava riuscendo. Sopra una tavola che sembrava dotata di motori a reazione. I miei occhi facevano addirittura fatica a seguire le accelerazioni prodotte da ogni singolo bottom turn. In un batter d’occhio, il surfista si trovava dieci metri più avanti del punto in cui te lo saresti aspettato, almeno secondo le leggi fisiche del surf che conoscevo. E manteneva la stessa velocità anche sulla cresta dell’onda. Il risultato era che riusciva ad attraversare sezioni lunghe e impegnative, che di solito avrebbero interrotto la surfata. Ogni volta che sbattevo le ciglia, avevo l’impressione che fosse saltato qualche fotogramma di film, e il surfista ricompariva ben oltre la linea in cui doveva essere.

Tutto questo, ed è la cosa straordinaria, non avvenne nel vuoto pneumatico di una sottocultura priva di ponti con la società che la circondava. Racconta infatti Finnegan che

era il 1968. In Occidente, la gioventù inquieta ripensava e metteva in discussione molte questioni fondamentali – il sesso, il sistema, l’autorità costituita – e il piccolo mondo dei surfisti contribuì, a suo modo, a quel momento sovversivo. La rivoluzione della shortboard era inseparabile dallo zeitgeist: la cultura hippie, l’acid rock, gli allucinogeni, il misticismo neo-orientale e l’estetica psichedelica.

Questa coincidenza del surf ai tempi che lo esprimono, mentre si esprimono in esso, non si limita ad accarezzare la società. Il cambiamento, ed è normale in una biografia, investe anche l’io narrante. Giorni Selvaggi perciò è in parte il racconto di come, con una tavola da surf sottobraccio, si attraversano le stagioni della vita. Si parte dall’adolescenza perché, dice l’autore, nessuno che abbia imparato a surfare dopo i 14 anni potrà mai esprimersi a buoni livelli. Ma l’adolescenza di William Finnegan non rappresenta soltanto l’apprendistato al surf, compiuto tra la California e le Hawaii. È anche l’affresco di un mondo di cui ormai restano poche tracce. Un universo di cui colpiscono la durezza e la violenza che gli adolescenti cresciuti nell’America del baby boom sapevano esprimere. Un mondo da cui non si fugge con la tavola, ma in cui questa serve a costruire uno spazio personale da condividere con altri eletti, la consorteria dei surfisti.

Questa tensione tra voglia di indipendenza e necessità di ricreare un nucleo famigliare attorno a cui stringersi accompagnerà per tutta la vita la ricerca di Finnegan. Una vita che l’autore fa apparire qua e la, tra le onde, perché, come dice in un’intervista a Francesco Pacifico,

avere il surf come tema di quel che è di base una biografia ti permette di organizzarla bene. I grandi sviluppi della vita. Oh, e poi ho conosciuto un nuovo amico, una nuova onda. E intanto sono diventato un uomo di mezza età. Mi è piaciuto essere netto, dire velocemente le cose sulle parti importantissime della vita: mi sono sposato, ho trovato un lavoro…

Credo sia proprio questo, in ultima analisi, il fascino di Giorni Selvaggi. Lasciarci soli a immaginare come si può costruire una vita senza dover rinunciare alla propria ossessione, ma accompagnandosi a essa come ci si accompagna alla più selvaggia delle onde.

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