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Un cuore enorme pulsa sui tetti di Kobane: Su Kobane Calling di Zerocalcare

Summary:

La resistenza curda allo Stato islamico raccontata nel diario di viaggio a fumetti di Zerocalcare.

È ovvio che se io ero Gipi e sapevo fare gli acquerelli, ’sti paesaggi potevano venire una bomba…

A Kobane si va col cuore. Questo Michele Rech, in arte Zerocalcare, lo mette subito in chiaro. Ed è subito chiaro anche per noi lettori che sarà l’intensità il metro di misura per questo suo Kobane Calling, lungo nonreportage uscito ad aprile 2016 per Bao Publishing.

Sono due i viaggi a Kobane e dintorni raccontati dal fumettista di Rebibbia. Due viaggi molto diversi, intrapresi a novembre 2014 e a luglio 2015 zigzagando tra Siria, Turchia e Iraq, che le due mappe in apertura e chiusura del cartonato iscrivono all’interno di confini molto mutati nel giro di pochissimo tempo.

Poteva essere una scommessa meramente estetica, quella di Zerocalcare: provare a raccontare l’assurdità, la violenza e la speranza di un posto come Kobane col medesimo armamentario tecnico e retorico da autofiction romanesca, decisamente postmoderna, che fin qui gli aveva già assicurato un certo successo – detto fuori dai denti: con Zerocalcare è facile ridere, soprattutto sul web, delle sventure quotidiane di un trentenne che si consola con videogiochi e plumcake, e se ha qualche problema ne parla con Yoda. Ma era tutt’altro che scontato che il giocattolino potesse funzionare anche lontano, molto lontano da Rebibbia, nell’altrove più complesso e probabilmente più centrale di questi anni, con cui pure giornali e analisti più avveduti hanno qualche difficoltà.

Il fatto è che Zerocalcare va a Kobane non tanto per farci un libro, ma perché sente che quello è il posto in cui bisogna stare in questo momento. Non solo perché lì e non altrove si combatte lo Stato islamico in prima linea, ma perché nel Rojava e nelle sue enclave si gioca tutta una battaglia di simboli (ed equivoci) che gli occidentali continuano volutamente a ignorare. Sono islamici anche gli oppositori dell’Is, per dirne una, mentre il governo di Erdoğan in Turchia sfrutta la guerra all’Is per disfarsi una volta per tutte dei curdi; curdi che per il resto del mondo sono eroi – molto più spesso bellissime eroine – quando combattono i terroristi, ma sono a loro volta terroristi per la Turchia che incassa finanziamenti europei per tenere a freno i flussi migratori dalla Siria.

Insomma, a guardare coi propri occhi, come fa Zerocalcare – e come hanno fatto in parallelo su Rai3 Zoro e i suoi di Gazebo, solitamente legati pure loro a un certo romanocentrismo, sul versante immigrazione – le distinzioni sono ancora possibili. Ma soprattutto: è evidente che mettendo in gioco i propri occhi e il proprio sguardo è ancora possibile distinguere ciò che umano da ciò che non lo è; ed è possibile accedere al cuore, il proprio come quello dei lettori.

Il picaro Michele Rech scopre così che il suo non è solo dove vorrebbe l’ormai celebre mammuth di Rebibbia, ma persino acquattato tra i pochi tetti ancora in piedi delle città in macerie dopo il passaggio dello Stato islamico o i bombardamenti di Assad. È lì, questo cuore enorme e pulsante, e da lì obbliga Michele ad andare avanti nel suo viaggio, avanzando per paradossi e opposizioni, rovesciamenti e improvvisi cambi di registro. In questo caso i pupazzetti pop dei cartoni animati, pur destrutturando la narrazione e scindendo i momenti di informazione (gli spiegoni) dal resto, imprimono maggiore intensità al racconto. E così le pagine sulla colazione di lenticchie a cui Zerocalcare e compagni di viaggio devono sottoporsi ogni mattina si alternano agli inserti neri con le brevi e crude biografie dei curdi incontrati per strada. In questi ribaltamenti, in queste contrapposizioni – che investono anche una domanda fondamentale: chi c’è davvero oltre la raffigurazione tipica, quella col cappuccio nero e l’AK-47 puntato al cielo, delle milizie dell’Is? – emerge tutta l’umanità del racconto di Kobane Calling.

Con questo tipo di reportage il rischio, per un occidentale che voglia farsi un’idea su certe dinamiche geopolitiche (impegnandosi in un faticosissimo slalom tra clickbaiting, complottismi e racconto superficiale), è sempre quello di incappare in una sorta di esotismo estetizzante. Mi spiego meglio. Capita anche al sottoscritto di sottoporsi a grande abbuffate di informazione su quanto avviene in Siria come in tutto il Medioriente; perché è giusto farlo, perché lì si gioca grossa parte del garbuglio della nostra contemporaneità. Il punto è che anche tutta questa consapevolezza finisce spesso col risolversi nell’insoffribile constatazione di una sostanziale impotenza. Allora, se va bene, subentra un sentimento simile alla consolazione (“Sono tra i giusti, perché io almeno so, m’informo”); e se va male, succede che alla lunga si sviluppi persino un intollerabile gusto per l’intrattenimento da letteratura esotica (un po’ come se si fosse alle prese con un romanzo di Salgari o con Le mille e una notte).

Zerocalcare va oltre questi rischi, dimostrando che la testimonianza può portare all’empatia – che è già tanto – e, in qualche caso, persino alla partecipazione. È partecipazione riportare indietro da Kobane non solo i volti e le storie che l’autore ha incontrato, ma soprattutto un messaggio politico forte, che è quello legato alle sperimentazioni delle società curde a Kobane e dintorni. Ciò che tocca il cuore di Zerocalcare è anche questo: scoprire che lì, in mezzo alle macerie, alle bombe e ai colpi di mortaio, qualcuno ha ancora il coraggio e il desiderio di discutere di eguaglianza, di immaginare una società diversa da quella che altrove si sgretola sotto il peso dell’individualismo messo in circolo da una crisi economica infinita – riuscendo al contempo a non farne vuota retorica da inno o canzonetta antagonista.

E non è poco, a pensarci bene, per un autore di trentatré anni che, volendo generalizzare, potrebbe appartenere di buon grado a una generazione troppo spesso associata al fiero disimpegno tipico dei risentiti. Non è poco, così come non lo è il coraggio di alzare gli occhi al cielo dove il cielo, di notte, è più buio che altrove, e tentare di raccontarlo anche se non si è Gipi, anche se non si è portati per l’affresco lirico e totalizzante, che ammalia per un attimo e poi incenerisce nel nulla.

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Marco Montanaro vive in Puglia. Il suo ultimo libro è il romanzo “Il corpo estraneo” (Caratteri Mobili, 2012). Altri suoi testi sono sparsi per la rete e riviste cartacee. Il suo blog è malesangue.com

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