Che Simona Vinci avesse confidenza con la malattia mentale era evidente già da Strada Provinciale 3, un breve romanzo del 2007 in cui una donna corre lungo la strada eponima per fuggire alla sua vecchia vita, gravata dalla depressione. Ma, se in Strada Provinciale 3 la corsa, il cammino in solitaria e l’incontro con l’altro erano fasi del processo di guarigione, in La prima verità, vincitore dell’ultimo Premio Campiello e del Premio Volponi, la pazzia e le sue declinazioni si fanno soggetto e oggetto di un lungo viaggio di scoperta e dolore che non necessariamente conduce alla cura.Aveva immaginato che si trattasse di un’illusione ottica, uno scherzo delle ombre e della stanchezza, altrimenti anche gli altri avrebbero visto la donna e qualcuno per forza avrebbe detto qualcosa e richiamato l’attenzione dei compagni. In realtà, se anche l’avessero vista, nessuno avrebbe capito cosa significasse quell’apparizione dietro il finestrino impolverato di un vecchio pulmino, con i vetri che tremavano cosí forte che sembrava sarebbero esplosi da un momento all’altro.
Non ce ne fu bisogno, di capire, perché quello che videro subito dopo fu ancora peggio e chiarì che lì, in quel posto e in quel momento, qualsiasi cosa poteva accadere: anzi, era già accaduta.
In La prima verità la giustapposizione dei racconti non permette mai di adagiarsi sul piano della pura finzione: a seconda di come lo si guarda, si può pensare che sia un libro sulla pazzia, o su ciò che viene definito pazzia, o sul modo in cui sono trattati i cosiddetti pazzi. Sono tante storie diverse e legate tra loro non soltanto per il tema comune, quello della pazzia clinica, ma anche da richiami, suggestioni, echi letterari. I mattucchini di Budrio come i pazzi liberati a Leros, Rosso Malpelo come un bambino pericoloso che rischia di farsi aggressivo, le catene di Freetown come i muri del manicomio nell’isola greca.
Anticipato da tre prologhi tutti separati tra loro, il nodo principale del libro – quello che si può definire il vero e proprio romanzo (Parte prima – L’archivio delle anime, Parte seconda – Su nel posto segreto e Parte terza – Sono ancora tutti lì) – è il racconto di ciò che una giovane italiana vede nel corso dei suoi pochi mesi di volontariato nell’isola di Leros, appena diventata famosa per il manicomio-lager che vi era stato istituito. Attraverso gli occhi della ragazza si vedono le varie ali del manicomio, compreso il famoso reparto 16 degli ‘irrecuperabili’, e si intravede quello che era il vecchio reparto per i prigionieri politici, rinchiusi lì a stretto contatto con i matti. Che, nella maggior parte dei casi, matti non erano – o almeno non inizialmente: come spesso succedeva e succede ancora in certe parti del mondo, il manicomio era anche un modo facile per affidare a cure altrui i parenti difficili, le persone complicate, talvolta le vittime di qualche sopruso. Simona Vinci si affida all’invenzione romanzesca per accostare alla storia di Angela quella di alcune delle persone che lei conosce o semplicemente intravede oltre un muro, e sono storie di abusi e crudeltà. Talvolta anche di vera malattia mentale: mai propriamente diagnosticata, mai propriamente trattata. Poteva essere qualunque cosa, afferma Vinci, poteva essere isteria o schizofrenia, depressione o rabbia adolescenziale. Poteva essere chiunque.
Frugava nei registri e con l’aiuto di un piccolo vocabolario greco moderno -italiano, leggeva le cartelle di quei pazienti che almeno ce l’avevano, una scheda e un nome. A volte c’erano le date di nascita e di internamento. La maggior parte delle cartelle riportava una diagnosi stitica che suonava piú o meno come frenastenia biopatica con ritardo mentale lieve, medio o grave. Ossia, tutto e niente, dato che il termine frenastenia biopatica significa né piú né meno che debolezza mentale generica.
E d’altra parte non è facile nemmeno condannare gli aguzzini, puntare il dito contro un boia. Con il suo stile secco e vivido Simona Vinci è brava nel mostrare le molteplici facce di una situazione le cui responsabilità si potrebbero con disinvoltura attribuire a pochi: il personale, che lavorava lì senza la minima preparazione, lo faceva come unica fonte di sostentamento della famiglia; i medici erano decisamente carenti e quelli che c’erano erano costretti ad ammantarsi di una patina di cinismo abbastanza forte da permettere loro di non impazzire a loro volta; i genitori, i parenti che condannavano i pazzi al carcere di Leros pensavano, speravano, di mandarli a vivere dove sarebbero stati accuditi. Intorno a queste relativamente poche persone, intorno alle migliaia di internati, c’era il silenzio e il disinteresse di altri, anni di trascuratezza e rimozione più o meno intenzionale. La Parte seconda racconta tre storie particolari, quelle di tre internati con cui in qualche modo Angela è entrata in contatto: sono storie di depressione, di repressione, di traumi. Sono le storie di tre persone alle prese con avvenimenti più grandi di loro. E se il bambino con il sasso in bocca e Teresa sono catturati nella loro assoluta normalità, la storia di Stefanos è differente, perché Stefanos – figura ispirata al poeta Ghiannis Ritsos e a Stefano Tassinari cui il libro è dedicato – è un prigioniero politico, e la sua storia è ben differente.
Il baratro per Stefanos prende la forma di quest’isola dell’Egeo, questa fortezza inespugnabile protetta da reti di filo spinato, uomini con il fucile al fianco e le baionette puntate verso il cielo.
Niente notizie dal mondo esterno, solo eucalipti e sassi e l’orizzonte chiuso da dorsi di tartaruga azzurri, e poi certo, sovversivi, teppisti, delinquenti, attentatori della patria e pazzi, minorati fisici e psichici. Due schiere che si fronteggiano attraverso un muro di filo spinato e si scambiano mozziconi di sigaretta e conversazioni insensate.
Le guardie lasciano fare, che informazioni potranno mai rivelare gli uni agli altri? E se pure se le scambiassero, rimarrebbero confinate nel perimetro di un’isola dalla quale non ci sarà scampo per la maggior parte di loro.
Il manicomio di Leros era l’innalzamento a potenza dei nostri ospedali psichiatrici prima di Basaglia (e non a caso furono i Basagliani ad andare nell’isola e modificare il corso delle cose, liberando i pazzi gradualmente e reinserendoli, quando possibile, in un contesto civile): non è un caso che il romanzo si apra con la storia degli internati di un manicomio italiano. A Leros l’italiana Angela, traumatizzata dalla propria storia familiare, indaga, parla, vede, fotografa… e poi, però, sceglie di dimenticare. Contrariamente alla fotografa cui la storia della ragazza si ispira, Antonella Pizzamiglio, la protagonista di La prima verità rompe accidentalmente la propria macchinetta fotografica e fugge via, costringendosi per lunghi anni a dimenticare l’avvenuto e le cose scoperte frugando tra documenti ufficiali nascosti. Tornerà a Leros solo molti anni dopo, per riappacificarsi con il luogo e mettere la parola fine alle storie che aveva scoperto e che non l’avevano mai realmente abbandonata.
La conclusione della storia di Angela e degli internati di Leros non coincide tuttavia con la fine del libro, così come l’inizio non coincideva con l’inizio del libro: su 400 pagine, l’invenzione ne occupa circa 250. Poi c’è il paratesto: i tre prologhi, una Parte Quarta. Non ti scordar di me e una Notizia su Leros. Il colpevole segreto d’Europa. Tra le prime frasi del romanzo si legge che Simona Vinci avrebbe potuto essere una di quelle ragazze ‘difficili’, da internare. La questione viene ripresa solo alla fine della storia inventata, al momento in cui Vinci si mette a nudo e racconta della propria storia, la storia dei matti di Budrio come ulteriore prologo a un’altra pazzia, quella di sua madre e del suo rapporto con l’anoressia e con la depressione. Fino ad arrivare al suo stesso rapporto con la depressione, e alla sua infanzia da bambina tormentata, con disturbi caratteriali, una bambina che solo per poco e per fortuna ha evitato di essere davvero internata.
Non mi accorgevo che l’ombra nera ce l’avevo già addosso. Ero litigiosa, alzavo le mani, picchiavo tutti i bambini che non mi andavano a genio, sfidavo gli adulti, saltavo su ogni volta che qualcosa non andava come doveva andare, mi rinchiudevo nelle storie che raccontavano i libri. Ero strana, problematica, aggressiva. A sei anni, in prima elementare, presi a calci la maestra che mi aveva umiliata spostandomi d’ufficio dalla prima fila all’ultima perché già sapevo leggere e scrivere. Me l’ero legata al dito e alla prima occasione la ripagai cosí, manifestandole tutto il mio disprezzo e il mio odio per la sua ottusità.
I miei genitori furono chiamati in direzione e lí venne loro consigliato di portarmi da uno psicologo infantile perché «presentavo tratti caratteriali». Ero violenta. Irrequieta. Solitaria. Arrogante. Litigiosa. Manesca. E non avevo il senso del pericolo. Mi arrampicavo sulle ringhiere dei balconi, salivo in piedi sul sellino della bici in piena corsa e staccavo le mani, facevo a botte con i maschi piú grandi, mi piacevano le bravate, cercavo le sfide. Troppo.
Qualcuno, nel mio quartiere, mi chiamava il Fenomenino.
Ma non finisce qui. Come se Vinci non riuscisse a staccarsi dal suo racconto, si legge anche del suo viaggio in Sierra Leone, della visita a un ospedale psichiatrico che niente ha da invidiare a quello di Leros; si legge del suo passaggio nell’isola; si legge, ancora, della storia di Antonella Pizzamiglio, la fotografa che ha ispirato in parte Angela, che è riuscita di nascosto a fotografare l’ospedale e a denunciare, rientrata in Italia, la situazione sul posto. Si legge anche la storia dell’isola, da sempre considerata inferiore rispetto alle sue vicine più turistiche e appetibili; e della storia della struttura, prima base areonautica della marina militare italiana: «Per inventarla e crearla dal nulla e sul nulla, erano stati mandati dall’Italia architetti e progettisti di prima classe. […]. Finalmente liberi di applicare i canoni dell’architettura razionalista senza doverli ammorbidire secondo il gusto neoclassico, così come in patria richiedeva il regime fascista, realizzarono una cittadina modello».
Solo dal 1959 la struttura viene riconvertita in ospedale psichiatrico: lo scandalo del manicomio-lager emerse all’inizio degli anni ’90, ma l’ospedale è rimasto in funzione fino ai primi del 2000. Rimasta a lungo vuota dopo la chiusura del manicomio, è ora diventata un centro di accoglienza per i profughi. L’isola dei pazzi è diventata l’isola dei profughi, e sono altre storie, altre disperazioni, altri tentativi di affermare la propria identità.
Disse: Credo nella poesia, nell’amore, nella morte,
perciò credo nell’immortalità. Scrivo un verso,
scrivo il mondo; esisto, esiste il mondo.
Dalla punta del mio mignolo scorre un fiume.
Il cielo è sette volte azzurro. Questa purezza
È di nuovo la prima verità, il mio ultimo desiderio.
L’esigenza di scrivere un libro così stratificato sta nel titolo, ispirato alla poesia di Ghiannis Ritsos citata in epigrafe del romanzo. Finché scrivo esisto, esiste il mondo: il mondo dei pazzi è un mondo a cui la scrittura è negata, è un mondo in cui i referenti esterni vengono a mancare e la realtà è continuamente reinventata, modificata, persino cancellata. Lasciare una traccia della propria esistenza è vitale: lo testimoniano i muri, con le scritte dei pazzi prima e dei profughi poi, unica possibilità per ricordare almeno il proprio nome, al momento della scomparsa di tutti i nomi.
Romanzo
Einaudi
Cartaceo
408
29/03/16
Perché una storia non è mai solo una storia, ma un processo di gemmazione dei ricordi e delle esperienze: questo libro è un caleidoscopio.
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