Il motivo del viaggio metamorfico che dalla mitologia greca attraversa l’epica, passando per il limbo dantesco, le visioni immaginifiche di Robert Louis Stevenson e quelle stranianti di Kafka fino ai reportage non fiction di oggi, suggerisce che in ogni storia ci sono mete e destinazioni, traduzioni fisiche di ostacoli e conquiste degli eroi viaggiatori. L’importante, però, non sta solo nel segnare tappe e tracciare mappe, ma è come si vive il mutamento tra i punti di uno spazio in scala.Perché eravamo nel deserto e non c’era niente di niente, quindi precisarlo, scrivere assolutamente nulla, e indicare la distanza, mi è sembrato paradossale.
No, dice lui, è giusto.
Ma non è vero, dico. In quelle ventidue miglia lo spazio continua a esserci.
Lo spazio sì, dice lui, ma la lingua no.
Cosa vuoi dire?
Che la lingua a volte tace. Ammutolisce è più esatto. La lingua, riprende dopo avere messo a fuoco il suo ragionamento, resta senza parole.
Sembra un gioco.
Non lo è. Absolutely nothing significa che a volte la lingua dice basta, non ce la faccio più, mi riposo; tra ventidue miglia ricomincio, ma per il momento mi fermo, smetto di seguire.
Per Giorgio Vasta e il fotografo Ramak Fazel in Absolutely Nothing. Storie e sparizioni nei deserti americani si tratta di osmosi, un rapporto di dare e ricevere nella scrittura, che in Vasta si traduce in un inglobare, digerire e fare suo. Il racconto del viaggio di due settimane tra California, New Mexico, Arizona, Nevada e Louisiana, insieme a Silva, l’editore curatore del progetto, e Ramak, volge verso un itinerario nei luoghi abbandonati, in città e realtà a dir poco sconosciute, se non inesistenti per chi legge.
Quando si incontra l’America c’è un apparato di luoghi comuni e finzioni da sfatare o, naturalmente, da confermare e vivere. Così Vasta sceglie di raccontare un itinerario che ambisce a esplorare un limbo tra una mancanza e una pienezza di parole e impressioni che si moltiplicano in ogni dettaglio del suo stile. I compagni di viaggio sono due guide reali e finzionali: una dannata dalla disperazione della scoperta, l’altra caratterizzata da un’indole enciclopedica che dà senso al mondo.
Scesi dalla jeep vedo subito sul grigio chiaro del marciapiede una fragola rossissima. Così, solo, lampante. Un attimo dopo passo accanto a un distributore automatico di giornali – gambo e telaio neri, la teca trasparente con la scritta LOS ANGELES TIMES, più giù l’annuncio dell’Elephant Parade, HERD EVERYWHERE IN DANA POINT! – e ancora un po’ più in là mi abbasso su un altro tombino L.A. Water, la superficie cosparsa di piccoli nodi in rilievo simili ad aculei, e mi ritrovo a pensare che da un viaggio desidero soprattutto questo, percezione e inventario, vita sensoriale che diventa linguaggio, censimento dei materiali, un’ininterrotta descrizione di cose senza mai una consapevolezza precisa, senza mai la traccia di un significato, senza neppure l’ombra di una metafora: un viaggio di soli fenomeni e stupore.
Lo scrittore sceglie di procedere per visioni, non necessariamente in ordine cronologico e geografico, contornate da descrizioni e osservazioni estemporanee che si uniformano e diventano la narrazione. Le impressioni successive al viaggio sono analisi tardive, un metabolizzare lento che si sedimenta nella scrittura e si fonde con l’esperienza di vita.
Absolutely nothing è l’espressione ossessiva che darà inizio al percorso personale. Un’ossessione, per Vasta, prima di tutto semantica: significato e significante non coincidono, perché l’assolutamente niente è, in effetti, qualcosa: è l’accostamento ossimorico tra il nulla e la materialità degli spazi che spinge alla ricerca di senso. In presenza del niente anche la localizzazione geografica appiattisce fino alla calligrafia di un nome, ecco perché il racconto, più che comporsi di nomi, riflette nella parola che cataloga continuamente. Vi si aggiunge il punto di vista di Vasta per conferire un’anima a qualcosa che sarebbe solo un elencare incessante.
I luoghi della mancanza, echi lontani dell’opulenza iconoclasta americana, ricordano ma non sono, anche se immersi nella finzione. Descrivere l’America diventa l’America stessa che non è altro che una «tall-story», una «verità bugiarda», un enorme romanzo con il quale bisogna trovare significati altri ed evitare di farsi schiacciare dalla mole di rimandi. Senza la scrittura di Vasta, per esempio, la landa desolata di Bombay Beach sarebbe stata una qualsiasi tappa nel deserto se non fosse stato per i personaggi di Jeanne e Rudy, due anziani in pensione che riempiono il tempo con l’accumulo massivo di oggetti. Oppure il museo degli UFO a Roswell non avrebbe suscitato una riflessione storica e narrativa sull’indole statunitense di dubitare dell’autorità che lascia vuoti di mistero da gonfiare con storie.
Lo stile di Vasta è un telescopio: osserva le cose lontane, le mette a fuoco, le ingrandisce e le trasforma nella rotazione con uno sguardo approfondito in grado di cogliere passato, presente e futuro. La sua vista diventa simile a quella di una mosca: una miriade di lenti di ingrandimento che in Absolutely Nothing animano lo spazio circostante creando personaggi e luoghi di finzione interiore.
Ne Il tempo materiale (minimum fax, 2008) tre ragazzini, imbevuti di retorica brigatista, creavano un equilibro paradossalmente anarchico, fondato sulla potenza delle parole dei testi dei terroristi e, allo stesso tempo, sulla scomparsa delle parole in un crescendo di silenzio lobotomizzante fatto di alfabeti gestuali. Tutto cadenzato dai mesi e dagli anni ’70 che compaiono come titoli dei capitoli. In Absolutely Nothing la dualità tra scrittura e tempo trova la sua realizzazione in un componimento slegato dal momento in cui è avvenuto:
Se anche il viaggio, com’è logico, ha previsto un prima e un dopo, il suo racconto funziona in un altro modo: il tempo si rompe, la linearità si perde, il ricordo si mescola all’oblio, la ricostruzione all’invenzione, il prima e il dopo si fanno relativi e davanti agli occhi e nelle orecchie c’è solo il picchiettio sottile delle palline sul pavimento, la vitalità selvatica di ciò che si sparpaglia.
Nell’intervista di Marco Montanaro per Ultima Pagina, Vasta aveva parlato di due fasi della composizione: la «costruzione» e, quando questa si rivela colma di correlazioni tanto da provocare un senso di straniamento, l’eliminazione, il limare per annebbiare la vista di corrispondenze troppo lineari. Scrivendo a distanza dal viaggio avvenuto e rimescolando le date, il tempo della finzione si allinea a quello dello scrittore tracciando un racconto che è più ricerca che scoperta. La visita dei luoghi abbandonati si trasforma in un’indagine su un elastico temporale che si dilata fino a diventare eterno e si accorcia con un guizzo agendo su cose o persone, in grado di conferire eternità pagando il pegno dell’oblio. Sembra quella parabola filosofica del rumore dell’albero caduto in una foresta deserta: il tempo passa anche se non c’è nessun umano a misurarlo.
Ci saranno diverse visioni sul trascorrere del tempo che si uniranno alle miriadi di narrazioni che nutrono l’America. Ai due tempi, il viaggio e il ritorno, il lavoro di limatura ed elaborazione e la persona che scrive, subiscono una metamorfosi, muovendo dall’interno della scrittura all’interno di Vasta e diventando un tempo ulteriore in cui giace un’altra storia.
In superficie, a Bombay Beach e in ciò che resta degli altri insediamenti che circondano il lago, scorre invece il tempo segnato da un orologio umano, dunque fiducioso, dunque scettico, necessariamente costretto a tenere conto dei corpi di chi risiede qui, della loro reale aspettativa di vita. Dalla discrepanza tra i due orologi, dalla perenne asincronia di queste due biologie, si determina lo stallo, l’esistenza in disarmo, che non coincide con la smobilitazione ma con la sua impossibilità.
Gli accumulatori seriali di Bombay Beach aspirano al «tuttopieno»; il Trotter Park, l’ippodromo-astronave immerso nella polvere del deserto giace in «un futuro anteriore sotto forma di architettura»; poi ci sono le nenie ipnotiche nel deserto del Mojave, di Bill del Bagdad Caffè che recita un copione per far rimanere a lungo, magari per sempre, i pochi avventurieri. Nonostante l’immagine dell’America coincida con la fantasia, c’è l’America abbandonata che Giorgio Vasta riesce a caratterizzare ogni volta in modo diverso. Il montare e smontare della parola, i periodi nominali e lunghi che si lasciano andare a elenchi su un’intera pagina, sono un tentativo di ricondurre l’oggettività e l’anonimato del paesaggio al valore dello sguardo originale dello scrittore.
A ogni passo che muovo fuori e dentro queste vecchie abitazioni, il mio sguardo sfida il linguaggio. Lo interrogo, vuole sapere se ha da mettergli a disposizione qualcosa di buono per nominare, per fare frasi, vuole misurare limiti e risorse. Del resto individuare parole per dire u posto come Daggett non è semplice, le sfumature sono minime e fondamentali. Per esempio, se anche mi piacerebbe descriverlo come smantellato, so di non poterlo fare. Perché smantellato presume un ordine logico, una procedura che qui è mancante; sfasciato oppure scassato sarebbero più adatti perché grossolani, così come il palermitano scafazzato, che vuol dire schiacciato, ma in una forma triviale; deperito medicalizza il fenomeno, deturpato lo moralizza, demolito rimanda a un’intenzione, spaccato lo riconosce nella sua connessione a una materia divisibile; sgangherato semplicemente lo motteggia.
Absolutely Nothing non è la lingua che si ferma, «dice basta», perché Vasta la parola la insegue, ci gira intorno prima di scegliere la migliore. Absolutely Nothing è un paradosso tra lo spazio immenso e silenzioso fatto da una folla di voci e storie che rimarranno imperscrutabili, ma che sicuramente continueranno a far nascere storie su storie. Se qualcosa sfugge, se la mancanza ha offuscato la visione dello spostarsi, è perché verso la fine diventa introspezione e dialogo interiore, un tipo tutto particolare di letteratura di viaggio che disegna le mappe imprimendole su chi ha intrapreso l’avventura.
Laureata in Editoria e Pubblicistica sta cercando di entrare a far parte del mondo dell’editoria. Per questo scrive e legge come se non ci fosse un domani. Interessata all’informatica e all’editoria digitale nella misura in cui non la facciano sentire stupida. Per un po’ ha scritto di cinema e serie-tv su Cinefilos.it.
Adora l’horror perché è cresciuta senza conoscere le sue paure e le raccolte di racconti che le ricordano come non ci sia solo una storia da raccontare. Oltre a scrivere su Ultima Pagina, si diverte a inventare nomi per categorie improbabili sul suo blog: Il mondo urla dietro la porta.
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