di Silvia Costantino e Giovanni Bitetto
[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]M[/mks_dropcap]escolo tutto è il romanzo d’esordio di Yasmin Incretolli, giovane autrice che ha ricevuto la menzione speciale al Premio Calvino dello scorso anno. L’opera – a poco più di un mese dalla pubblicazione – ha suscitato forti critiche e prese di posizione fra chi ne difende l’inventiva linguistica e chi lo liquida alla stregua dello sproloquio adolescenziale. A noi il libro è piaciuto, abbiamo cercato di capire perché attraverso una conversazione che ne mette in evidenza pregi e difetti. Perché i romanzi sono come magneti: trattano temi precisi e attraggono nodi irrisolti della nostra contemporaneità.
Silvia: Per parlare del romanzo di Yasmin Incretolli forse bisogna partire da ciò che ne è già stato detto. In particolare, le poche parole – elogiative – di Sortino al riguardo: nello spazio di poche righe l’autrice è stata eletta a «figlioletta di Gadda» e diretta erede di Bourroughs. Per quanto mi riguarda, non sono d’accordo, e vorrei approfondire il discorso più avanti. Per ora vorrei toccare un altro punto, che sta sempre in queste poche righe: il fatto che Sortino, e non solo lui, dice fondamentalmente che senza la lingua, senza la struttura linguistica, il romanzo di Incretolli sarebbe privo di spessore, una qualsiasi storiella/pruderie adolescenziale. Anche in questo caso non sono troppo d’accordo: ci sono moltissime spie che indicano che l’obiettivo di Yasmin si discosta alquanto da quello di una storiellina un po’ pruriginosa (non è difficile intravedere un accostamento ai famigerati 100 colpi di spazzola). Maria è consapevole fin da subito della sua stranezza: nel suo costante oscillare tra integrazione e alienazione c’è il punto che più accomuna Mescolo tutto a un romanzo adolescenziale, ma non certo di quelli a stampo erotico-trasgressivo. Perché è sbagliato il discorso della “storia adolescenziale come un’altra”, e perché invece è giusto? La cosa che salta più di tutte all’occhio è ovviamente il fatto che manca un lieto fine, che non esistano redenzione né coscienza di un cambiamento. La struttura del libro è circolare, scandita in modo regolare dalle interpolazioni dei ricordi, brevi capitoletti in corsivo che interrompono e ampliano la storia. Il momento in cui sembra che tutto si interrompa, l’intermezzo cupo del compagno della madre, dà l’avvio a un nuovo capitolo nella vita della ragazza: ma in questo tornano le interpolazioni, torna il ricordo di Chus, e alla fine torna anche il bisogno di rientrare, in qualche modo di cedere. Quello di Maria è praticamente un fallimento, lei torna e non è cambiato niente; la prima cosa che la ragazza fa una volta nel quartiere è andare a cercare Chus per farsi nuovamente massacrare e infatti le ultime due pagine del libro giustappongono la fine del rapporto con Chus e il ricordo dell’inizio: la chiusura del cerchio.
Giovanni: È interessante che tu abbia rimarcato la distanza fra Mescolo Tutto e le narrazioni di trasgressivismo adolescenziale, anche io ho avuto la stessa sensazione. Eppure di scene grottesche se ne contano a decine, la violenza è una dimensione ben presente. Però c’è un elemento che disinnesca l’appartenenza di alcuni eventi descritti a un immaginario stereotipato: la mancanza di estetizzazione. La storia di Maria è decisamente uncool, la retorica giovanile è virata in un incubo acido in cui ogni epifania risulta un’illusione autoindotta e il romanticismo è vissuto con l’intensità melodrammatica di una pièce di Sarah Kane. Basta leggere poche pagine per rendersi conto che il tono adottato è quello della resa mimetica. Metà della gente che scrive di adolescenza la ricopre di nostalgia, di simbolismo a posteriori, qui invece è resa nella percezione deformata della mente di una ragazza. Non è importante che non corrisponda al vero: a quell’età pensi senza ironia che il mondo fa schifo. Nelle narrazioni che trattano di adolescenza le epifanie centellinate, la malinconia, i silenzi carichi di tensione, tutti quei dispositivi retorici volti a dare profondità alla narrazione giovanile concorrono verso un unico scopo: rimandare per sempre il momento in cui questa dannata gioventù finirà. L’adolescenza diventa uno stato vacuo, infinito, un perenne rimandare, si connette magicamente all’infantilizzazione della vita adulta. Si è persa la narrazione della soglia, della prova, del momento irripetibile che ti proietta verso una realtà nuova. Al contrario in Mescolo tutto narrando l’adolescenza come momento negativo, come polo di una dialettica, si riporta questa parentesi alla sua natura di soglia: un periodo brutto, tanto brutto e incerto da dover finire, prima o poi. Questo mi sembra uno degli aspetti più interessanti del testo, l’altro – e forse il più dibattuto – è ovviamente la lingua.
Silvia: Esatto! E la lingua si ricollega proprio alle tue osservazioni sull’adolescenza: l’autrice ha più volte dichiarato, ad esempio su Cartaresistente o su Officina letteraria, che la prosa spezzata di Maria è specchio del suo profondo malessere. E sembra non essere un caso allora che questa lingua sia così densa di significanti spesso desemantizzati, che si utilizzino parolone altisonanti, talvolta a sproposito («Ho iniziato a tagliarmi che mia nonna era morta da poco. È successo quasi osmoticamente».), talvolta con un lieve slittamento di senso («Assecondare, piuttosto che ribellarsi, rende mente ovattata, vaporosa a pensieri fiochi».), talvolta invece in modo perfettamente appropriato («sdrucciolo nell’intarsio d’arteria radiale attraverso la punta d’acciaio della biro blu. Sassolini d’inchiostro zaffiro sagomate in elegante tinta rubino su quadri cartacei in sottoformazione trasmuto prezioso».). Non si tratta però di una lingua colta, ecco perché ritengo sbagliato accomunare Incretolli ai grandi maestri della scrittura sperimentale e mi vengono in mente cose molto più vicine, le canzoni rap italiane dell’underground o Miley Cyrus – citata direttamente nel romanzo («Il sito carezzato corona un cuore, laddove preferibile era collocare palla da demolizione».). Come dice Demetrio Paolin: «Questo uso della lingua ha però un rischio, in cui alcune volte l’autrice cade, ovvero quello di una parola fine a se stessa, dell’esasperazione per l’esasperazione, ma appunto sono limiti perdonabili a un’opera prima». Ora, Paolin ha ragione: il vezzo dell’esasperazione è molto presente e ricercato nel libro, però non sono sicura su quanto sia un limite. Che sia per inesperienza dell’autrice – anche se con un editor di tutto rispetto alle spalle – o che sia per precisa volontà, infatti, è proprio questa randomica vuotezza a dare valore alla storia. Lo è perché mostra appunto la vuotezza della protagonista, il suo cercare di costruirsi senza avere nessuna impalcatura a proteggerla: prova ne sia l’episodio milanese, in cui i giovani bruciati altolocati sono perfettamente in grado di copiarne il linguaggio e migliorarlo, perché forti di studi e conoscenze molto migliori di quelle della protagonista.
Gina Pane, “Azione malinconica” (Via Galleria Elefante)
Giovanni: L’autrice adopera un idioletto che oscilla fra il gergo giovanile e la rigidità della lingua letteraria. Restituisce il tentativo di strutturare categorie cognitive che crollano su se stesse per colpa del barocchismo e delle premesse su cui poggiano. Un linguaggio così schizofrenico ha una precisa funzione entropica: rende evidenti le difficoltà culturali per cui il soggetto fatica a costruirsi il proprio orizzonte cognitivo. Potremmo chiamarla “lingua del trauma” ovvero una lingua che attesta solo se stessa, che fa dell’autoreferenzialità l’unica motivo di esistenza. Tuttavia essa non riveste solo la parte del carnefice. Maria intesse i suoi primi rapporti sociali “benigni” quando il gruppo dei ragazzi ricchi inizia a parlare in modo in inautentico e letterario, proprio come lei. Dunque l’impasse la crisi è trasversale, la mancanza di valori condivisa (proletarizzazione dei borghesi, imborghesimento dei proletari, la frammentazione cognitiva e urbana già rilevata ne Il contagio di Siti). Ma attraverso la forma chiusa di una lingua inautentica che si oppone al magma del reale si affaccia la speranza, il contatto con l’Altro, il linguaggio torna a essere vettore comunicativo, Maria trova degli amici. Le ingenuità espressive fanno parte di un periodare che contempla l’errore, concorrono anche esse (consciamente o inconsciamente) a fornire il quadro di un orizzonte cognitivo impuro e frammentato. Forse il testo avrebbe avuto bisogno di un trattamento maggiore, un’ulteriore revisione, ma in generale l’errore deve far parte della psicologia di Maria. Da ciò che stiamo dicendo sembra che questo testo sia molto di “concetto”, io invece noto che l’artificialità della lingua riesce a legarsi incredibilmente bene con la sfera del corpo. Tu che ne pensi?
Silvia: Penso che mi è appena venuto in mente chi forse è davvero prossimo alla scrittura di Incretolli, se bisogna trovarle un parente letterario: Anthony Burgess, e la sua arancia a orologeria. In realtà Alex somiglia più ai riccastri milanesi (o sarebbe meglio dire: viceversa) che non a Maria stessa, però quello che hai appena detto ha fatto scattare un collegamento. Il libro di Burgess infatti ha un ritmo fortissimo, ed è un ritmo che accompagna i movimenti, gli spostamenti, i debosci del protagonista. La lingua ne è in qualche modo la colonna sonora come del film lo è Beethoven. E Incretolli, anche lei riesce perfettamente in questo gioco. Il suo testo così spezzato, frammentato, alterna benissimo introspezione (di solito lapidaria) e estroversione (di solito fluviale). Il legame con il corporeo è fondamentale per questo libro. Ancora una volta è necessario ribadirlo: questo non è un libro di sola lingua: la lingua accompagna e scandisce una messa a nudo viscerale, potente, spesso disgustosa. Maria non è un personaggio psicotico né è distaccata in alcun modo dalla realtà: lei vede, e descrive, e cerca di interpretare il suo mondo “come cazzo le pare”. Le parole pompose non mascherano l’aderenza al reale, le precise e minuziose descrizioni di suole, catrame, pioggia, sperma e sangue, della vita di borgata, della situazione privata e familiare, e ovviamente dell’autolesionismo della protagonista. Tutte queste cose sono reali, tangibili, e Maria ne è consapevole. Anche se utilizza una prosa improbabile come mezzo di evasione, è la prima a sapere che il suo è un artificio fragile e facile da smascherare. E forse si ritiene lei stessa un artificio fragile?
Giovanni: In effetti il tuo collegamento mi sembra molto più appropriato delle parentele con Gadda o Burroughs. Allora voglio tentare un ulteriore distinzione: se l’Alex di Burgess è un prodotto della società – ovvero un individuo formatosi in precise logiche ipocrite e repressive – Maria ne è uno scarto, sopravvive in un mondo in cui il livello di entropia è maggiore. Se Alex reagisce in maniera anaffettiva Maria al contrario tende ad esplodere in accessi di emotività. Sembra che nell’era del feticismo digitale l’unico mezzo per riappropriarsi del corpo sia il dolore. Il corpo di Maria è schizomorfo, cambia e accoglie il trauma, la ferita, gli umori, insomma è un corpo materico, la riappropriazione della realtà passa dallo scatologico. Come Burgess metteva in luce la dialettica fra violenza astratta e ricadute reali, così la nostra autrice ricostruisce il proprio mondo a partire da ciò che può toccare, sottraendosi paradossalmente alla dittatura dell’immagine (e dico paradossalmente perché la vulgata comune vuole le nuove generazioni immerse acriticamente nella melassa mediatica). Burgess: direi che abbiamo un vincitore.
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