Q uesto libro nasce dalla mancanza, la constatazione che oggi una figura del calibro di don Lorenzo Milani semplicemente non esiste. Ne sopravvive però lo spirito, l’incosciente intransigenza che anima l’opera di tanti pedagoghi sparsi per il mondo, Eraldo Affinati è andato a cercarli, a guardare negli occhi i loro allievi, per mischiare la propria esperienza di maestro con quella di altri, rievocare grazie al respiro dei luoghi la vita del prete di Barbiana. Per l’autore «contano soprattutto i nessi, le associazioni, i rapporti», un’ammissione di poetica che si riflette sulla forma del racconto: dieci brevi capitoli in seconda persona sui luoghi di don Milani, altri dieci in prima che riportano le impressioni dei viaggi più disparati.Lorenzo morì a poco più di quarant’anni facendo lezione ai ragazzi fino all’ultimo giorno. Cosa ne sarà di noi? Andremo tutti in pasto ai vermi.
La scrittura di Affinati ha il sapore della passeggiata walseriana, mescola annotazioni, reminiscenze letterarie, evocazioni fantasmatiche; ripercorre gli snodi centrali della parabola di don Milani a partire dalle abitazioni in cui ha vissuto, i luoghi in cui ha studiato, le città percorse in preda alla gioia e al tormento, all’ossessione di spendersi per gli altri e la consapevolezza della propria agiatezza da figlio dell’alta borghesia. Le strade fiorentine e i borghi toscani suggeriscono la domanda inevasa, la colpa originaria che ha spinto don Milani nell’orbita più esterna del censo di nascita: «Credi forse che sia stato facile per lui scrollarsi di dosso questo mantello prezioso? Sei passato in mezzo allo splendore della famiglia toscana, ogni tanto vedevi scorrere ai tuoi lati un esploso di tetti che annunciava questo o quel paese: da lontano sembravano struggenti, piccoli paradisi di legno e cipressi, eppure chissà quanti grovigli isterici prosperavano dentro quelle mura domestiche, e quali orribili solitudini si stavano formando, allo stesso modo di cellule tumorali destinate prima o poi a distruggere il nucleo familiare».
Quella di Affinati non è l’attitudine del baciapile: pur eludendo la morbosità dell’indagine, interroga l’idiosincrasia dell’uomo Milani: il rapporto con l’ascendenza ebraica, le velleità da pittore, la folgorazione della fede, la missione pedagogica sostenuta dal fardello della colpa. Dietro il personaggio storico che si scontra con la volontà conservatrice della Chiesa c’è un uomo che affiora nel momento della scrittura, Affinati evidenzia gli scampoli di realtà nella corrispondenza privata, nella descrizione dei “pierini” di Lettera a una professoressa o nell’oltranzismo delle Esperienze pastorali. Arriva persino a dare voce ai suoi allievi, al ricordo diretto che si impreziosisce dell’aneddoto. Ma il primo allievo – seppur solo spirituale – è lo stesso autore che nella sua esperienza di maestro tenta di innestare l’energia di cui si dovrebbe nutrire il rapporto con l’alunno: «come si fa a riconoscere il buon dal cattivo maestro? Basta vedere gli occhi dei suoi scolari: se brillano oppure restano spenti». Da maestro a maestro – da modello lontano a scrittore che si contamina con il suo lascito – nasce un dialogo a distanza che evidenzia il bisogno di ripensare la paideia moderna, Affinati è cosciente dell’impasse storico: «Tu la chiami “finzione pedagogica”. Far finta di insegnare. Far finta di ascoltare. Il teatrino didattico con la lavagna, il registro, i voti, i giudizi, la assenze, le note, la campanella. Io prendo un contenuto della tradizione, che sta alle mie spalle, te lo consegno come fosse un sacco postale e tu me lo devi restituire nella medesima forma con cui te l’ho trasmesso. Se non riesci magari ti metto un’insufficienza e poi magari ti boccio».
Ripercorrendo l’opera del prete di Barbiana Affinati ricapitola il senso del proprio operato, invia lettere a sé stesso, un soliloquio fatto di rimandi letterari (Tolstoj, Pratolini, Bassani, Pasolini, Bianciardi). La seconda persona è adoperata come dispositivo retorico, gesto deittico che indica la propria interiorità e sollecita la radicalità delle idee.
Ma nel concertato de L’uomo del futuro la riscoperta della vocazione pedagogica passa da una partitura più elaborata, una grammatica che non erige a feticcio don Milani, il modello non rimane cristallizzato e insuperato nel tempo. Circola nel mondo la volontà di rispondere alla questione della gioventù, della povertà, alla sete di conoscenza e al bisogno della trasmissione di valori. Pechino, Benares, New York, il cuore del Gambia: uomini e donne che insegnano a piccoli uomini e piccole donne, sui volti dei bambini cambiano le sfumature della pelle, il contorno del naso e degli occhi, ma permane il medesimo mistero, la consapevolezza di trovarsi al cospetto della nuova generazione, dinanzi al futuro. Nei capitoli di viaggio Affinati calibra uno stile asciutto – che potrebbe ricordare la flânerie padana (o africana) di Celati – dipinge dei quadretti che fungono da episodi didascalici, in essi affiora il vissuto dell’autore, le considerazioni sui diversi approcci alla didattica, nonché sulla differente percezione dell’ambiente circostante. Si prospetta un tortuoso discorso sul metodo che vede nell’esperienza diretta e nella comunione fàtica il senso ultimo dello stare nel mondo, del ragionare sui valori e cercare di trasmetterli. Il mondo cambia, l’autore con esso, l’esperienza è lo strumento principe, il ricordo un prezioso alleato, i canali di dialogo con le nuove generazioni sono contenuti, ma proprio per questo indispensabili.
Con la meditazione su don Milani l’io narrante arriva a ridisegnare il profilo di Eraldo Affinati, forse questa considerazione, rivolta solo al prete di Barbiana, potrebbe essere diretta a entrambi:
Don Milani continua a essere inafferrabile: è una domanda inevasa, la spina nel nostro fianco, un pensiero in movimento. Non ci lascia un’opera, una filosofia, un sistema, un progetto, ma energia allo stato puro. Una tensione che stenta a sciogliersi. L’inquietudine che c’è prima dell’azione. Come se non fosse possibile tenerlo fermo per esaminarlo, sfugge a qualsiasi definizione. Maestro, scrittore, politico, educatore.
Di tale inquietudine si riempie la scrittura di Affinati, che condensa in frasi fulminanti il ventaglio di riflessioni sedimentatesi in anni di lavoro, di contatto diretto con la realtà che racconta attraverso lo specchio della vita di un altro. Le mille voci che compongono questo libro si strutturano secondo la forma di un progetto che è anche vocazione, una radicalità silenziosa a cui non siamo più abituati.
Romanzo
Mondadori
02/02/2016
cartaceo, ebook
177
Nadia Morelli
Per interrogarsi sulla necessità di entrare in contatto con le nuove generazioni e cercare la risposta assieme all'autore.
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