Aveva nei polmoni la terra rossa degli scavi, la sua saliva sapeva dell’acciaio dei ponteggi. Le ossa parevano cemento, un’armatura ingombrante che le faceva male portarsi dentro, rigida da potersi spezzare.
[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]P[/mks_dropcap]rima dell’interiorità, il mondo complesso dell’elaborazione personale, c’è un corpo inserito in uno spazio. Lo spazio in Fuori non c’è nessuno, l’opera di esordio di Claudia Bruno, è fatto di linee spigolose, scatole di cemento, cantieri, polvere, rettangoli concentrici di strade che dividono le diverse parti di un mondo grigio. Non a caso alcuni protagonisti si riempiono gli occhi di cielo, unica variante in un paesaggio che li tiene in ombra, abitanti della cittadina immaginaria di Piana Tirrenica. Non è poi così lontana dalla realtà se conosciamo la sua storia: da avamposto agricolo, dominato dalla campagna e qualche macchia boschiva, a colonia industriale moderna dopo la bonifica delle paludi durante il fascismo e, più tardi, l’inclusione nella Cassa del Mezzogiorno. Da miraggio autarchico a reale speranza per la creazione di nuove vite, come le famiglie che si trasferiscono dal meridione in cerca della prosperità promessa.
I luoghi sono come le lingue: tramandati di generazione in generazione, compongono l’idioma ufficiale dei ricordi. Se ci si allontana dalle radici – famigliari in questo caso – trasferendosi altrove, le nuove generazioni parleranno un linguaggio della memoria impuro, dove il passato è destinato a sbiadire. È quello attorno a cui ruotano le famiglie di Greta e Michela, due amiche di cui si ripercorrerà l’intera infanzia. All’apertura di ogni capitolo, i ricordi della piccola Greta saranno scanditi in ordine decrescente a partire dai nove anni – quando si trasferisce con la famiglia a Piana Tirrenica – fino ai due, in una forma embrionale di ricordo sbiadito dalla memoria che si sta formando.
Durante la narrazione compariranno altri personaggi, molto spesso donne, raccontati in diverse fasi della vita utili a scandire la storia dei luoghi da loro abitati. L’incastro tra luogo, memoria e individui è un legame imprescindibile che diventa tema principale del romanzo. Come un albero genealogico che ritrae la composizione di una famiglia, così si costruirà una gerarchia evolutiva tra spazio e persone: nonostante ci sia Piana Tirrenica a fare tabula rasa delle peculiarità di chi proviene da altrove, Nadia e Anita, madre e figlia, sono custodi dei ricordi di quando la macchia di sughere era ancora estesa da permettere ai bambini di perdercisi dopo la scuola; Greta e Isabella, la nonna protagonista dei suoi ricordi, che le parlava tra i campi al ritmo di filastrocche e detti in una lingua arcaica ormai dimenticata.
Non è facile intraprendere un percorso fatto di ricordi felici sempre puntellati da un paesaggio circostante che suggerisce continuamente la fuga, realizzata da Greta o dall’amica Michela che è andata a Londra.
A crescere nella bruttezza ci si può sentire incapaci di generare qualcosa di diverso, e alla fine alla bruttezza ci si affeziona, tanto da continuare a cercarla. Piana Tirrenica era un posto brutto. Non c’erano piazze, non c’erano teatri, non c’erano giardini. C’erano le strade, c’erano i comignoli delle fabbriche, c’erano le gru. Non sembrava un luogo nato per le persone, ma per collegare palazzi, capannoni e automobili. A chi le chiedeva cosa ci fosse a Piana Tirrenica, Greta rispondeva il cielo, a Piana Tirrenica c’è il cielo. E con Piana Tirrenica intendeva la cento, e con cento si riferiva a centosessantasette, il numero della legge sull’edilizia popolare che dava il nome al quartiere in cui non aveva scelto di arrivare e da cui era scappata.
I luoghi del dolore sono anche luoghi della crescita e, in una sorta di dipendenza nociva, non si può fare a meno di ammettere che qualcosa è avvenuto: è lì che il pensiero di bambina è maturato a donna. Grazie all’impronta originale nella sua memoria, Greta si è sempre sforzata di dare personalità all’austerità di Piana Tirrenica, al contrario di chi si è arreso all’impersonalità, per cui le tradizioni vengono dimenticate proprio da coloro che dovevano serbarne il ricordo. Succede ai genitori di Michela, che si ritirano nella superbia borghese, e si riflette sulla figlia come se fosse continuamente una straniera nel mondo.
Rosaria e Gianni erano la polpa senza buccia che si siede, il guscio svuotato che cammina, il ferro e la polvere, la svelata miseria della condizione umana che soggiace al perbene e al permale, alle convenzioni, ai pettegolezzi, alle facciate, ai progetti a lungo termine, ai risparmi, ai soprammobili, ai servizi di piatti e bicchieri, ai tappeti persiani, ai cuscini bianchi dei divani inutilizzati, alle vetrine lucide delle ante mai aperte, ai faretti negli ingressi e nei corridoi, alle compere del sabato, ai pranzi della domenica, ai credo in un solo dio padre onnipotente, ai signore pietà, ai di’ soltanto una parola e io sarò salvato, ai signore perdonami perché ho peccato, alla vergogna, al pudore, al senso di colpa, alla claustrofobica fedeltà di sangue purché sia lo stesso.
Ogni generazione è pervasa da un senso di fuga, non importa verso cosa: si tratta di una sorta di rito di passaggio per impossessarsi del mondo e della modernità. Se Isabella era la nonna vissuta in un luogo per tutta la sua vita, Alba, la figlia, in una mattina di danze in paese, sogna di andare via dalla sua terra, fino a Greta, orfana di un senso di familiarità che non potrà più tornare e che colmerà attraverso un’inguaribile speranza per il futuro.
La scrittura spesso indugia su metafore nate dal paesaggio e plasmate sui personaggi, oppure si lancia in sguardi panoramici elegantemente descritti:
Greta e Lorenzo erano un’isola senza appigli in mezzo a un deserto d’impalcature e asfalto al confine con gli ultimi lembi di terra incolti in attesa di essere svenduti al miglior offerente. Tutt’intorno, stormi di cornacchie e gabbiani annidati negli stabili ancora sprovvisti di porte e finestre. Mantidi religiose aggrappate alle grate dei cancelli, e la campagna industriale, con le sue serpi e il suo silenzio diurno direttamente proporzionale ai nugoli di topi piccoli e al gracidare primaverile delle rane al crepuscolo che precede il notturno e inquieto pigolare di civette e barbagianni sui lampioni radicati al posto delle anziane sughere, il definitivo sbatter d’ali dei cuccioli di pipistrello. Di fronte al canto muto delle gru quelle creature sembravano conservare l’intenzione di presidiare il luogo, fino all’ultimo istante.
Il rapporto tra il dentro dei protagonisti e il fuori che li circonda è uno degli aspetti più affascinanti del libro, perché non è mai ripetitivo nel tracciarne i profili e, allo stesso tempo, li unisce attraverso la molteplicità di storie. E allora sì che i luoghi acquistano senso: amati o odiati che siano, chi li abita gli conferisce un significato. Il coro di voci si arricchisce di personaggi, tanto che è possibile identificare un unico protagonista, oltre a quello più scontato suggerito dalla narrazione.
Fuori non c’è nessuno è una lenta ballata della malinconia e della nostalgia, ma è così dolce da conquistare attraverso la familiarità e l’innocenza infantile. È una nenia che contraddistingue ogni crescita e, come ogni sviluppo, pretenderà di fondersi con il lettore, con chi è stato e cosa vorrà essere negli spazi che occupa.