Rendo la gente presentabile per poter vendere la sua mercanzia. Sono capace di spacciare una pagina dell’elenco telefonico per il trattamento del Ritorno del Titanic. Faccio andare in porto le cose. Questo faccio. Sono un agente perché agisco. So che non hai un agente, ma almeno sai agire, Joshua?
[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]J[/mks_dropcap]oshua Levin – il protagonista di L’Arte della Guerra Zombie, l’ultimo romanzo dello scrittore Aleksandar Hemon pubblicato da Einaudi – è un trentenne dissociato a tal punto dalla realtà che lo circonda da essere abituato a trasformare le situazioni che vive in abbozzi di sceneggiature. È così che, un pomeriggio in ospedale, di fronte alla vista delle chiappe vizze di un vecchio “secco come uno stoccafisso”, partorisce
l’idea #185: Un adolescente scopre che l’amato nonno della sua ragazza era una guardia in un campo di sterminio nazista. I nonni del ragazzo sono dei sopravvissuti, ma lui è irrimediabilmente prossimo allo sverginamento, per cui quando in città arriva un cacciatore di nazisti sulle tracce del nonno, deve distrarlo il tempo necessario per riuscire a scopare. Titolo: La libidine dei giusti.
Non chiedetemi di spoilerare ulteriormente, ma fidatevi di me quando vi dico che questa è una delle idee migliori che il protagonista di questo romanzo riesce a concepire. Un viatico ben poco rassicurante per uno che lo sceneggiatore ambisce a farlo per mestiere e i cui sforzi sono tutti tesi a far breccia nel reame dei Weinstein, il nomignolo un poco antisemita con cui l’uomo che tiene il workshop di scrittura frequentato da Joshua, un tale Graham, suole chiamare i produttori di Hollywood.
Tra questi mozziconi di idee, tuttavia, ce n’è una, “Guerre zombie”, che Joshua non ha abbandonato poco dopo averla partorita, come accade sovente con le altre. Lo script, nato tra i tavolini di una caffetteria di Chicago talmente anonima da chiamarsi “Coffee Shoppe , racconta le avventure di un medico militare, il maggiore Klopstock.
Nel bel mezzo del collasso dell’umanità, al maggiore Klopstock è rimasta soltanto un’ostinazione che egli traveste da speranza. Essere in grado di creare un antidoto capace di annullare gli effetti del virus che ha condannato gli esseri umani a vagare sulla terra come non morti è ciò che tiene in vita il militare. Forse un antidoto sarebbe proprio quello che servirebbe a Joshua in questo momento. Perché è esattamente quando comincia a scrivere questa storia che Joshua Levin stacca il suo biglietto per la folle corsa sull’ottovolante, a cui lo condanna la penna, spietata, di Hemon.
Incapace di dare una direzione alla sua esistenza, Joshua agisce esclusivamente in risposta agli stimoli che riceve dall’esterno; e la teoria di situazioni grottesche e surreali, a cui assistiamo per tramite degli occhi del protagonista, lascia noi lettori sempre più interdetti mano a mano che la vicenda segue il suo corso, tutt’altro che inevitabile.
L’Arte della Guerra Zombie è una commedia intrisa di umori funerei, durante la quale si ha sempre la netta sensazione che ogni disavventura vissuta dal protagonista sarebbe stata perfettamente evitabile, se solo Joshua Levin si fosse dimostrato abbastanza volitivo da impedirlo. O se solo il mondo si avvicinasse anche solo di qualche centimetro a quello cui lui ama immaginarsi e fosse perciò un posto appena appena più decente di quanto non sia in realtà.
Ma questo mondo è freddo e crudele e incomprensibile. Muti e imperscrutabili come gli zombie raccontati nel copione che Joshua sta scrivendo, i protagonisti di questo romanzo sanno fare di tutto, tranne che raccontarsi per quello che sono e sentono. Appaiono così condannati a vagare in un’esistenza eternamente circondata dal vuoto incolmabile delle loro vite, che finiscono per collidere in modo violento e insondabile le uno contro le altre.
A leggere i paratesti di L’Arte della Guerra Zombie ti aspetteresti – o almeno così è stato per me – una scrittura scoppiettante, in cui fosse il ritmo della frase a comportarsi da padrone assoluto della pagina. Al contrario, quella di Hemon è una scrittura asciutta e precisa, compatta. L’umorismo amaro che pervade il libro nasce perciò non tanto dalla pirotecnia stilistica, bensì dal lento e inesorabile incastrarsi di una frase dentro l’altra, come in questo passaggio tratto dalla prime righe del romanzo:
Al Coffe Shoppe il pomeriggio scivolò nella sera giusto nell’istante in cui la caffeinizzazione di Joshua raggiungeva le quote delle piantagioni ruandesi dove la bevanda aveva origine. perciò Joshua fremeva dalla voglia di googolare Ruanda, acquisire qualche nozione interessante su altre culture e permettere ai dilemmi creativi in corso di risolversi da soli. ai vecchi temi, prima del worldwide web della tentazione, esisteva una cosa chiamata ispirazione. Poi l’anima era stata per sempre soppiantata dalla ricerca di banalità e frivolezze. Grazie a Dio, al Coffe Shoppe non c’era la connessione a internet.
Lo stesso, lento movimento con cui lo scrittore nato a Sarajevo descrive il perdersi dei giorni del suo protagonista disegna più avanti tutte traiettorie delle vite raccontate in L’Arte della Guerra Zombie. È con questa scrittura compassata che Hemon apparecchia un mondo, il nostro, in cui la stupidità sembra essere la sola chiave di lettura possibile per comprendere ciò che sta accadendo.
Dalle scelte sbagliate di un trentenne a tal punto dissociato da dover filtrare incessantemente ciò che accade nella sua vita con stralci di sceneggiature che mai verranno realizzate, fino all’operazione Enduring Freedom che fa capolino qua e là durante il romanzo a ricordarci che il mondo di questa finzione è pur sempre quello che abitiamo ogni giorno, in L’Arte della Guerra Zombie è sempre una profonda e umana idiozia che fa da minimo comune denominatore alle nostre e alle altrui esistenze.