Il rischio della narrativa sportiva: intervista a Lorenzo Iervolino

[mks_dropcap style=”square” size=”41″ bg_color=”#bd0000″ txt_color=”#ffffff”]“T[/mks_dropcap]hey always show the picture, but they never tell the story”: la mette così John Carlos, quando gli chiedono a proposito di quella fotografia. Sedici ottobre 1968, Olimpiadi di città del Messico. Sul podio dei 200 metri piani Tommie Smith e John Carlos occupano il primo e il terzo gradino, sguardo basso, il pugno chiuso sollevato verso il cielo. Tommie il destro, John il sinistro. L’orgoglio nero portato davanti al mondo, per dimostrare che non bastano le pareti di uno stadio per tenere fuori tutto quello per cui vale la pena di lottare. Quattordici giorni prima, il massacro di Tlatelolco. Ad aprile, l’omicidio di Martin Luther King. Se può servire a cambiare le cose, vale la pena di rischiare tutto.

A tre anni di distanza da Un giorno triste così felice, Lorenzo Iervolino torna a frequentare i territori della narrativa sportiva col suo nuovo romanzo Trentacinque secondi ancora – dedicato alle vite di Tommie Smith e John Carlos – che esce per la collana Vite Inattese di 66thand2nd.

Dopo quella di Sócrates torni a raccontare un’altra storia dove i confini tra sport e politica si confondono e si intrecciano tra loro. Come mai questa scelta?
Mi sono fatto la stessa domanda. Dopo l’uscita di Un giorno triste così felice non avrei voluto ritornare sul tema. Il rischio era di ghettizzarmi nella narrativa sportiva, di fare di quel tema la mia missione.Eppure, dopo quel libro, mi era rimasto qualcosa appiccicato addosso. Mi sono accorto di non aver esaurito tutto quello che avrei potuto dire sugli intrecci tra sport e politica. E poi mi ero accorto, portando il libro in giro, che quel tipo di storia aveva un fascino e un potere su ragazzi anche molto giovani e non lettori. Questa consapevolezza mi ha dato una grande spinta, ho pensato che sarebbe stato bello poter raccontare loro un’altra storia di quel genere.

Per farlo hai scelto ancora di lavorare con 66thand2nd, un editore che fa un gran lavoro sulla narrativa sportiva ormai da diversi anni. Come mai hai deciso di continuare la collaborazione e cosa ti ha dato lavorare con loro?

Per il mio percorso 66thand2nd è stato davvero l’editore giusto. Ai tempi del primo libro ho avuto un rapporto proficui con Giuliano Boraso, che allora era l’editor della collana Vite Inattese. Da parte sua ho trovato grande disponibilità all’ascolto, soprattutto in fase di costruzione del libro. Un atteggiamento condiviso dal resto della redazione.

Il vantaggio di lavorare con una realtà come quella di 66thand2nd è che tutti s’impegnano per far sentire importante il tuo lavoro, che per un autore è davvero gratificante. Perciò quando ho scelto di raccontare la storia di Smith e Carlos non ho avuto dubbi. Anche perché si lega ad altri due titoli del loro catalogo, dedicati a Rubin Carter e Jackie Robinson entrambi atleti neri dalla biografia particolare. 66thand2nd, inoltre, sa dare un’impronta letteraria molto forte ai lavori che pubblica. È la loro missione, ed è una cosa inusuale in Italia, dove la narrativa sportiva è spesso più legata a ragioni promozionali che a una ricerca letteraria. E siccome io volevo continuare ad approfondire una certa idea della narrativa sportiva che avevo affrontato nel primo libro, la scelta è stata quasi obbligata, o naturale.

Questa idea di narrativa sportiva mi sembra legata a una forma di scrittura ibrida, dove le soluzioni romanzesche, per esempio le poesie di Sócrates che hai riscritto a partire dai suoi articoli nel primo libro, si mescolano al reportage grazie al quale ti collochi sempre all’interno della storia, col tuo corpo. È una tendenza molto attuale, cosa ti dà?
Questo tipo di scrittura è qualcosa che mi è letteralmente esploso tra le mani al tempo di Un giorno triste così felice. Per quel libro avevo raccolto moltissimo materiale documentale, con l’intenzione di trasformare una realtà in finzione. Poi è successo che mi sono incartato. Non riuscivo a scrivere una scena ed è allora che ho provato a inserirmi nella storia in prima persona. Così mi sono accorto che emergeva un dato carnale e sensoriale più potente della personalità autoriale a cui stavo cercando di dare vita.

Tuttavia non è stato facile maneggiare questo dato, mi creava imbarazzo e anche qualche contraddizione. Perciò, iniziando il secondo libro, ho provato a impormi di non essere presente. Non ci sono riuscito, anche in questo caso mi sono imbattuto in uno snodo che richiedeva la mia presenza per funzionare. È la storia di un ragazzo messicano che un ruolo decisivo nel percorso di rinascita e rivalutazione della memoria di Smith e Carlos. Lì, in quel momento, dovevo essere presente, interagire con lui.

Mi sono fatto l’idea, praticandola e leggendola, che questo tipo di scrittura così ibrida sia un risposta alla nostra abitudine di navigare ipertesti. Molti lettori mi dicono che la lettura di Trentacinque secondi ancora ha bisogno di un second screen, un computer o uno smartphone con cui andare a verificare di persona le cose che scrivo: le date, le foto o, nelle foto e nei video, le espressioni dietro cui si trovano le sensazioni che invento per i miei personaggi. Perciò l’obiettivo di accompagnare il lettore a scoprire questa nuova dimensione della lettura è stato un po’ il modo per pacificare le contraddizioni che mi creava questo tipo di scrittura.

A proposito di scrittura, come lavori per ricostruire la lingua di personaggi così lontani da te, nel tempo e nello spazio. E in che modo hai ricostruito, in particolare, quella di Tommie Smith e John Carlos?
Beh di quest’ultimo lavoro, ricostruire la voce di Smith e Carlos è stata una delle sfide più belle. Quando ho lavorato su Sócrates, mi sono trovato davanti un personaggio larger than life, un titano. Il “dottore” – così chiamavano Sócrates – era un uomo colto, laureato. Uno che dopo il calcio ha scritto e fatto il giornalista. Lì avevo a che fare con la parola scritta, mentre con Tommie e John si trattava di lavorare sull’oralità. Entrambi erano ragazzi normali – a Messico ‘68 hanno vent’anni – con cui mi potevo confrontare alla pari.

Perciò mi sono concentrato sulle registrazioni audio e video per ricostruire il loro modo di raccontare. Ci sono tantissime differenze tra i due, geografiche innanzitutto. Tommie Smith è nato e cresciuto nel sud rurale, John Carlos nella Harlem dei Jazz Club. Il primo è fin troppo riflessivo, lunatico addirittura ed è l’intellettuale del duo; il secondo è esuberante, spaccone, autoelogiativo come un rapper. Rendere queste sfumature di carattere a partire dalla lingua è stato davvero difficile. Il rischio era quello di appiattire le loro voci, di farli parlare in modo identico. Per questo ho evitato tutti quegli avverbi cinematografici che avrebbero fatto suonare i dialoghi come quelli di una serie tv tradotta male: fottutamente, dannatamente, maledettamente. Ho provato a tenermi alla larga il più possibile da quella roba!

Mi dicevi che hai lavorato molto sulla composizione del libro insieme a Raffaele Riba, l’editor che in 66thand2nd si occupa della narrativa italiana e che si è occupato di Trentacinque secondi ancora in via “eccezionale”. La scelta inaspettata, almeno per me, di raccontare la corsa che porta Tommie e John su quel podio, da dove potranno compiere il loro gesto di protesta, dal punto di vista di Peter Norman, il velocista australiano del secondo classificato, è nata così?
L’idea di “montare” la gara lungo tutto il libro è stata un’idea di Riva. Quella di rigirare la scena nel momento topico del racconto invece l’ho concepita io, ma sempre nell’ambito di un lavoro condiviso. Volevo che il punto di vista cambiasse. Per tutto il libro Tommie e John hanno gli occhi puntati addosso, prima e dopo la gara. Raccontarla dal punto di vista di Peter Norman è un modo per togliere loro un po’ di pressione.

Se Tommie è l’intellettuale e John è lo sbruffone, Peter è senza dubbio la spalla comica. In quella gara ha una corsia infame, la sesta, la peggiore. Eppure riesce a studiare una strategia vincente insieme al suo allenatore. E allora si mette a fare il cretino, finge che sa già di perdere e invece sa che può fare un risultato. Insomma, nel film, lui è il miglior attore non protagonista e ne è ben consapevole. Tanto che lo dirà più volte che lui, nella Storia, ci è capitato per caso e che lei non era lì per lui. Però vuole fare la sua parte vuole esserci, non solo nella gloria ma anche nel sacrificio.

Sul podio indossa la spilletta del “Progetto olimpico per i diritti umani”, il collettivo di atleti americani con cui Tommie e John hanno affrontato il percorso che li porta a fare quel gesto. Per questo Peter Norman subisce tutto quello che subiranno Smith e Carlos in termini di rappresaglia, ma per molto meno. A Monaco ‘72, l’Australia non manda nessun velocista, solo Peter Norman ha centrato il tempo di qualificazione. Nel 2000, alle Olimpiadi di Sidney non è nemmeno invitato. È un personaggio tragico, ha problemi con l’alcool, muore senza essere riabilitato. Dovevo restituirgli qualcosa e così ho provato a prendere quel suo misto di umiltà e arroganza che gli permette di affrontare la sfida sportiva e di essere al tempo stesso un personaggio letterario. La cosa deve aver funzionato, perché in giro c’è tanta voglia di Peter Norman. Sono tanti i lettori che, dopo aver letto il libro, mi scrivono per saperne di più su di lui.

E questa voglia di conoscenza credo che sia uno dei grandi pregi di questo tipo di scrittura.

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