[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]È[/mks_dropcap] storia di qualche settimana fa: Il posto di Annie Ernaux torna in classifica, a due anni dall’uscita per L’Orma Editore, grazie all’iniziativa popolare di Modus Legendi. Circostanza singolare, non tanto per la qualità dell’opera quanto perché quella della Ernaux, pur non essendo particolarmente complessa, è tutt’altro che una scrittura piacevole o accomodante – ancor meno da classifica. Nel corso della sua vita – più che della sua carriera, è il caso di dire – la scrittrice francese ha sempre attinto alla sua biografia. A partire dalla morte del padre di cui si legge proprio ne Il posto, la Ernaux ha parlato di un aborto, di un cancro, della morte prematura di una sorellina, fino al tentativo di fondere insieme, ne Gli anni (2008, nella cinquina del Premio Strega Europeo), la storia collettiva del Novecento francese con quella personale.
In generale, nessun desiderio letterario sembra attivare la scrittura della Ernaux quanto, piuttosto, la necessità di comprendere, di mettere a fuoco senza farsi troppe illusioni circa il risultato finale. Nella sua opera manca del tutto l’artificio, il trucco, la codina bitorzoluta dell’autore che voglia a tutti i costi compiacere o portare dalla sua il lettore. Solo ne Gli anni troviamo dei sussulti stilistici che ne fanno forse il testo più contemporaneo di una scrittrice che resta, comunque, fortemente novecentesca: l’alternarsi della prima persona plurale col punto di vista, alla terza singolare, del personaggio-narratrice; l’uso, quasi virtuosistico, degli elenchi; e infine un certo intersecarsi dei piani temporali, quasi a sussurrare che il tempo non scorra affatto come siamo abituati a pensare.
Ne Il posto – apparso in Francia, per la prima volta, nel 1983 – questi piccoli esperimenti non compaiono ancora; la Ernaux non fa di sé o della sua voce un personaggio e procede in linea retta, in una progressione che parte dando notizia di due semplici avvenimenti: l’ingresso dell’autrice nel mondo della scuola come docente e la morte del padre, prima contadino, poi operaio e infine proprietario di un bar-drogheria nella provincia francese. E qui sta il semplice, duplice innesco del libro, dovuto dunque a due attriti: da un lato il lutto, da un altro il classico cambio di paradigma all’interno di una famiglia contadina che compie l’approdo a un sistema di valori pienamente borghesi. Sono 107 pagine composte per lo più di righe di semplici appunti, brevi aneddoti e successioni di immagini che, pur senza mai dare avvio a un intreccio o a un racconto accattivante, ci tengono inchiodati alla pagina.
C’è infatti, in tutta la bibliografia di Annie Ernaux, una sensibilità pressoché unica nel confrontarsi con temi universali – in questo caso la perdita, il cambiamento – sempre guardata a vista da un rigido rigore formale (persino tipografico, se pensiamo agli spazi bianchi che separano i capitoli) volto a sciogliere ogni legame tra atto creativo e intrattenimento – di sé o degli altri:
Da poco so che il romanzo è impossibile. Per riferire di una vita sottomessa alla necessità non ho il diritto di prendere il partito dell’arte, né di provare a fare qualcosa di commovente e o appassionante […]. Nessuna poesia del ricordo, nessuna gongolante derisione. La scrittura piatta mi viene naturale, la stessa che utilizzavo un tempo scrivendo ai miei per dare notizie essenziali.
Per tutto il tempo in cui ho scritto ho continuato a correggere compiti, a preparare tracce per i temi, perché sono pagata per farlo. Questo gioco di idee mi procurava la stessa sensazione del lusso, sensazione di irrealtà, voglia di piangere.
Queste brevi riflessioni, oltre a far respirare il testo, compongono tra l’altro un piccolo manuale di scrittura dando spazio a quello che è il terzo attrito, quello più nascosto, che pure anima il libro e che nasce dal tentativo di scrivere con il dolore ancora addosso. Tentativo che si inserisce dalle parti del memoir più che dell’autofiction o addirittura del romanzo – come si era portati a supporre, forse, proprio nel caso de Gli anni; un memoir dal tono sempre asciutto, quasi neutro, che se anche lascia affiorare dell’emotività s’impegna a tenerla a freno, sfuggendo il melodramma e il rischio dell’opera ricattatoria e dando vita, invece, a una sorta di nostalgia frigida, appunto rigorosa, che sembra darsi dei limiti linguistici proprio come ne aveva la vita del padre dell’autrice:
[…] Queste parole o frasi dicono i limiti del mondo in cui visse mio padre, in cui anch’io ho vissuto. […] Non si usava una parola per un’altra.
Allo stesso tempo, pur dentro questi limiti, la Ernaux sa bene che la memoria è materia sempre viva, instabile. Forse per questo sceglie di non affidare il suo resoconto al passato remoto (con cui in genere gli eventi vengono fissati, inchiodati a un tempo ormai dato), propendendo invece per l’imperfetto e il passato prossimo, che sottolineano la ripetizione e la vicinanza dei fatti rievocati nel momento in cui li si dispone sul tavolo – il momento, cioè, in cui diventano l’unico presente possibile da cui raccontare.
L’impressione che si ha sempre leggendo la Ernaux, infatti, è che questo suo tentativo di decrittare la scatola nera della memoria finisca per erodere proprio il presente dell’autrice: che muta, si sgretola e si decostruisce proprio mentre lasciare fluire – seppure in ordine – il tempo perduto. Fuori dall’atto dello scrivere, forse, non c’è niente, e niente può essere strappato all’azione del tempo, come suggerisce il Jean Genet in epigrafe a Il posto:
Azzardo una spiegazione: scrivere è l’ultima risorsa quando abbiamo tradito.
E siamo ai temi del libro: perché il tradimento della Ernaux si sostanzia in entrambi i poli, i due attriti da cui, come detto, scaturisce la sua scrittura, e dunque dall’aver preso il suo posto all’interno della classe media francese proprio mentre suo padre moriva. Se, infatti, il genitore – di cui non sapremo neppure il nome – realizza se stesso preparando, negli anni, l’ascesa sociale della famiglia, è proprio quando la figlia diventa docente che la distanza generazionale si fa incolmabile. Anzi, possiamo azzardare che l’autrice inizi a seppellire gli Ernaux a-borghesi prima ancora della morte del padre.
Forse il suo più grande motivo di orgoglio, o persino la giustificazione della sua esistenza: che io appartenessi a quel mondo che l’aveva disdegnato.
Quel mondo pop e secolarizzato – per dirla col Michel Houellebecq poetico, ancora non del tutto paranoico de Le particelle elementari – cui molti europei, dalla metà del Novecento in poi, ambivano e che allo stesso tempo temevano, incapaci di comprenderlo, portatore com’era di un cambio di costumi che avrebbe polverizzato l’esistente. E che era rappresentato proprio dai figli adolescenti.
Ho finito di riportare alla luce l’eredità che, quando sono entrata nel mondo borghese e colto, avevo dovuto posare sulla soglia.
Per lunghi tratti, soprattutto quando il cammino verso la classe media è compiuto, la Ernaux sembra stupirsi che possano esistere altre forme di vita fuori dal suo universo borghese: per questo ho parlato di un’autrice fortemente novecentesca – che sminuzza, come riesumasse l’ortografia e la grammatica di un vecchio dialetto, quella che appare una stagione ormai conclusa della nostra avventura europea (e non c’è bisogno di citare i mutamenti degli ultimi quindici o vent’anni, che sembrano aver fatto scorrere al contrario le vite di molti, per spiegare di cosa sto parlando); e proprio per questo, forse, la sua opera va presa oggi ancora più in considerazione: perché raccontando quella che è, in buona sostanza, la generazione dei nostri nonni e di alcuni dei nostri padri, ci dice qualcosa di prezioso circa ciò che siamo stati e su cosa possiamo ancora essere come europei.
Al di là delle classifiche, più che lettori affezionati o accaniti si può dunque essere lettori fortunati di Annie Ernaux: fortunati di poter instaurare un dialogo e un confronto con una delle rare voci fortemente autoriali ancora presenti in Europa, con il suo metodo rigoroso e antiretorico che punta al cervello più che alla pancia. Un plauso dunque per L’Orma Editore che sta riportando in Italia l’opera di quest’autrice e lo sta facendo – sembra scontato, ma non lo è affatto – con le ottime traduzioni di Lorenzo Flabbi e un’accurata veste grafica, che rende giustizia al tono, al rigore di Annie Ernaux.