Non si può più dire niente? è una raccolta di quattordici interventi di intellettuali di diversa estrazione che espongono, come riportato nel sottotitolo, i loro punti di vista su politicamente corretto e cancel culture. Più che di un singolo argomento, si tratta di una rete di argomenti che ruotano intorno a problematiche di diversa natura, dai diritti di individui e gruppi alle regole di convivenza nella sfera pubblica, che ruotano intorno al movimento della cosiddetta wokeness. Negli ultimi anni il dibattito in materia, nato negli Stati Uniti, ha assunto un grande rilievo anche in Italia, ma si tratta di un dibattito viziato dal sensazionalismo, dalla continua diffusione di notizie non verificate, dal prevalere della lite sulla discussione e dell’indignazione sulla riflessione, da una polarizzazione tale da far sembrare impossibile trovare una sintesi tra le posizioni in campo.
Forse anche per questo l’editore Utet ha pensato a riunire autori e autrici che sul tema hanno idee molto differenziate, nel tentativo di offrire a chi legge una panoramica di opinioni che aiuti a farsi una opinione più chiara ed equilibrata sul tema. Ora, anticipo subito che ho trovato il volume interessante e, in alcuni pezzi, molto stimolante, ma se l’obiettivo era effettivamente quello descritto sopra, temo che non venga raggiunto.
Il limite principale del libro è che, come già anticipato dall’editore nella premessa, i diversi saggi non “parlano” tra loro. Non c’è curatela, ed anzi si rivendica la scelta di ridurre al minimo possibile l’intervento sui contenuti. Scelta legittima, ma che a parer mio non sfrutta a dovere le potenzialità derivanti dall’incontro tra tante sensibilità diverse. Prendiamo ad esempio il pezzo di Liv Ferracchiati, “Eventi bizzarri in attesa di una Filosofia del futuro”: alcune considerazioni personali sul politicamente corretto a partire da delle esperienze dirette; possono essere interessanti in sé, ma all’interno di un volume in cui tutti gli altri interventi adottano, chi più chi meno, un approccio più analitico alla materia, il testo di Ferracchiati sembra fuori posto, troppo ripiegato su sé stesso. Un’impressione che forse non si sarebbe avuta se lo stesso fosse stato una introduzione o conclusione alla raccolta.
Inoltre, la mancanza di linee guida più specifiche per i contenuti rischia di far confondere componenti diverse del dibattito sul movimento woke: è il caso del saggio “Louis, Dave e gli altri” di Giulio D’Antona, che riflette su come la trasformazione della sensibilità del pubblico influenza i contenuti della stand-up comedy, ma lo fa partendo dalla vicenda personale di Louis C.K. che riguarda piuttosto il movimento #MeToo: sino a che non è stato accusato di essersi masturbato in fronte a donne non consenzienti, C.K. era anzi uno dei pochi comici bianchi, se non il solo, a utilizzare nei suoi monologhi la n-word e altri termini stigmatizzati senza essere danneggiato dalle accuse di razzismo o insensibilità.
Fatta questa premessa, per un volume di questo tipo ipotizzo tre tipi di lettori e lettrici: chi ha una conoscenza molto superficiale sui temi del politicamente corretto e della cancel culture e vuole approfondire; chi segue già l’argomento ma fatica a districarsi tra le diverse posizioni del dibattito; e chi invece non solo è già sul pezzo ma ha anche già un’opinione ben precisa in materia.
Parto da questǝ ultimǝ per dire che dubito che i saggi di questa raccolta faranno cambiare loro idea. Il che non vuol dire che si tratti di una lettura inutile: l’eterogeneità degli interventi è tale che è facile trovare comunque qualche elemento meno noto o interessante, specialmente nei pezzi che si concentrano su questioni specifiche: Christian Raimo (“Un caso esemplare di discriminazione”) parla del trattamento della minoranza Rom e Sinti in Italia; Neelam Srivastava (“Cancellazione o palinsesto?”) parte dagli episodi di rimozione/deturpazione di alcune statue per riflettere sull’eredità coloniale italiana, paragonandola a situazioni simili di altri paesi; Laura Tonini (“Ci scusiamo con tutti i nostri telespettatori”) affronta il modo in cui la problematica del politicamente corretto influenza i contenuti televisivi, anche alla luce della trasformazione di questo medium.
Un problema di altra natura potrebbe incontrare chi invece parte dalla situazione opposta, cioè quella di una quasi ignoranza in materia. In questo caso quasi tutti gli interventi potranno risultare interessanti, e alcuni hanno il merito di offrire, oltre ad un punto di vista sui temi, anche una ricostruzione di come si è sviluppato il dibattito: è il caso ad esempio del saggio di Vera Gheno (“La lingua non deve essere un museo”), grazie al quale si può capire da dove arrivi l’ormai famoso schwa (ǝ). E tuttavia c’è il rischio di aumentare, invece che ridurre, la confusione in materia leggendo dei pezzi che non sono semplicemente discordanti, ma proprio agli antipodi, nel senso di non condividere nemmeno la base dei fatti su cui si vanno ad esprimere le opinioni. Penso al saggio di Federico Faloppa (“Breve storia di una strumentalizzazione”), che ricostruisce la storia di come il concetto di politicamente corretto sia nato nella cultura politica statunitense e successivamente strumentalizzato dalla destra conservatrice americana; come per quello di Vera Gheno, aiuta a capire l’evoluzione del tema, ma qualche decina di pagine dopo chi legge si trova davanti il saggio di Daniele Rielli (“Il re woke”) che sembra una bizzarra parodia di quei libri della destra americana precedentemente citati da Faloppa. Più che punti di vista diversi, sembra di parlare di oggetti differenti, e se non si hanno già da prima gli strumenti intellettuali necessari diventa difficile capire chi meriti più credito.
Da quanto detto sinora, si può intuire che questo libro può essere di maggior utilità per i lettori e lettrici che hanno già una conoscenza, perlomeno parziale, dell’argomento, e che vogliono approfondirlo. Da questo punto di vista i saggi più interessanti sono quelli che, riconoscendo la validità delle istanze al centro del dibattito, affrontano in maniera critica le questioni ritenute più problematiche: Elisa Cuter (“Qualcosa di sinistra”) punta il dito sullo scarso rilievo dato dalla wokeness al tema dello sfruttamento di classe; Federica D’Alessio (“No debate”) evidenzia i rischi legati a dare come fatti assodati delle posizioni sulle questioni di genere che invece così assodate non sono; Cinzia Sciuto (“Il vicolo cieco dell’identità”) spiega con dovizia di argomentazioni come l’attivismo politico basato quasi solo sul tema delle rivendicazioni identitarie non possa fare molta strada.
Altrettanto interessante è il saggio di Raffaele Alberto Ventura, “Dieci tesi sul politicamente corretto”, forse il solo caso nel volume in cui il criterio dell’ordine alfabetico offre un valore aggiunto ai contenuti. L’intervento che chiude il libro, infatti, sembra quasi tirare le fila di quanto è stato detto nei pezzi precedenti, offrendo così a chi legge una prospettiva più ampia del tema.
In conclusione, Non si può più dire niente?, pur con i limiti descritti all’inizio, è una lettura interessante. Non è un libro che consiglierei a chi vuole iniziare a conoscere l’argomento, ma può essere molto utile come approfondimento sulle diverse ramificazioni del tema della wokeness.
Utet
8 marzo 2022
Cartaceo, ebook
256
978-8851198886
Proposte di legge per contrastare le discriminazioni, discussioni parlamentari sui sostantivi femminili, regolamenti aziendali che sanzionano comportamenti inappropriati, circolari scolastiche su tematiche di genere, partite sospese per cori razzisti. Da tempo i temi distinti ma incrociati di politicamente corretto e cancel culture sono all’ordine del giorno, investendo la sfera privata e quella pubblica, i litigi in famiglia o tra amici e le prese di posizione su giornali cartacei, programmi televisivi, podcast, blog, riviste online e social network. Sono temi che spopolano proprio sui social, dove macinano commenti e polemiche, creando una frattura in un certo senso politicamente inedita: nella contrapposizione tra chi nega l’esistenza della cancel culture e chi si lamenta che “non si può più dire niente” non viene per forza ricalcato il dualismo classico tra sinistra e destra, o tra progressisti e conservatori. Vediamo infatti che il licenziamento di un attore o il macero di un libro innescano discussioni infuocate anche tra persone che su molti altri temi (economici, politici, sociali) sono perfettamente d’accordo. Che cosa sta succedendo? Mentre i media cavalcano il dibattito rilanciando pseudonotizie acchiappaclick su censure a Omero o Biancaneve, la contrapposizione tra i fronti si consuma per lo più in litigate pubbliche sui social o singoli interventi lanciati online o offline come una voce nel deserto, attorno a cui si rinserrano i ranghi della rispettiva fazione. Ognuno finisce sempre così per parlare ai convertiti, senza che si costruisca un dibattito che sia anche un dialogo costruttivo. Come antidoto alla polarizzazione, in questo libro si incontrano idealmente quattordici persone che non sono affatto d’accordo tra loro, ma sono disposte a sedersi a un tavolo di confronto. Ognuna ha scelto di inquadrare il tema secondo i suoi campi di interesse, le sue esperienze e professionalità: linguistica, televisione, comicità, filosofia, storia, sociologia, teatro, pedagogia, politica e quant’altro. Così, nel cercare una risposta alla domanda Non si può più dire niente?, questi quattordici punti di vista aprono inevitabilmente ad altre domande e risposte, che restituiscono complessità al nostro intricato presente.
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La cancel culture è ottusa violenza. Il politicamente corretto è ipocrisia istituzionalizzata. Ed entrambi sono figli di una volontà malcelata di imporre la sottocultura del pensiero unico. Ecco perché andrebbero avversati senza se e senza ma, quindi anche quando il loro intento fosse condivisibile IMHO.
Al di là delle differenze di opinioni, credo sia errato parlare di “ipocrisia istituzionalizzata” per il politicamente corretto, visto che i comportamenti e le prassi che vengono etichettati così spesso e volentieri non sono affatto istituzionalizzati, anzi, negli ultimi anni sempre più spesso e in più paesi governano persone e partiti che della contestazione del politicamente corretto hanno fatto una bandiera (così come le politiche che effettivamente cercano di imporre determinate visioni o impedire la diffusione di certe idee vengono promosse da governi, nazionali o locali, che si dicono nemici della cancel culture o del pensiero “woke”, vedasi gli stati USA governati dai repubblicani).