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‘Quello che hai amato’: solo storie vere, una donna alla volta

Ci stanchiamo anche noi, cari gatti. Può capitare a chiunque, non solo a voi, di sentire il richiamo dell’altrove e scoprire che certe cose non ci stanno più bene.
Cercate di capire, vi prego. Perdonateci se una sera vi capitasse di tornare e scoprire che la porta è aperta, ma in casa non c’è nessuno.
(Flavia Gasperetti, Gioia e Fosco)

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]V[/mks_dropcap]ioletta Bellocchio racconta che è dopo aver scritto il suo Il corpo non dimentica, «un libro che cancella qualsiasi cosa lei abbia scritto fino a quel punto», che ha iniziato a provare l’impellente necessità di ascoltare altre storie, altra autenticità, e da queste premesse ha dato il via a Abbiamo Le Prove. In breve tempo il sito si è rivelato fortunatissimo, e ha raccolto immediatamente l’adesione e il favore di molte autrici, o esordienti o già affermate. Alcune di loro, tuttora, forse nemmeno definirebbero ‘scrittrici’: ma avevano storie vere da raccontare.

Quello che hai amato è un’antologia di brevi racconti scritti da alcune delle autrici di Abbiamo Le Prove. Segue lo stesso principio del sito: “solo storie vere, una donna alla volta”, con la differenza che queste storie vere seguono un tema preciso e hanno una lunghezza generalmente maggiore rispetto a quella che ci si aspetta da uno scritto online. Sono, di fatto, racconti. È non-fiction, se così vogliamo definirla, o più banalmente sono racconti autobiografici. Molto lavorati, editati dalla stessa Bellocchio, per evitare che le autrici meno esperte e professionali si ritrovassero su un gradino qualitativamente più basso. L’editing di Bellocchio è attento e accurato, il suo risultato è una raccolta di dieci (più una, quella di Violetta) storie ad alto voltaggio emotivo, tutte diverse l’una dall’altra, eppure simili. Non per tono o per lingua, che anzi – pur avendo talvolta delle similarità stilistiche, ma ci torniamo – sono molto diversi tra racconto e racconto, ma perché il progetto che le tiene insieme è forte, coeso, e molto sentito.

La domanda che Violetta Bellocchio pone a se stessa e alle autrici selezionate è molto semplice, e va dritta al nocciolo di quasi tutte le narrazioni esistenti: “raccontami quello che hai amato”. E così, dalla sugna alla panda, dal cibo ai marciapiedi di Napoli, si sviluppano le storie di undici donne e di periodi più o meno felici della loro esistenza.

Solo storie vere, una donna alla volta. Si potrebbe aprire l’annosa questione della scrittura al femminile, di cui questo libro sembra sovvertire tutte le regole non dette: che siano scritture al femminile, è incontrovertibile. Che siano scritture femminili, dipende da quello che si vuole intendere. Senz’altro avrei difficoltà a immaginare un libro del genere nella sezione ‘donne’, a fianco di qualche romanzo d’amore: e però è successo. Mi immagino il ghigno di chi ha creato il libro, con la sua bella copertina fiorata e pop, e la parola amore a lettere cubitali, all’idea di qualcuno che lo prende e lo sfoglia, aspettandosi qualche racconto per passare il tempo e invece si trova davanti all’ostensione delle viscere di giovani donne. Sono sicura, peraltro, che chiunque abbia sfogliato questo libro, passato lo shock iniziale, non possa non averlo comprato. O quantomeno letto di straforo in libreria. Perché di fatto è una raccolta che, una volta iniziata, difficilmente si riesce a mollare. La struttura è talmente coesa, i racconti sono così bene organizzati, che pur sapendo che sono separati l’uno dall’altro, chi legge ha bisogno di sapere ‘cosa succede dopo’.

Prevale forse l’amaro, in questi brevi racconti, un amaro ironico, talvolta scanzonato, ma sempre serissimo, autentico. C’è, talvolta, una consonanza stilistica: non so se sia frutto dell’accurato editing della curatrice o se si tratta più semplicemente del fatto che molte, delle autrici, sembrano abituate a una scrittura pop, da blog – simile, del resto, a quella della stessa Bellocchio. Ma questa consonanza superficiale, che si nota nell’uso dei paragrafi, della scanzonata rottura di un’ipotetica quarta parete, di una qualità sincopata della scrittura, questa similarità si annulla completamente grazie al vissuto. E anzi, è lo scavare a fondo che fa emergere, da una potenziale piattezza, delle voci assolutamente uniche: ognuna di queste ha la forza di dire IO e di farlo esponendosi in modo radicale. E sono quasi tutte storie che alla base hanno un trauma più o meno grande, una ferita più o meno sanguinante. Quello che hai amato è quello che ti ha più fatto soffrire. È quello, come dice Raffaella R. Ferré, che sta intorno a ciò che ti ha fatto soffrire: lo squallido marciapiede di Napoli in cui si è amato un uomo che non ha mai ricambiato, ma lo stare con lui era bellissimo; il momento della catarsi che precede la crisi definitiva quando il bambino che si accudisce in Irlanda dice il tuo nome al posto di quello della madre; l’ossessiva ricerca della sugna, del cuore delle cose vivido e sporco che porta una ragazza a ricordarsi, soprattutto, in cosa fosse una professionista.

Il piacere è troppo grande per una bambina così piccola. Non lo posso capire. E non posso capire tutto quello che leggo, ma vado avanti lo stesso, sono in discesa ormai, mi rendo conto come una luce improvvisa in faccia che il mondo è pieno di libri. Che niente porterà questo via da me.
Elaboro l’equazione per cui se il mondo è pieno di libri, e i libri sono questo, allora io ho un senso nel mondo. Finisco il sussidiario lungo un anno in un paio di giorni. Alla fine il mio cuore canta.
Ho sei anni, sono una lettrice professionista.
(Serena Braida, La sugna)

Il racconto più felice è forse quello della stessa Violetta, che ci regala anche la migliore interpretazione di tutto il libro. Non è ovviamente un caso che sia posto a chiusura: ne è la chiave, è ciò che permette di tornare indietro, di ripercorrere i racconti più cupi arrivando a capire che l’intento di Violetta Bellocchio, con questa sua domanda così nodale, non è quello di aiutare le scrittrici donne in una loro forma di autoterapia (certo, c’è anche questo – lo stesso Il corpo non dimentica è nato come diario durante un periodo di cura), ma quello di aiutare le scrittrici a sfruttare i propri lati vulnerabili, a mettersi a nudo e così facendo a estraniarsi. Lo dice lei, e lo dicono i racconti. E il suo è una specie di lunghissima perifrasi che gira intorno alle più grandi paure, alle ossessioni, ai fantasmi, all’incapacità di mettersi a fuoco e al bisogno di ritrovarsi. Ma che termina con una frase che è una vera e propria dichiarazione di amore:

Scrivere di te stessa ti rende libera, ma ti porta a una certa perdita di umanità. Perdi qualcosa nel renderti, in apparenza, conoscibile. E nello stesso tempo, ti succede qualcosa. Riesci a sentire, un tratto alla volta, l’ottanta per cento di te che diventa altro.
È così che io ho vinto su di me, alla fine. È per questo che sorrido.

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