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Leda - Nessuno t'ha amato come io 'ho amato


TheStain

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Io e te, Leda, abbiamo dimorato nella casa più meravigliosa che avessi mai potuto desiderare. Avevo assunto gli architetti più illustri, i più visionari, per realizzare la magione più eccelsa della terra. I tre piani sui quali si estendeva erano un trionfo di marmi e ori, e non v’era stanza che non fosse adornata da affreschi pregevoli e dipinti dalle cornici finemente intagliate.

Avevo fatto giungere la tua adorata mobilia da ogni angolo del globo; tappeti e arazzi dalla terra di Persia, armadi e credenze scolpite nel legno da un noto artigiano austriaco, porcellane dalla Cina e sculture in vetro soffiato dalla laguna veneta. L’immenso giardino che si estendeva a perdita d’occhio intorno alla casa era una congerie rigogliosa di piante locali ed esotiche, che si mescolavano secondo quell’estetica decadente da cui eri così tanto affascinata. Ceppi di Palme di San Pietro si alternavano a cespugli di rosmarino e alberi d’alloro, fiori di Caladium spuntavano tra comuni piante grasse, alberi di gelsi crescevano all’ombra delle grosse querce secolari. E poi c’era il laghetto, dove hai amato trascorrere i lunghi pomeriggi d’estate a dipingere e a dilettarti nella ricerca di piccoli pesci sotto il pelo dell’acqua, e di rane e tartarughe.

Abbiamo trascorso molti anni in serenità, io e te soltanto, nascondendo il nostro amore tra le mura spesse e invalicabili della nostra villa, protetti dagli sguardi invidiosi del popolino ignorante.

Non avevamo bisogno d’altro, se non della nostra vicendevole compagnia. 

Al mattino mi alzavo al sorgere del sole per il solo motivo di contemplare il tuo corpo addormentato; ricordo ancora la perfezione con la quale i raggi bruni dell’alba colpivano le tue forme, donandoti le fattezze d’una divinità dormiente e d’inarrivabile bellezza. 

Tuttavia non durava mai abbastanza.

Lasciare la nostra casa ogni mattina è sempre stato il momento peggiore delle mie giornate. Abbandonare l’eden che avevo costruito per noi due con tanto desiderio per uscire nel mondo abietto che stava fuori riempiva il mio cuore di bile, e solo la prospettiva del ritorno manteneva integre la mia volontà e la mia abnegazione. 

E trovare ogni volta, al mio rientro, il tuo volto sorridente contornato dai lucenti boccoli castani, la tavola imbandita d’ogni prelibatezza che il Signore ci ha concesso, ripagava tutti i miei sacrifici. Vedere come mi dimostravi la tua gratitudine mi convinceva ogni giorno di più che la nostra vita fosse perfetta così; io, te, e nessun altro.

 

Poi un giorno come molti altri sono tornato a casa, e quell’equilibrio così perfetto, eppure tremendamente delicato, si è guastato in modo irrimediabile.

«Non saremo più soli» mi hai detto, col tuo solito viso radioso e le mani bianchissime giunte in grembo «aspettiamo un bambino».

Io ho spalancato le braccia e t’ho tenuta stretta a me a lungo, mentre riversavi nelle lacrime tutta la gioia di quella lieta notizia.

 

Apparentemente, tutto è tornato presto a come era prima. Anzi sono stati, ne converrai, i mesi migliori della nostra felice convivenza. Il tuo canto dolcissimo investiva ogni spazio della grande casa, rischiarando finanche gli spazi più bui e dimenticati; i colori delle tue tele erano sgargianti, e riflettevano la luce che tu stessa emanavi nel mondo. O Leda, quanto, quanto ti ho amato durante i mesi della tua gravidanza! Sbagliavo, prima d’allora, quando già pensavo d’aver toccato le vette più alte dei miei sentimenti! 

Tuttavia ammetto che già allora una larva insidiosa, oscura, si era infiltrata tra le spire della mia mente per intossicarmi i pensieri. 

L’ho covata dentro come una madre inconsapevole, l’ho nutrita con l’inquietudine dei miei timori, l’ho fatta ingrassare a tal punto da renderla troppo ingombrante da poter essere nascosta.

«Leda, tesoro» ti ho detto una sera, al tramonto, mentre passeggiavamo sotto braccio tra i ruderi e la vegetazione folta del nostro bosco «credi che questo figlio stravolgerà la nostra vita?»

Allora tu hai gettato il capo all’indietro e sei esplosa in una risata acuta, piena d’allegria.

«Che domanda» hai risposto «certamente sì. E sarà lo stravolgimento più meraviglioso di tutti» mi hai guardato coi tuoi occhi scuri, amorevoli, e mi hai sorriso.

Io non ho risposto e ti ho sorriso a mia volta. Eppure, ti confesso, a quelle tue parole ho sentito il mio cuore farsi pesante come piombo e sprofondare negli abissi delle mie pene.

Ancora non sapevo, Leda, amore mio, che mai più sarebbe riemerso a riveder la luce.

 

Pioveva a dirotto, il giorno in cui è nato. Ricordo ancora con un brivido d’orrore il modo in cui ha squarciato il cielo con i suoi primi vagiti, e come il riflesso bluastro, elettrico dei fulmini gli abbia illuminato il volto: tondo, umido, contratto in una smorfia di ribellione. Era un maschio, proprio come desideravi tu. Nel momento in cui ti è stato messo in braccio ho capito, solo guardandoti, che tutte le sofferenze del travaglio erano orami lontane, e non c’era più spazio per nient’altro, per nessun altro, all’infuori della creatura che tenevi in grembo. Mi sono avvicinato con discrezione, poi ti ho passato una mano tremante tra i capelli sudati.

«È… bellissimo» ho sussurrato. Ma tu non mi hai degnato di uno sguardo; hai chinato il capo sulla fronte del bambino, e l’hai sfiorata appena con le tue labbra perfette che, fino ad allora, erano state solo mie.

 

Sono passati i giorni, le settimane, i mesi. A lungo mi sono detto, illudendomi, che anche questa nostra nuova vita sarebbe stata perfetta. Sono andato a dormire la sera, al tuo fianco, mormorando preghiere al Signore, chiedendogli la forza di saper apprezzare il dono con cui ci aveva benedetti. Ma poi, al mio risveglio, non ho più trovato le forme aggraziate del tuo corpo ad allietare i miei occhi. Tu non eri più lì insieme a me, perché eri già con lui, a dondolarlo con la tua voce che adesso riservavi solo al suo udito.

Ero arrabbiato, Leda, molto arrabbiato. Eppure non te l’ho detto e ho continuato a comportarmi come sempre, sforzandomi di essere l’uomo di cui eri innamorata.

Tu, però, non c’eri più.

E una sera, al mio ritorno a casa, ho avuto la riprova irrefutabile che i sussurri nella mia testa dicessero il vero.

«Leda» ti ho chiamato dall’atrio «sono qui»

La mia voce si è frantumata in mille echi fatui, senza che nessuno di essi raggiungesse le tue orecchie. Sono avanzato fino in salotto, lì dove ero solito trovarti, immersa nelle tue letture o nella pittura, in attesa del mio rientro. Non ti ho trovata. Ho continuato allora verso la sala da pranzo, ma tutte le candele erano spente e, nella penombra, l’ampia tavola dove sedevamo ogni sera appariva tristemente spoglia. Mi sono voltato, e dalla soglia della stanza in cui stavo ti ho vista. Avevi le spalle curve, i capelli legati confusamente, gli occhi stanchi, grigi, e un espressione che rendeva il tuo volto… mortale, come quelli che ogni giorno incontravo per le strade del borgo fuori da casa nostra. Tra le braccia stringevi il bambino.

«Sta male» mi hai detto «piange, e si rifiuta di mangiare»

«Passerà» ho risposto, con una durezza di voce che deve averti ferito. Mi hai guardato come mai avevi fatto prima d’allora; mi hai guardato con disprezzo. Ti sei voltata e sei salita su per le scale. È stato in questo momento, Leda, che ho realizzato che non potevo più indugiare.

 

Sono passati ancora alcuni giorni prima che riuscissi a convincere il mio corpo a fare ciò che la mia mente aveva già risolto da tempo.

Il bambino continuava a star male, e tu intanto deperivi insieme a lui. Una notte, stremata, ti sei addormentata con quella creatura tra le braccia. L’istinto diabolico dal quale ero dominato non aspettava altro; sentivo la sua eccitazione morbosa muovere la mia volontà. 

Ho sfilato il bambino dormiente dal tuo abbraccio senza che tu ti accorgessi di nulla; poi ho lasciato la magione in silenzio, uscendo nella notte.

 

Il buio era tremendo, e rendeva ripugnante ogni cosa. Ricordo il profilo marmoreo della Venere danzante al centro della fontana; le sue braccia sinuose si erano trasformate in tentacoli neri e lucidi come anguille, i suoi occhi in due cripte oscure e profondissime. I ruderi che tanto amavi, invece, parevano macerie deformi di un luogo abbandonato, avvinghiati nell’abbraccio asfissiante dell’edera spinosa. Il laghetto in fondo, Leda, brillava di riflessi verdastri tra le maglie della nebbia soffusa. Verso quello si è diretto il mio corpo, mentre stringeva ancora al petto, con delicata premura, il pargolo incosciente.

Ho indugiato per un attimo sulla sponda erbosa, proprio nel punto dove solevi sedere a dipingere le tue tele meravigliose. Da lì ho scrutato il nero pelo dell’acqua, cogliendo i guizzi dei pesci che, come me, non riuscivano a prendere sonno.

Mi sono chinato lentamente, muovendomi silenzioso come tutte le creature della notte. Ho allungato le braccia e spinto il busto oltre la riva. Nelle narici potevo percepire l’odore della terra bagnata e delle alghe in decomposizione. E mentre ancora rimuginavo immobile, la creatura che stringevo tra le braccia ha emesso un singulto e ha sollevato le palpebre. Ci siamo guardati. Aveva i miei stessi occhi neri, sebbene i suoi brillassero di una malizia che mi ha fatto accapponare la pelle.

È stato allora che ho sentito il mio corpo accendersi; ho assistito impotente al soccombere ultimo della mia coscienza, e ho spinto rabbiosamente le mie braccia sotto la superficie scura del lago, nascondendo alla mia vista quegli occhi terribili. Non un lamento è mai emerso da là sotto. Mentre lasciavo annegare la causa della nostra infelicità cercavo il suo volto, ma nulla traspariva da sotto la superficie nera. Solo dopo lunghi minuti ho tirato fuori le braccia dall’acqua. Vedere le sue palpebre nuovamente abbassate ha riempito il mio animo di sollievo. Ho coperto il volto del bambino con un lenzuolo, poi sono tornato indietro, rischiando d’inciampare più volte per l’agitazione.

Sono rientrato in casa e ho ripercorso nel buio la maestosa scalinata che conduceva alle nostre stanze. Ti avrei rimesso il bambino tra le braccia, e tu, addormentata, non avresti mai saputo niente dell’orrore che ho dovuto compiere. Invece, non appena ho messo piede nella nostra camera da letto, ho subito riconosciuto il luccichio dei tuoi occhi nell’ombra; ti eri destata, e adesso mi guardavi con un terrore che mai prima d‘allora avevo riconosciuto.

«Sei sveglia» ti ho detto.

«Dov’è nostro figlio?» hai risposto.

«È qui con me»

Ti sei alzata senza fretta e ti sei avvicinata a me. Avevi già capito tutto, lo sentivo. Eri così  intelligente, tu. Hai teso due braccia tremanti verso il fagotto che avevo al petto e ho lasciato che lo afferrassi senza opporre resistenza.

Di quel che è accaduto dopo ricordo solo l’urlo disumano con il quale hai straziato la quiete di quella notte.

 

Nella mia ingenuità avevo creduto che presto tutto sarebbe tornato a essere come era sempre stato. Che tu saresti tornata a dipingere sulla riva del lago, che il tuo canto sarebbe tornato a rallegrare il vuoto della casa, che il tuo sorriso mi avrebbe accolto ancora al ritorno dai miei doveri nel mondo di fuori. Tuttavia i giorni passavano e tu non eri più in te. Gli strumenti di pittura giacevano abbandonati nella cantina, i tuoi occhi luminosi erano ormai grigi, la tua pelle sembrava colare giù dal tuo viso, e non mi avevi rivolto che poche parole da quella notte terribile.

Una notte mi sono destato di soprassalto. Il mio sonno si era fatto ormai leggero, e ho riconosciuto subito il tonfo del grosso portone. Ho subito tastato il letto alla mia destra, ma sapevo che la mia mano non avrebbe incontrato il tuo corpo. Sono sceso dal letto e ho tirato via la pesante tenda che oscurava la finestra. Guardando fuori, nella luce della luna, ti ho vista fuggire a piedi nudi verso l’alta recinzione che proteggeva la nostra dimora.

Mi sono precipitato giù con l’intenzione di farti tornare indietro.

«Leda!» ho urlato una volta fuori «torna qui» ma non hai voluto darmi ascolto.  Aggrappandoti disperatamente alle piante rampicanti che ricoprivano una porzione delle mura eri quasi riuscita a raggiungere con le mani l’apice della barriera. Io ero ancora lontano, e ti mancava così poco per lasciare il nostro rifugio. Non sarei mai riuscito a riprenderti se, proprio nel momento in cui ti preparavi a scavalcare, il ramo sottile su cui poggiava il tuo piede non si fosse spezzato, lasciandoti a penzolare con solo le dita aggrappate a uno spigolo.

«Lasciami andare» mi hai implorato, mentre ho stretto le mani intorno ai tuoi polpacci magri «voglio andare via da qui»

«Farnetichi, Leda» ti ho risposto «tu non puoi lasciarmi»

«Io voglio lasciarti, mostro!»

Con un ultimo strattone ti ho strappato via dal muro, stringendoti a me. Hai lottato con dita insanguinate, e hai riempito il mio volto di graffi profondi con le tue unghie spezzate.

«Sta’ ferma!» ti ho gettato per terra e mi sono avventato su di te come una furia. Ho percosso il tuo corpo con un sasso, fino a quando non hai avuto più la forza di muoverti e urlare. Il chiarore notturno ti illuminava impietosamente il volto stanco, gonfio, sporco di sangue e terra. Ho avuto compassione di te. Ho lasciato rotolare via la pietra luccicante di sangue, poi ti ho presa in braccio e ti ho riportata dentro. Ho preparato per te un giaciglio in una delle decine di stanze vuote e ti ho legato caviglie e polsi con una corda spessa.

«Rimarrai qui» ti ho detto prima di andar via «fin quando non tornerai in te»

Hai sputato per terra un grumo di sangue e denti, poi nulla più. Resistendo a miei impulsi più bassi ho chiuso la porta a chiave e ti ho lasciata lì, consapevole che avrei trascorso la peggior notte insonne della mia vita.

 

Ci è voluto del tempo prima che rimparassi a stare al mondo. Ti venivo a trovare spesso, mi prendevo cura di te. All’inizio eri come un gatto selvatico, hai disdegnato a lungo la mia presenza. Non appena sentivi la chiave girare nella toppa correvi a rintanarti nell’angolo più lontano della stanza, ringhiando come una bestia e fissandomi da due occhi spiritati. Ho dovuto sovente essere duro con te, lo ammetto; ma talvolta eri così irrequieta, indomabile, così lontana da te stessa da non lasciarmi altra scelta. 

Tuttavia queste mie misure, per quanto a tuo vedere brutali, hanno finalmente dato frutto quando hai deciso di abbandonare quest'indole barbara che mai ti era appartenuta; quando hai capito che non c’era nessun altro che potesse aiutarti, tesoro, e che dipendevi da nessuno all'infuori di me.

«È delizioso» mi hai detto un giorno, mentre ti davo da mangiare il tuo pasticcio preferito «è singolare che un uomo cucini così bene»

«Ho imparato osservando te» ho risposto.

Tu mi hai guardato come non facevi da tempo immemorabile, sebbene i tuoi occhi non conservassero ormai che una copia sbiadita del loro originario splendore.

Hai chinato il capo imbarazzata, sorridendo impercettibilmente. Il mio cuore ha palpitato; oh nessuno, nessuno mai t'ha mai amato come io t'ho amato, mia cara.

 

I giorni passavano, e con essi cresceva la mia speranza. In quella stanza abbiamo ripreso a raccontare delle nostre giornate, e tu mi hai finalmente chiesto di portarti il cavalletto, una tela e i tuoi colori a olio, così che potessi riprendere a dipingere. Il mio cuore era in festa.

«Se solo potessi essere libera di uscire da questa stanza» mi hai confidato un altro giorno «è così monotono, alle volte»

«È per il tuo bene, lo sai»

«Ed è così buio, quando cala il sole» hai detto mestamente. 

«Potrei portarti una lampada» ho detto «così che tu possa dipingere alla sera, e far passare la nostalgia»

Il tuo volto ancora segnato si è illuminato di quella che, al tempo, avevo confuso per gratitudine.

«Sarebbe bellissimo» hai risposto. Nonostante tutto, conservavi ancora il potere di farmi sciogliere innanzi ai tuoi desideri, come brina sul palmo di una mano. Così ti ho accontentata.

 

Quella notte ho lasciato la tua stanza mentre ancora dipingevi. Era il paesaggio di un bosco in fiamme in una notte di luna piena.

«Ancora qualche minuto» hai detto «poi spegnerò la luce e andrò a dormire»

«Certo» ho risposto. Ti sei voltata verso di me.

«Pensavo sarebbe bello fare un giro nel bosco, domani» mi hai detto.

«Presto, mia cara» ho risposto «lo faremo presto» 

Hai riso sommessamente, puntandomi addosso due occhi scintillanti. 

Ti ho salutata e ho chiuso la porta con due mandate di chiave, come facevo ormai ogni sera. Sono rimasto assorto per un attimo, ad osservare distrattamente il riverbero della fiamma della tua lampada penetrare da sotto la porta. Infine mi sono scosso dal torpore e mi sono allontanato.

 

Mi sono addormentato cullato dal dolce, e tuttavia letale, ottundimento dei sensi al quale avevo ormai consegnato il mio corpo e la mia anima. Ricordo stralci di un incubo in cui fuggivo in un intrico di vegetazione, chiarori nell’oscurità, il puzzo del mio sudore.

Mi sono risvegliato tossendo, sull’orlo del mio definitivo avvelenamento. La camera si andava riempendo di fumo grigio, e l’odore di legno bruciato non poteva ingannare: eravamo sotto attacco. Coprendomi il naso con il bavero della vestaglia ho spalancato la finestra, sicuro di incontrare la massa invidiosa dei paesani con torce e forconi, giunti finalmente a distruggere la nostra ritrovata felicità. Tuttavia, Leda, non v’era nessuno nel nostro giardino, né tutto intorno. Il mio pensiero è quindi subito volato a te.

Il grande atrio che s’apriva oltre la camera da letto era appestato dai fumi tossici del fuoco, e più m’avvicinavo alla tua stanza, più crescevano il calore insieme a uno spaventoso bagliore. Ho tenuto aperti gli occhi con uno sforzo immane, e solo quando sono arrivato nei pressi della tua camera mi sono accorto del fatto che la porta che la teneva chiusa non esisteva quasi più, divorata dalle fiamme che l’avevano ridotta in schegge appuntite.

«Leda!» ho urlato «vieni fuori!» 

Una risata isterica si è levata al di sopra del rombo dell’incendio. Veniva da lì dentro. Ho mosso ancora un passo in avanti, rischiando di finire tra le spire infernali che stavano avviluppando ormai l’intero piano. E ti ho vista, Leda, nuda al centro della stanza, con la faccia e il corpo impiastrati di un miscuglio scuro e luccicante, lo stesso che ricopriva le tende sulle quali infuriava il fuoco. Ho riconosciuto subito i tuoi amati colori ad olio, i cui tubetti giacevano rinsecchiti sul pavimento a fianco a una tela annerita, al cavalletto spezzato e all’infranta gabbia di vetro della lanterna. Ti sei accorta di me e fissandomi hai allargato le braccia nere, lucenti di tenebra, e hai deformato la bocca in un sorriso demoniaco.

«è tutto così… perfetto!» hai urlato, prima che le fiamme sfiorassero la tua pelle e incendiassero all’istante la pittura di cui ti eri rivestita.

Ho urlato d’orrore, cadendo in ginocchio mentre il tuo corpo cedeva al volere delle fiamme. Intorno a me tutto crollava, le porcellane e i vetri esplodevano, la mobilia si faceva cenere, i tappeti e gli arazzi persiani diventavano brandelli di pece. Ho pregato il buon Dio di portarmi via con te e con la nostra casa, Leda, ma quando una trave fiammante è precipitata al mio fianco il terrore della morte è stato più forte di ogni mia intenzione. Mi sono alzato sulle gambe e sono corso giù per la scalinata di marmo, attraversando il banco di fuoco che aveva invaso anche l'atrio. Ho spalancato i pesanti portoni della magione e sono corso con le vesti in fiamme in direzione della Venere di marmo, che mi fissava con severità dai suoi occhi di pietra. Mi sono gettato nell'acqua della fontana sulla quale dominava, e da lì, come il più grande dei codardi, ho visto bruciare fino all'ultimo frammento tutto ciò che avevamo sempre desiderato.

 

Da quella notte vago per le strade del borgo, sopravvivendo per la compassione di quella stessa gente che ho sempre disprezzato. Ti sogno ancora ogni notte; tocco i tuoi capelli lucenti, rimiro il sorriso dei tuoi occhi, ascolto il canto della tua voce. E spero tutte le volte che l’illusione possa durare almeno fino al sopraggiungere del giorno; ma il fuoco arriva, arriva sempre, e divampa sul tuo corpo con ferocia straordinaria, trasformandolo in quello di un demone ghignante dal volto di pece e gli occhi d’abisso.

Ad ogni risveglio ancora supplico il buon Dio di prendermi con sé, di sottrarmi al lento martirio al quale tu hai scelto di condannarmi.

Hai ridotto tutto in cenere e per questo non ti perdonerò mai. Ma ti prometto, come ho fatto il giorno del nostro matrimonio, che neppure la morte potrà tenerci separati a lungo. Aspettami Leda, perché tornerò da te. E quando lo farò, tesoro, sarai soltanto, eternamente mia.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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