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I treni non esplodono: Storie dalla strage di Viareggio

Il discorso è che quando succede qualcosa è sempre una somma di elementi. C’è quello umano, il fatto che non c’era nessuno lungo la linea. Poi erano quattordici cisterne, tante. C’è la velocità sostenuta, andava a cento chilometri l’ora. È molto, ma non è che fosse fuori norma, i treni merci andavano e continuano ad andare a quella velocità, anche quelli con le merci pericolose. Ora hanno ridotto a cinquanta all’ora ma solo “ambito Stazione di Viareggio”, e questa è veramente una cosa ridicola. In tutta Italia vanno a cento e a Viareggio, visto quello che è successo, a cinquanta.

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]I[/mks_dropcap]l 29 giugno 2009, alle 23.48, il treno merci 50325 Trecate-Gricignano composto di un locomotore e 14 carri cisterna contenenti GPL deragliò subito dopo aver passato le banchine della Stazione di Viareggio, in Toscana. Su Wikipedia questo evento lo si trova alla voce “Incidente ferroviario di Viareggio”, ma per la città di Viareggio, per le persone che quella notte hanno perso parenti e amici e per quelle che sono sopravvissute nonostante gravi ustioni è stata una strage. Undici persone morirono in pochi minuti quando il GPL fuoriuscito da uno dei carri cisterna, passato dallo stato liquido a quello gassoso e infiammabile, prese fuoco illuminando il cielo notturno e facendo esplodere tre palazzine in via Ponchielli. Nei mesi successivi altre venti persone morirono a causa delle ustioni; due anziani morirono di infarto, probabilmente a causa dello spavento dovuto all’esplosione. Un centinaio di persone rimase ferito.

Quest’anno si avrà il giudizio in primo grado di 33 imputati accusati di avere una responsabilità nella strage – tra questi c’è Mauro Moretti, ex amministratore delegato di Trenitalia, cavaliere del lavoro dal 2010 e oggi a capo di Finmeccanica. Quest’anno è anche uscito I treni non esplodono. Storie dalla strage di Viareggio di Federico di Vita e Ilaria Giannini che raccoglie le testimonianze di ventitré persone che hanno assistito all’incidente o possono essere annoverate tra le vittime della strage. Questo libro è un ottimo invito a non dimenticare un fatto terribile che non dovrebbe essere rimosso dall’attenzione collettiva come capita con i casi di cronaca nera, ma invece dovrebbe essere ricordato e conosciuto nei dettagli perché riguarda tutti: chi è salito su un treno Trenitalia almeno una volta nella vita, chi ha avuto a che fare con il sistema giudiziario italiano, chi pensa che il dialogo tra cittadini e istituzioni dovrebbe cambiare. La strage di Viareggio non è stata solo una tragedia personale per le famiglie delle vittime, è stata un avvenimento terribile che ha messo in luce i problemi della gestione di un’azienda statale, cioè Trenitalia.

Alcuni fatti, tra i tanti spiegati in I treni non esplodono. Dal 2001 i residenti di via Ponchielli chiedevano l’installazione di una barriera anti-rumore che separasse la strada dai binari e che, secondo i periti interpellati dalla procura di Lucca, avrebbe limitato gli effetti del deragliamento contenendo circa l’ottantaquattro per cento del gas fuoriuscito. Solo da uno dei carri cisterna è fuoriuscito il GPL: fortunatamente gli altri tredici sono rimasti intatti nonostante il deragliamento. Negli ultimi venticinque anni il numero di ferrovieri è stato ridotto da 224mila a 68mila; se alcuni dei posti di lavoro nelle stazioni precedenti quella di Viareggio non fossero stati tagliati, qualcuno si sarebbe accorto che il merci 50325 Trecate-Gricignano aveva qualcosa che non andava. Il primo carro cisterna del treno era stato sottoposto a revisione, nell’Officina Junghental di Hannover, sette mesi prima del 29 giugno 2009: l’esame fu eseguito male e non ci si accorse della frattura che poi causò il deragliamento.

I racconti dei testimoni in I treni non esplodono, raccolti in tre anni di ricerche, non sono mediati dagli autori, solo una breve introduzione spiega chi è che parla capitolo per capitolo. Alcune testimonianze – come quella del capostazione Carmine Magliacano, nella citazione che apre questa recensione – sono trascrizioni delle deposizioni raccolte al processo. La prima voce è quella di un semplice osservatore dell’incendio del 29 giugno, l’allora studente ventunenne Federico Giannini: il suo sguardo di curioso porta il lettore sul luogo dell’incidente, lo mette di fronte al senso di impotenza che segue la realizzazione che qualcosa di grave sta succedendo. Chi legge sa che è solo un caso se non era al posto di Giannini quella notte e se non gli è mai capitato di assistere a un evento tragico come la strage di Viareggio:

Siamo andati a vedere perché eravamo curiosi. Non avevamo capito che la situazione era così grave. Eravamo spinti da curiosità e basta, non ti puoi immaginare che una via intera abbia preso fuoco. (…) Chi arrivava era curioso, chi era lì disperato.

Poi le testimonianze di parenti delle vittime si mescolano a quelle di chi quella notte lavorò, perché impegnato nei soccorsi, perché parte del personale della ferrovia o perché operatore video chiamato a riprendere le immagini dell’incendio. Leggendo I treni non esplodono si ha l’impressione di stare ascoltando uno di quei podcast (come l’americano Serial, per chi lo conosce) in cui una storia vera si compone nel montaggio di voci che si susseguono e si riesce a capire di cosa si sta parlando grazie all’accumulo. Anche alcuni documentari funzionano in questo modo: chi ascolta o guarda (e in questo caso, legge) si fa un’idea di quello che è successo molto più velocemente di quanto non succede leggendo una cronaca impersonale, perché si accende l’empatia.

Il racconto in prima persona di Anna Maccarone, ustionata al cinquanta per cento e resa invalida dall’incidente, mette di fronte al dolore provato in nove mesi di ricovero in ospedale e tuttora oggi come nessun resoconto impersonale potrebbe fare – la descrizione dettagliata dei trattamenti terapeutici ricevuti da Maccarone potrebbe addirittura disturbare i lettori più sensibili. Il punto di vista di Giorgia Simi, nel 2009 coordinatrice dell’obitorio di Viareggio, che ha visto i corpi di tutti i morti della strage, non potrebbe essere immaginato se non ascoltando la sua testimonianza. Lo stesso vale per la rabbia di Daniela Rombi, madre di Emanuela Menichetti che nel 2009 morì a 21 anni, quando chiese al presidente della repubblica Giorgio Napolitano perché avesse insignito Mauro Moretti del titolo di cavaliere del lavoro. C’è una frase pronunciata da Rombi (a cui si deve anche il titolo di I treni non esplodono) che è molto semplice e potrebbe essere riassunta con un discorso indiretto in terza persona, ma più di tante altre mostra il valore di un documento come questo libro:

A me non mi può dire nulla nessuno, perché comunque ho sempre ragione io. Io una figliola non ce l’ho più, quindi tutto il resto non mi interessa.

Federico di Vita e Ilaria Giannini hanno condotto un’indagine e hanno studiato a fondo cosa è successo quella notte e come avrebbe potuto essere evitato. Nell’ultimo capitolo di I treni non esplodono sono loro a parlare, a estendere il discorso aperto dalle testimonianze dirette. Leggendolo si capisce chiaramente che un’idea sulle responsabilità della strage di Vita e Giannini se la sono fatta, e infatti scrivono:

È interessante cercare di individuare il punto di non ritorno in cui l’incolumità di operatori e passeggeri è stata scavalcata da un unico invincibile contendente, la brama di profitto, che in alcuni casi si spinge sino a considerare più vantaggioso il risarcimento di eventuali vittime rispetto alla messa in sicurezza delle infrastrutture.

Nel caso delle ferrovie questo punto è coinciso con la costruzione della rete ad alta velocità.

Se di Vita e Giannini hanno scelto di lasciar parlare i testimoni diretti del deragliamento del treno merci 50325 Trecate-Gricignano e delle sue conseguenze, e se hanno deciso di prendere parola solo alla fine del libro, è perché anche i lettori possano fare lo stesso percorso che hanno fatto loro, investigando sui fatti e ascoltando le storie delle persone.

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