fbpx
Cerca
Close this search box.
io sono vivo voi siete morti

Le intermittenze dell’io: Emmanuel Carrère racconta Philip Dick

Summary:

Adelphi ripubblica la biografia scritta da Carrère e dedicata a uno dei maestri indiscussi della fantascienza.

Il 16 dicembre 1928, a Chicago, Dorothy Kindred in Dick diede alla luce una coppia di gemelli, prematuri di sei settimane ed entrambi molto gracili. Li chiamò Philip e Jane. Non aveva latte a sufficienza per entrambi, e nessuno, né un parente né un medico, le suggerì di integrare le poppate con il biberon, sicché nelle prime settimane lasciò patire la fame ai bambini – per ignoranza, a quanto pare. Il 26 gennaio Jane morì. Fu sepolta nel cimitero di Fort Morgan, in Colorado, dove viveva la famiglia del padre. Sulla lapide, accanto al nome di battesimo della bambina, i genitori fecero incidere quello del fratello sopravvissuto, con la data di nascita seguita da uno spazio bianco. Poco tempo dopo i Dick si trasferiscono in California.

Nell’incipit di Io sono vivo, voi siete morti l’autore delinea il leitmotiv su cui costruisce la biografia di Philip Dick. Lo stile di Emmanuel Carrère lo conosciamo bene: attraverso il reagente dell’esperienza personale traccia le particolarità della vita altrui. La tendenza a rendere speculare il suo vissuto e gli avvenimenti più disparati – che siano i trascorsi sovietici di Eduard Limonov o le tribolazioni interiori di Paolo di Tarso – lo porta a esporsi in modo estremamente narcisista. Carrère si presenta come il più inaffidabile dei narratori – pur millantando un certo rigore scientifico – ed è capace di affermazioni tranchant quali «Devo confessarlo: sono completamente sordo alla poesia», salvo poi ricostruire il milieu culturale in cui si incista l’apprendistato poetico di Limonov.

Carrère nasce come romanziere “di finzione” e solo negli anni Novanta – a partire proprio dal libro su Dick – si occupa della biografia: ne consegue che nei lavori della seconda fase il fantasma del romanzesco non sia del tutto esorcizzato. Selezionando tematiche e caratteri peculiari, il francese modella la narrazione seguendo un paradigma personale, e dunque persegue costantemente la sua versione. Così nel libro su Jean-Claude Romand assume importanza la religione e in quello su Dick si registrano le minuscole oscillazioni di un matrimonio in disfacimento. Carrère mette in scena dei grandiosi personaggi che vivono come emanazioni del suo io, pur mantenendo il fascino esotico che lo hanno spinto (e con lui il lettore) ad occuparsi di individui particolari.

La biografia di Dick, ripubblicata da Adelphi, è un’opera che risale al 1993 e si pone come cesura fra la prima e la seconda fase nella produzione del francese. In questo lavoro, più che nei successivi, si avverte la presenza di un modello di finzione che porta la storia a uniformarsi ai tempi narrativi del romanzo. Le intromissioni dell’autore sono poche e risultano spiazzanti perché improvvise, col il senno di poi sembrano carotaggi di un io fittizio, prove di uno spazio letterario non ancora individuato. Diffusi sono i giochi letterari: sfide lanciate al lettore o indovinelli che deformano in maniera netta la cornice biografica. Escluse tali interferenze l’opera presenta un grado di mimetismo inaspettato, forse dovuto al fatto che l’autore riscopre una figura amata, un personaggio che ha imparato a conoscere in tempi non sospetti, l’investimento emotivo di Carrère si fa più immediato e meno calibrato sulla volontà di razionalizzare e ricondurre all’ambito personale.

Grande spazio è riservato alla ricostruzione della psicologia di Dick: abbonda il monologo interiore in cui si innesca il meccanismo della paranoia, la logica deviata da cui Dick traeva in egual misura le visioni geniali dei suoi romanzi e le teorie complottiste che lo riempivano di sgomento. Il californiano viene presentato come figura ambivalente, da un lato attratto dal conformismo e dal riconoscimento (tanto da provare più di una volta ad evadere dalla letteratura di genere), dall’altro spinto – a causa di debolezze emotive, abuso farmacologico e paura della solitudine – a scavarsi una nicchia fra gli outsider, aderire a quella figura di profeta lisergico che ha fatto la fortuna del suo universo. Quella di Dick sembra una tortuosa e altalenante discesa agli inferi: da bambino prodigio in grado ingannare gli psicologi a melomane in odore di beat generation, da misconosciuto scrittore di fantascienza a guru della cultura psichedelica (senza aver assunto più di un solo acido), da artista in crisi a paranoico convinto di essere il tramite di un’intelligenza superiore.

Carrère orchestra la mutevole vicenda di Dick confrontandone la biografia con la produzione letteraria, a ogni opera corrisponde un particolare momento della vita. Tale dinamica evidenzia il carattere parziale del racconto, che non manca di attingere alle tematiche più care all’autore. Come abbiamo visto dall’incipit la vicenda della morte della gemella diviene struttura portante, metafora con cui si spiega l’ossessione di Dick a immaginare di vivere realtà parallele, Carrère lo ribadisce in più punti: «Nel rispondere a un giornalista che gli aveva chiesto della sua infanzia, Mark Twain aveva accennato al suo gemello, Bill. Lui e Bill da neonati si assomigliavano al punto che per distinguerli i genitori avevano legato al polso di ognuno un nastrino di colore diverso. Un giorno li lasciarono soli, senza controllo, nella vasca da bagno, e uno dei due annegò. I nastrini si erano sciolti. “Per cui” concludeva Mark Twain “non si è mai saputo chi dei due sia morto, se io o Bill”». Altri temi di grande importanza sono la tardiva conversione al cristianesimo – espediente con cui Carrère si guadagna lo spazio per riflettere ed esorcizzare i propri dubbi – e la lotta con una nemesi interiore: se per Romand “l’avversario” è il Diavolo inteso come allegoria del male interiore, e per Limonov quel Putin che ha minato la sua carriera politica, per Philip Dick l’ombra nello specchio si chiama Palmer Eldritch, antagonista dell’omonimo romanzo e personificazione dell’abisso di inconoscibilità di cui lo scrittore si credeva profeta.

A mio parere uno dei punti forti della scrittura di Carrère è la resa dei fondali. A dispetto della soggettività ricorsiva di cui si ammanta il suo stile, l’autore è bravissimo nel vivificare in poche pagine una determinata atmosfera, ricostruire un contesto storico a partire da notizie mirate, adoperare il registro lirico e comico con convinzione, alternandoli senza sbavature. Così in Limonov passiamo dalla bohemienne moscovita al fermento culturale newyorkese, dalla dissoluzione dell’URSS all’ascesa delle nuova oligarchia petrolifera. Anche in Io sono vivo, voi siete morti si avvicendano le peculiarità culturali di quattro decenni di storia americana: la Berkeley proto-hippie in lotta con il maccartismo, la cultura lisergica gravida di idiosincrasie, il reflusso degli anni Settanta e l’edonismo ipertrofico degli Ottanta. Se Carrère contamina la storia con la sue convinzioni, allo stesso tempo se ne lascia influenzare: le fonti di partenza permangono come scenografie privilegiate (in Limonov l’andamento nevrotico del Veneditk Erofeev di Mosca sotto vodka, in questo lavoro le opere di Dick). Dunque riesce a insufflare la medesima entropia di Pynchon, la paranoia persistente che aleggia nella cultura postmoderna, il relativismo gnoseologico di cui Dick si faceva portatore.

Non possiamo dire che questo romanzo sia perfetto: sono presenti in nuce quegli elementi che caratterizzano l’opera successiva del francese, peculiarità amate da molti e criticate da tanti altri. A chi si riconosce nello stile narrativo di Carrère questo lavoro piacerà come Limonov e L’avversario, chi invece non lo ama vi troverà attenuati quei passaggi criticabili. Per l’autore il problema non si pone: più di una volta ha affermato di preferire Dostoevskij alle “belle frasi” di Nabokov, dunque concepisce la sua produzione come una letteratura di idee, con tutte le varianti e le debolezze del caso. Forse ci troviamo di fronte a uno scrittore che non sopravvivrà all’oblio dei secoli futuri, ma di sicuro – grazie allo studio di una forma (auto)biografica ambivalente che riflette la nostra ossessione per l’individuo – ci confrontiamo con un abile narratore della contemporaneità.

Le intermittenze dell'io: Emmanuel Carrère racconta Philip Dick 1
+ posts

Nasce ad Andria nel 1992. Attualmente risiede a Bologna, città in cui studia Italianistica. Ha scritto per varie fanzine e blog. Collabora con 404: File Not Found e Rivista!Unaspecie. Ha fatto parte di due antologie di racconti patrocinate dal collettivo Wu Ming. Ha pubblicato racconti su TerraNullius e Nazione Indiana. Nel tempo libero mangia gelati, guarda match di wrestling e ascolta noise.

Cosa ne pensi?

Questo sito usa Akismet per ridurre lo spam. Scopri come i tuoi dati vengono elaborati.