La medicina e l’essere medico, nella vita di tutti i giorni, non è quella che ci viene proposta nei film o nelle serie TV, con tutto che hanno il proposito di voler mostrare il lato umano delle persone che hanno scelto di dedicarsi agli altri. Per tanti tutto ciò è scontato, ma molte sono anche le persone che, per esempio, ritengono veritiere le vicende vissute nei reparti dell’ormai nota serie Grey’s Anatomy. Partendo dalla mia personale esperienza, una volta entrata a Medicina, ho potuto ridere di fronte all’irrealtà della grande fortuna che ha Gregory House nel vedere concentrate nel New Jersey (anzi, a pochi passi dall’ospedale presso cui lavora) tutte le malattie più rare del mondo e dinanzi i suoi famosi lampi di genio per le diagnosi internistiche, ma non riesco a fare altrettanto quando si tende a dire che essere un medico significa solamente avere grandi benefici – anche economici – e prestigio, senza considerare i sacrifici fatti già da studenti e successivamente da operatori sanitari.Sono medico da due giorni e mezzo, ho ventotto anni e non sopporto già più i malati.
Sulla scia di piccole confessioni private esternate grazie al principio della scrittura-terapia, la dottoressa francese Jaddo, specializzanda in Medicina generale, ha deciso di scrivere sul suo blog le storie più divertenti, arrabbiate, tristi e che l’hanno fatta riflettere a partire dai primi approcci ai pazienti come giovane studentessa tirocinante prima e come specializzanda poi. Queste sue storie di vita vera sono state raccolte nel libro Vita di corsia – storie vere e non romanzate di una giovane dottoressa, edito in Italia da Vallardi a inizio anno. Da piccola, la dottoressa desiderava diventare una domatrice d’orsi e ricordandolo si rivela a noi con lo pseudonimo JADDO ovvero Juste Après Dresseuse D’Ours (“dottoressa” subito dopo domatrice di orsi). In brevi capitoli che sembrano sketch comici che non seguono un ordine cronologico ci presenta immediatamente la situazione corredata dai suoi commenti, che alle volte ha dovuto tacere.
Ci troviamo di fronte a una studentessa che se prima era entusiasta di frequentare il reparto per il tirocinio obbligatorio, si ritrova delusa nel vedere che la sua non era una presenza gradita, dato che nessuno tra i medici la considerava, e così non imparava nulla, perdendo delle giornate che avrebbe potuto impiegare in un modo migliore, magari studiando. Facciamo conoscenza di una ragazza che diventa sempre più disillusa nel vedere medici e primari fare mobbing sugli studenti già entrati nella scuola di specializzazione, che fanno altrettanto sugli studenti non ancora medici, come se avessero dimenticato che fino ad alcuni anni prima anche loro erano stati esattamente nella stessa situazione dei ragazzi che ora vessano.
Vediamo proprio cosa succede in ospedale e, se da un lato veniamo informati dei casi di malasanità, noti grazie ai mezzi di comunicazione di massa, dall’altro riusciamo a conoscere qualcosa su uno degli aspetti fondamentali che coinvolge la vita del medico ovvero il rapporto con il paziente. Questo non è affatto facile, perché il medico è sì colui che cerca in tutti i modi di migliorare lo stato di salute del paziente, ma “non è dotato dell’arte divinatoria, a meno che non sia un medico legale e scruti le viscere”, come dice la scrittrice. Se quindi è indispensabile un rapporto basato sulla fiducia e sull’assoluta onestà, purtroppo non è sempre così, e sempre più spesso si tende a dimenticarlo. Ci si ritrova quindi a interagire con pazienti che non ti dicono di accusare questo o quel sintomo, con la conseguenza di saperlo o dal vicino di letto, o dal coniuge o dai figli – confermando stranamente ciò che ha sempre detto House ovvero “tutti mentono” – e rendendo dunque difficile il lavoro del medico, su cui però ricade la colpa di un mancato e adeguato soccorso.
I pazienti, dal canto loro, non sono sempre educati e gentili: la scrittrice ci narra di situazioni in cui non avrebbe esitato a imprecare sentendosi dire dal paziente che vuole una risonanza magnetica – al posto della TAC prescritta dalla dottoressa – perché “ma insomma, signora, il cliente ha sempre ragione!” oppure sentendosi pretendere di corsa una radiografia alle undici di sera perché il paziente il giorno dopo lavora – “ah, perché io invece domani vado a correre nuda in un campo di erba medica!” – o tendendo a sostituirsi al medico perché hanno associato un sintomo inesistente a una malattia, conosciuta per caso – come per esempio su Internet – con la conseguenza di richiedere esami anche invasivi, ma del tutto inutili. Lo stesso può avvenire anche a causa di un medico che fa del troppo zelo la sua arma a doppio taglio, col rischio di far intimorire chi pensava a ragione di star bene. I casi di malasanità esistono, e la realtà francese non è dissimile a quella italiana, a quanto pare.
Anche ricevere gli informatori farmaceutici che sanno essere particolarmente molesti – il conflitto d’interessi con le case farmaceutiche è una questione ancora attualissima – o ricevere pazienti che non hanno ricevuto nessun referto dagli specialisti che li hanno “visitati” è difficoltoso, e questi sono solo alcuni dei tanti aneddoti proposti.
Jaddo poi ha la “sfortuna” non solo di essere donna, ma di aver scelto di essere un medico di base, ovvero di far parte di quella categoria di dottori che non vengono considerati tali, i famosi “medici di Serie B”, che avendo a che fare con dolori e acciacchi di tutti i tipi devono avere una conoscenza molto più ampia degli specialisti:
«Quindi, signorina, che specialità ha preso?»
«Sono generico.»
«No, ma se potessi scegliere una specialità?»
«GE-NE-RI-CO.»
Ancora oggi, nella società odierna, è presente e vivo il luogo comune che una donna – spesso la chiamano “signorina” e non “dottoressa” – non possa diventare medico o, nel caso lo diventi, sia meno brava di un uomo, sopportando frasi come “non mi medicherà una donnetta del cavolo” e l’autrice, con una disarmante semplicità, ci mostra questa realtà, strappando una risata, ma cercando anche di far riflettere. A tal proposito, ho notato che la copertina dell’edizione italiana si scontra non poco col messaggio che Jaddo vuole lasciarci, ovvero quello della parità di genere: facendo il confronto con la copertina francese, si nota che le immagini tendono a ricalcare le copertine dei chick-lit, genere a cui il libro non è ascrivibile; sul retro di copertina è presente anche un rossetto rosso, che nell’immaginario comune non solo è simbolo di vanità femminile, ma anche di sensualità. Dato che negli spaccati di vita proposti Jaddo non ci parla delle sue vicende sentimentali, non credo fosse un elemento necessario, da inserire in una copertina. Jaddo è una donna, ma prima di tutto è un medico, e vuole essere vista come un medico, e non come una “signorina” o l’ennesima protagonista affermata di romanzi concepiti proprio per le donne in carriera.
L’autrice, in questi piccoli racconti, ha piuttosto dalla sua l’arma dell’ironia, scanzonata e senza peli sulla lingua, intrisa di una certa amarezza. Questa traspare negli episodi meno allegr,i che lasciano spazio alle riflessioni e alle considerazioni più personali e profonde, come a ricordare che la vita del medico – e quella del paziente – non è sempre rosea, per quanto si cerchi in tutti i modi che sia così. L’essere umano non è sempre capace di prevedere tutto, ma bisogna accettare la debolezza insita in noi, per poter cercare di migliorare dapprima come persone, al di là del mestiere che si fa. L’umorismo si nota particolarmente grazie alla rottura della quarta parete e alla citazione che precede ogni racconto, sempre diversa, che deriva dalle perle ascoltate dall’autrice stessa e dette da medici, pazienti o familiari. Queste si collegano perfettamente all’accaduto che ci verrà narrato e conferiscono un ulteriore realismo al tutto. Dove in apparenza possono esserci delle stranezze – come il nominare i pompieri come coloro che offrono il primo soccorso – ci vengono in soccorso le note, che spiegano le differenze tra il nostro sistema sanitario e quello francese.
Sebbene lo stile della dottoressa sia molto semplice, lineare, privo di astruse metafore che sarebbero totalmente fuori contesto – e che verrebbero spacciate per momenti di alta poeticità non necessaria – esattamente come ci si aspetta dalle pagine di un blog, la vividezza della narrazione è data proprio dalla veridicità degli accaduti. Raccontare delle storie, esponendosi in prima persona, cercando di far emergere il lato più combattivo di una professionista della sanità che, per quanto possa esser diventato disincantato o indignato, non ha mai perso di vista ciò che è più importante: aiutare il prossimo.
«Non dimenticare, non dimenticare, non dimenticare!»
Sono queste le parole che si ripete sempre la scrittrice, per ricordare a se stessa – e a noi – che la medicina è un qualcosa di reale e che bisogna raccontarla così com’è. Ciò che lei racconta non viene insegnato sui libri degli studenti che si apprestano a voler diventare medici e al tempo stesso non è conosciuto dalle persone che vedono i medici come figure a loro estranee, lontane. Le parole senza fronzoli di Jaddo sono intrise di rabbia, l’autrice non fa nulla per negarlo: è la collera dei medici che, scontrandosi contro delle situazioni per nulla allegre, non perdono la voglia di continuare ad assistere le persone che hanno scelto di fidarsi di loro e di sceglierli come loro curanti, al di là degli estenuanti turni, il dover sopportare colleghi, superiori e pazienti più difficili, la paura di non essere all’altezza, la paura di uccidere qualcuno.
Martin Winckler – medico e autore de La malattia di Sachs – nella prefazione di questo libro afferma che l’ospedale ricorda il castello di Kafka per via delle assurdità che si possono trovare all’interno, mentre essere un medico è una guerra “tra quelli che desiderano curare e quelli che sembrano fregarsene”. Eppure la voglia di fare è tanta, a partire dal desiderio di curare di Jaddo per mezzo delle parole, rivelando esperienze, verità taciute, sentimenti, per poi arrivare al cuore del problema: alzarsi, parlare, protestare, per avere una sanità e una società migliori. Viene chiamata “vocazione” e se questa collera sana riesce a colpire al cuore e a farci arrabbiare a nostra volta, allora vuol dire che le parole di Jaddo hanno già iniziato a loro volta a curarci.
Classe 1991, accanita lettrice, aspirante ginecologa, irriducibile criticona, sarcasmo-munita e amante del black humour.
Il nonno le ha trasmesso la passione per la lettura sin da piccolissima, dottor House le ha insegnato che non è quasi mai lupus e Philip Roth le ha rubato il cuore.
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