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Da mio padre avevo imparato, molto tempo dopo avere smesso di seguirlo sui sentieri, che in certe vite esistono montagne a cui non è possibile tornare. Che nelle vite come la mia e la sua non si può tornare alla montagna che sta al centro di tutte le altre, e all’inizio della propria storia.

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]F[/mks_dropcap]inora il talento di Paolo Cognetti si è manifestato nella forma del racconto. Prose giocate sul filo del non-detto, a dipingere un quotidiano evanescente in cui agiscono personaggi dalla psicologia fragile ma complessa. L’effetto di affezione che suscitano nel lettore ricorda la voce delle umanissime distopie di George Saunders; simile è la capacità di trattare con semplicità e partecipazione i drammi e le relazioni ambivalenti fra gli uomini. Lo scrittore di Amarillo si è cimentato nel primo romanzo per adulti (ne aveva già scritti un paio per bambini, oltre alle celebri raccolte di racconti) che a breve uscirà negli Stati Uniti. Per quanto riguarda Cognetti il salto si è già compiuto a fine 2016, con un testo che si vocifera in lizza per lo Strega 2017.

La storia imbastita dall’autore si snida su pochi elementi, intersecati come i legami dei pochi abitanti del paesino di Grana. A questi si aggiunge un contesto spaziale – quello della montagna – vissuto e conosciuto intimamente. I genitori di Pietro si sono sposati all’ombra delle Tre Cime di Lavaredo e poi, per motivi di lavoro, hanno deciso di abitare a Milano. Ma la città stritola e il richiamo della montagna è troppo forte, Pietro cresce diviso fra la metropoli e la casa estiva di Grana, un paesino alle pendici del Monte Rosa. La montagna è l’ambiente in cui si sviluppa l’amicizia con Bruno, ragazzo del paese che non conosce nient’altro che i pascoli e i declivi del posto. Il legame fra i due attraversa le diverse età della vita: dapprima l’infanzia alla scoperta della montagna, poi la giovinezza irrequieta in cui si palesa lo spettro di un destino diverso per entrambi; infine l’età adulta in cui la lontananza si fa fisica ancor prima che emotiva. Pietro sembra fuggire da tutto: da se stesso e da un’esistenza che subisce con quieta estraneità. In uno dei suoi lunghi soggiorni in Nepal, un vecchio del luogo gli pone la domanda che sintetizza i dubbi della sua esistenza:

Noi diciamo che al centro del mondo c’è un monte altissimo, il Sumeru. Intorno al Sumeru ci sono otto montagne e otto mari. Questo è il mondo per noi. […] E diciamo: avrà imparato di più chi ha fatto il giro delle otto montagne, o chi è arrivato in cima al monte Sumeru?

Nella prosa tersa di Cognetti si agitano le diverse interpretazioni di una questione fondamentale: qual è il miglior modo di fare esperienza? L’ascetismo di Bruno – in simbiosi con il ciclo naturale della montagna – o la fuga perenne di Pietro? Siamo dalle parti dell’epistemologia dei romanzi di avventura di Conrad e Melville (autori di cui Pietro è un accanito lettore); siamo al dilemma fra vita e rappresentazione così ben descritto da un grande classico della letteratura di amicizia come Il grande Meaulnes di Alain-Fournier.

Nel romanzo francese si narrano – in un misto di onirismo e tragedia – le avventure di Meaulnes, ragazzo che incarna il principio di rivolta alla vigilia della Prima Guerra Mondiale. Al suo fianco – o meglio a distanza tale da poterne raccontare la storia – troviamo la voce del narratore, il suo amico Francois che si chiede se la vita di Meaulnes sia andata sprecata, oppure se deve essere lui a recriminare per aver scelto la sicurezza alle opportunità di una vita rocambolesca. Ma in fondo a Francois va bene così, perché con la deformazione fantastica ha potuto viaggiare anche lui assieme a Meaulnes, e poi perché è conscio del mistero insondabile della vita, giacché «forse la morte sola potrà darci la chiave e il seguito e la fine di questa avventura mancata».

Nel romanzo di Cognetti i termini sono capovolti. Bruno è il mistero, una sfinge che subisce la montagna come l’unico ambiente in cui è dato vivere. Per questo il suo modo di fare esperienza è irrazionale, preconscio: « per noi questa è la montagna di Grana. Non diamo nomi qui. È questa zona». Pietro invece concepisce l’esperienza dapprima come esplorazione e poi come fuga; stavolta è il narratore a essere inquieto. Ciascuna concezione tradisce una diversa maniera di trovare significato all’esistenza, e nel romanzo di Cognetti il ventaglio di possibilità non si esaurisce a Bruno e Pietro.

Attorno ai due si struttura una complessa rete di rapporti: nell’impervio ambiente montano il dato umano riacquista valore perché è contemplato da una società ristretta. I legami sono catene invisibili ma inossidabili: c’è l’incontro-scontro fra la madre e il padre di Pietro, il rapporto di competizione silente fra padre e figlio. Ma c’è anche la rassegnazione che investe Bruno nel confronto con la famiglia, mista all’orgoglio di essere il depositario di una cultura in via di estinzione. E ogni sfumatura si riflette nell’ecosistema composito della montagna: la madre di Pietro ama i pascoli e i prati illuminati di verde, la comunione panica con l’ambiente circostante; il padre invece è impegnato nella ricerca del suo limite, si spinge sempre più in alto, verso ghiacciai e cime rocciose, anch’egli attua – come il figlio – una sorta di fuga irosa che si esplicita in senso verticale.

Il microcosmo di Cognetti ricapitola la molteplicità del mondo, lo fa sottraendo lo spazio del racconto alla frenesia di tanti romanzi appiattiti sulla contemporaneità. L’arte di Cognetti è saper donare profondità a una prosa tersa, organizzare un flusso di frasi accostate con la minuzia di un artigiano che non vuole ammaliare il lettore, semplicemente irretirlo con la genuinità della vicenda. E questo autore biondo e dall’aspetto selvatico ci ricorda che l’origine e il senso delle cose – del paesaggio, dei rapporti fra persone, della realtà esterna – sta nell’occhio di chi guarda. Bisogna solo scegliere se viaggiare per le otto montagne o scalare quella più alta.

(Immagine copertina: Roberta Roberto)

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