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Diego Fusaro pensare altrimenti

Diego Fusaro: la retorica del dissenso

Summary:

In ‘Pensare altrimenti’ Diego Fusaro cerca di mostrare la storia filosofica del dissenso e l’incapacità dell’uomo contemporaneo di pensarsi parte del sistema di potere, lasciando nel lettore molti interrogativi senza risposta.

Quando si prende in mano un libro di Diego Fusaro è necessario, come per altri scrittori, cercare di scindere il personaggio dall’autore del libro. Bisogna cercare di andare a guardare i contenuti del testo e il suo lavoro specifico, talvolta cercando anche di non correlarlo agli articoli di giornale, alla sua attività da youtuber o gli scontri dialettici con Valentina NappiE così si cercano riferimenti ad altri filosofi, al contesto all’interno del quale Fusaro si autocolloca per forza dei suoi studi e del suo curriculum. In questo senso è dal volume appena pubblicato per Einaudi che bisogna partire, e ancor prima dal suo titolo, il primo concetto espresso, infatti, è lì: pensare altrimenti.

Il rimando necessario ci porta sulle pagine di Ricoeur che, mosso dal problema del male, divenne uno dei filosofi del ‘900 che riuscì meglio a delinearne tematiche e relazioni. Oscillando tra la sistematizzazione dell’umano, la sua spiegazione e il suo esatto opposto, la rinuncia o l’impossibilità di comprenderlo, Ricoeur formulò  una delle modalità di pensiero che ancora oggi tornano con più forza, quella del «pensare di più, pensare altrimenti», per cercare di comprendere il male senza mai giustificarlo, o più in generale per comprendere la complessità della realtà.

Così, per affrontare il nuovo lavoro di Diego Fusaro, bisogna ritornare al titolo, Pensare altrimenti, anche se Ricoeur non viene mai menzionato esplicitamente né implicitamente. Ed è su questo primo approccio che si prende tra le mani il saggio sul dissenso: un titolo che rimanda (in maniera volontaria o involontaria) a un autore con il quale Fusaro non si confronta in alcun modo. Può essere spiazzante, da un certo punto di vista, ma la storia del dissenso che ci si accinge a leggere, in effetti, è ricca di riferimenti esplicitati o meno, essendo un tema estremamente complesso.

Il dissenso è un argomento che da sempre ha richiamato l’attenzione di filosofi, come ad esempio le famose «ghirlande di fiori sulle ferree catene» descritte da Rousseau a partire dalla funzione delle arti nei sistemi politici meno democratici, capaci di rendere gradevoli le catene stesse. Citazione ripresa più volte da Fusaro, ma mai esplicitamente, in frasi come «Il dissenso non può divampare: se un tempo si credeva di non avere da perdere se non le proprie catene, oggi si ritiene di avere tutto grazie ad esse, senza nemmeno più avvertirle come tali» (p.95). Ovviamente se già Rousseau lo scriveva nel ‘700, forse l’approccio verso le forme di governo più stringenti non è mutato moltissimo nelle sue modalità.

In ogni caso si procede ancora con altri riferimenti non esplicitati, tipo quando Fusaro scrive: «L’indipendenza e l’autonomia costituiscono indubbiamente una forza, che però determina l’isolamento e la solitudine, che sono una debolezza», una frase che richiama il Pasolini da memi su Facebook: «La mia indipendenza, che è la mia forza, implica la solitudine, che è la mia debolezza». Inoltre ci sarebbe anche da fare una distinzione, come ebbe cura di fare Hannah Arendt all’interno di diverse sue pubblicazioni, in particolare ne Le origini del totalitarismo, tra isolamento e solitudine, esprimendo l’approvazione per la solitudine intesa come un allontanamento dagli altri in favore di un dialogo con se stessi, e contrapponendola all’isolamento, forma attraverso la quale si è allontanati passivamente dal consesso umano formato dagli altri. Insomma filosoficamente sono due concetti differenti, anche se in questo contesto non inficiano il lavoro compiuto da Fusaro sul dissenso.

Infatti procedendo al di là del titolo ci si deve interfacciare con 18 capitoli all’interno dei quali Diego Fusaro si prefigge di analizzare brevemente la storia del dissenso e mostrare come oggi sia impossibile da compiere. Scrive infatti in più circostanze:

Per questo, come adombreremo nella nostra trattazione, una considerazione storico-filosofica della figura del dissenso non può non comportare, in pari tempo, un’esplorazione critica dell’uniformazione globale delle coscienze che si sta oggi registrando nell’orizzonte del nuovo pensiero unico e del falso pluralismo democratico della civiltà occidentale. Quest’ultimo moltiplica e frammenta il messaggio, affinché sia occultata quella sua natura intimamente totalitaria che nega in partenza ogni diritto a dissentire e pensare altrimenti. (p.12)

Il dissenso negato, viene qui descritto come impossibile non solo da dichiarare, ma è impossibile il suo stesso strutturarsi, e su questo punto Fusaro torna più volte:

È su queste basi (il desiderio dei cittadini delle loro stesse catene n.d.a.) che può imporsi su scala planetaria quel conformismo di massa che, plasmando un idem sentire gravido di potere e permeato in ogni sua espressione dall’ordine simbolico, neutralizza la possibilità stessa del costituirsi del dissenso. (p.49)

oppure

Nella società dell’«atomizzazione di massa», dei singoli io frantumati e plasmati dalle retoriche ideologiche, si calcola e non si dissente, si acquistano merci e non si acquisisce coscienza critica: la società è atomizzata in singole individualità scisse, seriali e reciprocamente ostili. (p.54)

Fusaro ripropone in tutto il testo la sua idea di impossibilità totale del dissenso, tanto che verrebbe da chiedersi in che maniera collocare il libro che si sta leggendo, perché se il dissenso non è possibile, allora forse il volume che si ha tra le mani rientra in una retorica dell’assenso, consentita dal sistema nonostante la sua natura intimamente totalitaria; oppure, se al contrario Pensare altrimenti è una reale espressione di dissenso, forse la tesi sulla omologazione e l’impossibilità di concepire il dissenso non è totalitaria, ma al contrario possibile. Ma questo rimane un dubbio che si estende al di là del tema trattato, che invece riporta il lettore all’urgenza del dissentire.

Infatti il dissenso è un’urgenza che trae la sua forza dalla irriconoscibilità del potere, e qui forse sarebbe stato il caso di inserire una breve analisi delle forme del potere in una società così complessa. In che modo il potere si è trasformato, perché certamente non ci si può aspettare che sia lo stesso che ha spinto Platone a scrivere La Repubblica o Macchiavelli a scrivere Il Principe. Difatti Fusaro scrive:

L’algoritmo segreto del dissentire pare potersi individuare in quel «dire-di-no» al potere, alla situazione data o all’ordine simbolico che, sorgendo anzitutto nella coscienza dell’individuo, si traduce in volontà di autonomia e di indipendenza, vuoi anche in anelito di liberazione e di avviamento a una storia alternativa. (p.6)

Il concetto di potere è alla base di ciò che si può comunemente intendere come dissenso. In cosa consista questo potere oggi, come si strutturi e perché si sia conformato in questa determinata maniera, Fusaro non lo scrive – o comunque lo tratta marginalmente attraverso La Boétie (autore vissuto nel ‘500) – se non nelle forme che questo potere assume: dalla comunità europea, alla finanza, alla globalizzazione, al simbolico e ad altre modalità d’espressione. Sembra che questo impianto abbia dei presupposti non dichiarati, qualcosa che risiede nella tautologia per la quale il potere è potere e siccome la situazione non è buona, ed è sotto gli occhi di tutti – tanto evidente da non esser necessario nemmeno un dato statistico o economico in tutto il volume – allora evidentemente la colpa è del potere. Forse da questo punto di vista Pensare altrimenti rimanda ad altre pubblicazioni di Fusaro, o ad altre interviste, alle grammatiche Gramsciane (che invece hanno spiegato bene il concetto di egemonia culturale); in ogni caso, nel lettore potrebbe rimanere in sospeso la domanda su cosa sia questo potere e sul perché sia sempre negativo.

Il lavoro è ampio, il volume conta 156 pagine di saggio più 10 pagine di bibliografia essenziale. La ricerca compiuta segue un percorso che mira a dimostrare come le forme di dissenso siano differenti, Fusaro le distingue per intensità:

Vi sono, infatti, diversi gradi e differenti intensità del dissentire. Il dissenso può riguardare singoli aspetti, e dunque solo limitare parti del mondo storico in cui si sviluppa. […] Nella sua intensità massima, il dissenso può spingersi a mettere in discussione l’assetto integrale di un mondo storico, rigettandolo in quanto tale e riconoscendo, con Adorno, che «il tutto è falso». (p.18)

C’è anche una differenza di qualità:

Il primo tipo di dissenso, proprio del riformista e del disobbediente, può anche dirsi di partecipazione. […] il secondo, per via della sua intensità massima, è inquadrabile come dissenso di secessione, in quanto respinge non singoli aspetti, ma il fondamento stesso dell’ordinamento vigente. (p.19)

Queste categorie non hanno delle tradizioni storico-filosofiche citate e non alludono esplicitamente a studi precedentemente fatti, ma sono coniate da Fusaro per intessere il discorso sul dissenso. È su questa imbastitura iniziale che tutto il ragionamento si struttura, sono le premesse logiche dalle quale discende tutta la trattazione che cita alcuni esempi di momenti chiave attraverso i quali il dissenso si sarebbe dovuto esprimere contro il potere, ma non l’ha fatto. Esempio principale, ripreso più volte, è quello della globalizzazione, alla quale Fusaro si oppone con forza, per via della natura economica e capitalistica che la caratterizza. Scrive:

La scena mondiale schiusasi con il 1989 non soltanto ha segnato la ripresa della marcia del capitale e della sua estensione illimitata, con annessa erosione dei diritti precedentemente conquistati sul campo e con il riconfigurarsi della tradizionale lotta di classe nei termini di un vero e proprio massacro di classe univocamente gestito dai dominanti. L’ordinamento del mondo, che fino al 1989 era duale e diviso dal muro di Berlino, ha rapidamente preso a disporsi in forma unipolare e unitaria. (p.38)

Sembra che Fusaro auspichi un ritorno agli anni della Guerra fredda, ma come sappiamo in una visione conservatrice il passato ha un ruolo dominante sul presente. Tuttavia quella globalizzazione che scrive esser diventata mondiale dopo il 1989, in realtà era già nata molti anni prima della caduta del muro di Berlino. Scrive Naomi Klein in uno dei libri fondamentali dei movimenti no-global e che ha avuto la capacità di descrivere il fenomeno e le sue radici storiche (risalenti peraltro già agli ultimi anni dell’800):

L’idea che le EPZ [zone industriali di esportazione, .da] potessero in qualche modo giovare alle economie del Terzo Mondo si affermò per la prima volta nel 1964, quando il Consiglio economico e sociale delle Nazioni Unite adottò una risoluzione che appoggiava le zone franche quale strumenti per promuovere il commercio con i paesi in via di sviluppo.  […] Da allora l’industria di libero scambio è letteralmente esplosa. […] La nazione che ne ha il maggior numero è la Cina, dove, in base a stime approssimative, 18 milioni di persone lavorano in 124 zone franche. (p. 183)

I dati qui riportati risalgono, ovviamente, all’anno di stesura del libro (2000), la situazione oggi è cambiata, ma sicuramente quei dati ci forniscono un contesto nel quale collocare la caduta del muro di Berlino, come un passaggio politico e non esclusivamente economico, considerando il fatto che l’economia mondiale aveva già imboccato un determinato percorso. Inoltre è da considerare che, ancora oggi, nella Repubblica Popolare Cinese il potere viene esercitato da un unico partito di derivazione Comunista, andando a complicare maggiormente la situazione ideologica e globalizzata. Si delinea così uno scenario internazionale che ora come allora stenta a farsi racchiudere in passaggi unici ed esclusivi. Ulteriore spunto di riflessione viene dagli impatti della globalizzazione, perché anche importanti studiosi come Amartya Sen non mettono più in dubbio la globalizzazione stessa (che l’economista indiano fa addirittura risalire all’ultimo millennio) ma le modalità con le quali questa si realizza.

Tuttavia il ragionamento di Diego Fusaro raggiunge il suo culmine filosofico nella forma del dissenso verso il dissenso. Può sembrare una definizione che si attorciglia su se stessa, ma è spiegata in questi termini:

Inglobato nei circuiti della manipolazione organizzata, il dissenso finisce sempre più per porsi come strumento di rafforzamento del consenso. Orchestrato dal potere e indirizzato puntualmente contro tutti i punti di dissonanza rispetto a esso, si capovolge in dissenso verso il dissenso e ipso facto – in virtù della legge dialettica della negazione della negazione – in riaffermazione del consenso. (p.56)

Questo tipo di ragionamento potrebbe sembrare contorto, ma ha la precisa funzione di riabilitare le forme di dissenso verso il dissenso stesso, che a detta di Fusaro dissentono a favore del potere. Di fatto il ragionamento porta Fusaro a risultati di questo tipo:

Il ribaltamento del dissenso implica una restaurazione delle strutture che governavano il mondo prima della “mercificazione economica”, motivo per il quale ad esempio:

A incorrere nella condanna di omofobia sono anche quanti commettono, in termini Orwelliani, il prima evocato «psicoreato» consistente nel ritenere che esistano uomini e donne, che la famiglia non corrisponda a un concetto «autoritario» da cui prendere congedo, che – pur essendo molteplici i legittimi gusti sessuali – due siano i sessi, che si possano discutere razionalmente senza dover essere accettate senza riserve le nuove disposizioni sull’«educazione di genere» nelle scuole. (p.102)

Il passaggio che più di tutti salta agli occhi è la delegittimazione di quelle che sono oggi le minoranze, alle quali viene attribuita una appartenenza al sistema di potere. Ai diritti reclamati attraverso gli studi di genere, per Fusaro, bisogna opporsi, perché frutto della visione capitalistica. Senza specificare che opporsi alle minoranze utilizzando la posizione che sostiene il potere non fa altro che assimilare il dissenso del dissenso al potere stesso: perché, ad esempio, le leggi per i matrimoni civili sono state applicate da poco in Italia, e le lotte per i diritti continuano perché questi ancora non sono pienamente riconosciuti. Una persona senza diritti in che modo sarebbe parte di un sistema? Con che funzione? In che modo detiene – o serve – il potere chi non ha diritti? Questo Fusaro non lo spiega, alludendo invece a un’assimilazione ideologica e culturale al capitalismo. Ma se il capitalismo e l’economia controllano ideologicamente tutto, perché chi non ha diritti protesta? Perché invece i diritti non gli sono concessi in virtù di un assenso ideologico?

La sezione dedicata al dissenso del dissenso si fonda su un terreno capzioso all’interno del quale è difficile comprendere cosa sia parte del potere e cosa invece sia esterno, quale sia il dissenso vero e quale invece un dissenso organico al potere. Sembra quasi che per risolvere tutti questi problemi ci si debba affidare a qualcuno, una persona che possa decidere per tutti, ma questa deriva autoritaria della morale ci auspichiamo che non la gradisca nemmeno l’autore.

In ultimo, Pensare altrimenti utilizza Bartleby lo scrivano e Sostiene Pereira come testi nei quali è possibile ritrovare la figura di un oppositore al potere. Mi soffermerò solo su Bartleby per non dilungarmi. La frase citata da Fusaro come simbolo del dissenso «I would prefer not to» recitata da Bartleby all’interno del libro di Melville, è da sola simbolo di estrema complessità, basti ricordare il lavoro di Deleuze e Agamben a riguardo, nel passaggio in cui scrivono:

Si è osservato che la formula, I prefer not to, non era né un’affermazione né una negazione. Bartleby «non rifiuta e neppure accetta, avanza e si ritira in questa avanzata, si espone appena in un leggero ritirarsi del discorso». L’avvocato sarebbe sollevato se Bartleby non volesse affatto; ma Bartleby non rifiuta, si limita a ricusare un non-preferito (la rilettura, le commissioni…).

Come evidenzia Deleuze, la formula di dissenso non è così evidente, è piuttosto una problema inerente al soggetto che la pronuncia e alla lingua che utilizza. Appiattire il significato di tale discorso su un dissenso al sistema economico globalizzatonon sembra possa render Bartleby lo scrivano per il grande capolavoro letterario che è.

Per concludere, Pensare altrimenti è un libro che espone una sola tesi e cerca di ricostruirne parzialmente la storia e la struttura, andando, per utilizzare un linguaggio vicino a Fusaro, a limare le antitesi in favore delle tesi per ottenere delle sintesi prossime alle tesi stesse. Ma, a una lettura attenta, Pensare altrimenti si mostra come una trattazione a vocazione filosofica che lascia ancora molti dubbi di carattere meramente filosofico oltre che politico/sociale. La capziosità di alcuni ragionamenti già citati meriterebbe l’esplicitazione delle basi bibliografiche e l’esposizione di un numero maggiore di fonti, per trovare conforto e fondamenta in una tradizione che sia in grado di contestualizzare alcuni passaggi e consentire al lettore di orientarsi all’interno del volume.

Pensare altrimenti Book Cover Pensare altrimenti
le vele
Diego Fusaro
Saggio
Einaudi
166
02/02/17
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