Uscito in questa prima metà di 2016 per Voland, Conforme alla gloria è il secondo romanzo di Demetrio Paolin. Attualmente è tra i dodici libri in corsa per entrare nella cinquina finale del Premio Strega. In copertina reca un’opera di Thomas Lieser, una nebulosa di fiamme che rimanda subito al fuoco del forno crematorio.Per essere testimoni dobbiamo farci aguzzini.
Si apre, questo romanzo di quasi quattrocento pagine, con una voce molto letteraria: quella di una giovane donna che si muove in una sorta di casa di bambole all’interno di un lager. E si chiude in tutt’altro modo: con un’intervista dello scrittore Mauro Covacich a Enea Fergnani, uno dei protagonisti del libro, a cui si aggiunge la descrizione di un’installazione artistica che, facendo il paio con l’intervista, ci riporta su un piano extradiegetico, di riferimenti prettamente reali. Come se il senso ultimo, l’ultima zampata del romanzo lo facesse approdare tra noi lettori, nel nostro mondo. Da questa parte dello specchio. Cerchiamo allora di capire cosa ci sia in mezzo, tra queste due parentesi apparentemente così distanti tra loro.
Prima di tutto, Paolin ci fa incontrare un feticcio di pelle umana: un quadro il cui ritrovamento – così come nella miglior tradizione del manoscritto ritrovato – dà avvio alla vicenda. Rudolf Wollmer eredita quest’opera scandalosa, intitolata La gloria, da suo padre, un ex SS mai pentita; e così inizia a perdere la brocca. Rudolf appartiene a un’altra Germania, quella della ricostruzione, quella del riscatto. Lui non è vittima né carnefice, ma di colpo realizza quanto sia ancora avvelenato il terreno lasciato da questi ultimi. Soprattutto, Rudolf comincia a comprendere di essere tra i frutti irrimediabilmente avvelenati dalla semina di suo padre e del Reich.
Vittime a tutti gli effetti sono invece Enea Fergnani e i suoi amici, a Torino. Enea è stato deportato in adolescenza, a Mauthausen ha imparato a tatuare per conto delle SS. I suoi amici sono da una parte altri sopravvissuti al lager, e dall’altra quelli che sembrano dei veri e propri freak: Teresa, un trans in fuga dalla dittatura argentina, Giovanni, un individuo semi autistico con uno strano buco in faccia, e infine Ana, ex iscritta allo IED, anoressica (in quest’ultimo caso, prima di gridare al cliché si consiglia di concludere la lettura del romanzo). Negli anni Enea tatua ancora, e insieme ai tatuaggi insegue un tocco, una possibilità di redimersi. Cosa che non avverrà, neppure quando tenterà la trasfigurazione di quanto avvenuto a Mauthausen in una personalissima forma di body art. A Enea non resterà che muoversi all’interno del romanzo come un’infezione, un virus che segue un percorso del tutto simile a quello del quadro di pelle.
Con estrema pazienza, Paolin fa quindi crescere le vicende e soprattutto le ossessioni di questi personaggi fino all’innesco di una scatola narrativa nerissima, che si interroga sul male – se sia estinguibile, se le vittime siano realmente incapaci di compierlo a loro volta – e sulla memoria. Cosa succederà quando l’ultimo dei deportati sarà morto? È genuina e appassionata, la domanda di Paolin, tanto da indurre l’autore a chiamare in causa, nella sua fiction, personaggi che davvero hanno tenuto viva la memoria della Shoah: Bruno Vasari e Primo Levi tra gli altri (senza dimenticare il richiamo dello stesso cognome di Enea). Ed è anzi in questo tessuto su cui sono tatuate insieme finzione e realtà – insieme a Covacich ci sono anche Fabio Mauri e Igor Man, tra le persone reali citate nell’opera, oltre che eventi come il rogo della Thyssen e della cappella del Guarini – che Paolin affonda la lama della sua narrativa.
Mentre quell’obbrobrio di pelle si fa largo, devastandole, nelle vite di Rudolf e Ana soprattutto, l’autore si affida a uno stile per lo più limpido, evitando accuratamente, a livello sintattico, l’impaccio tipico di certi virtuosismi che spesso si ribaltano nel kitsch (e che in genere fanno sasso di ogni pagina). Beninteso: Paolin è intriso di letteratura, e lo dimostra in certe descrizioni piuttosto raffinate – quando racconta La Gloria, opera, quella sì, virtuosa e kitsch – e per la messa in posa dell’ossessione – il fuoco, la pelle, l’incenerimento. Ma qui l’intenzione, evidentemente, è soprattutto quella di raccontare, di lasciar scivolare il lettore nel maelstrom dell’assenza di risposte ai quesiti già accennati: che natura abbia il male, che senso abbia ricordare.
Non sappiamo se Paolin sia mosso da intenti morali. Uno scrittore come Roberto Bolaño ha trattato questi stessi temi con maggiore furia, sia etica che estetica. Paolin no, ha un suo rigore, e questo lo si avverte nell’assoluta assenza di compiacimento – a parte quello minimo che c’è sempre nel dar vita alla finzione, per quanto ancorata alla realtà – e nel suo raccontare volutamente monocorde, come in un bordone che ronza sempre attorno agli stessi ritmi disumani: le vittime, i carnefici, i sommersi che non possono salvarsi ma possono tornare a galla, a sentirsi umani per un attimo torturando a loro volta chi dal lager non è passato, come se questa fosse una colpa. Non c’è compiacimento, in Paolin, perché il compiacimento davvero inibisce la memoria, la ottunde e ne fa ovatta; e ne abbiamo una prova quando, nel romanzo, il mondo dell’arte contemporanea si accosta a suon di aperitivi alla body art di Enea, depotenziandone ogni possibile tentativo di strappo o provocazione, benché involontario.
Allo stesso tempo, nell’opera di Paolin – in questo caso sì, come in quella di Enea – c’è la volontà di toccare il lettore, di pungerlo. Le vicende di Rudolf, Enea e Ana si inseguono in una struttura che l’autore padroneggia con grande personalità, dosando le informazioni e montando i piani temporali di modo che al lettore non resti che divorare le pagine e arrivare in fondo. E lì beccarsi il colpo in piena faccia: Covacich, annunciato diverse volte, finalmente appare per ricordarci che, al di là dell’espediente del quadro di pelle ritrovato, è da questa parte dello specchio che si trova l’orrore. Perché lo specchio, lo cantavano i Velvet Underground, è il vero abisso che se scrutato troppo a lungo… Ma questo lo sappiamo a memoria.
Quello che forse tendiamo a dimenticare, invece, e cioè che il destino di ogni terrore è di essere universale, lo raccontava bene ancora una volta Bolaño nel suo Notturno cileno. E anche qui, Conforme alla gloria ci ricorda che la storia del lager non solo non è conclusa – e se anche lo fosse, la damnatio memoriae non farebbe che il gioco dei nazisti, inducendoci a ripetere lo stesso identico male – ma si connette con quella di altri orrori contemporanei. È su Abu Ghraib, altro fatto storico che subisce il trattamento della fiction di Paolin, che il libro si conclude, tratteggiando, nella visione che esaurisce il libro, un inedito fil rouge dell’orrore. Come a dire che il male si trasforma, prende forme via via più assurde filtrando da un’esistenza all’altra: la bambola del lager passa attraverso il corpo di un’anoressica per arrivare a rappresentare l’inaccettabile irrisione del fantoccio iracheno.
Cosa c’è in mezzo tra quelle due parentesi di cui si è detto in apertura, allora? Forse, più che un’opera politica o morale, soprattutto un romanzo intenso. E popolare. E forse un romanzo lo è davvero, intenso – e soprattutto popolare – , quando riesce, dopo una lunga battaglia, a superare anche i suoi stessi limiti. Conforme alla gloria non è esente da qualche intoppo: tra questi segnaliamo un eccessivo uso dell’ellissi, soprattutto nella prima parte, che forse impedisce di entrare a fondo nella discesa nella follia del povero Rudolf; certi dialoghi un po’ meccanici, che qui e lì suonano artefatti; l’idea, in generale, che ci sia qualcosa di troppo: forse la Thyssen, forse qualche personaggio, come Teresa o Giovanni, che viene introdotto e poi fatto sparire troppo frettolosamente – senza dimenticare i non pochi refusi, che almeno in questa prima edizione minano spesso la sospensione dell’incredulità (anche se si tratta di una questione che andrebbe addebitata sul conto dell’editore, più che su quello di Paolin).
Il fatto è che il rischio di toccare il limite è tipico di un’opera lunga (fatta qualche rara eccezione di perfezione totale). Di più: i limiti fanno un romanzo lungo, intenso e popolare almeno quanto i suoi pregi. Diversamente parleremmo di bozzetti privi di alcun interesse. Si pensi, molto banalmente, a Moby Dick, alle sue enormi contraddizioni interne e alla gestione di alcuni personaggi che appaiono e scompaiono in maniera piuttosto inspiegabile, per non parlare di quanto accade in 2666 o ne I detective selvaggi dello stesso Bolaño. Leggere Conforme alla gloria, insomma, è soprattutto un’esperienza; a tratti quasi muscolare, per altri soprattutto divertente. Mentre siamo alle prese con le vicende di Enea, Ana e Rudolf, semplicemente noi non riusciamo a distogliere lo sguardo, un po’ come succede proprio a Rudolf col quadro di pelle, avanzando per queste pagine fino alla frustata finale. Che c’è tutta, e si fa sentire ancora a diverse ore dalla conclusione della lettura.
Se questo valga uno Strega, non lo sappiamo. Ma vale sicuramente il nostro tempo di lettori.
Romanzo
Voland
Cartaceo, ebook
400
Thomas Lieser, "Fire nebula"
24/03/16
Un romanzo intenso, che si lascia leggere con voracità grazie a uno stile al servizio dell’intreccio. Senza eludere la crudezza e la profondità di un tema, quello dell’Olocausto, che prova invece a raccontare con uno sguardo contemporaneo.
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