Sfranz Inviato 24 Gennaio 2021 Segnala Condividi Inviato 24 Gennaio 2021 0) presentazione Ringrazio innanzi tutto Linda di aver creato un cyberspace con questo scopo. Va da sé che in questo mio salotto letterario tutti possono trovar posto. Ci troveranno considerazioni sui libri che ho letto e altre, sempre di carattere letterario, talvolta narratologico, talvolta editoriale. Tanti argomenti trattati in questo e in altri blog letterari o dedicati alle problematiche editoriali e narrtologiche li conoscevo fin dai tempi che frequentavo a Ca' Foscari la facoltà di Lingue e Letterature Straniere presso la quale mi sono laureato in Lingua e Letteratura Inglese: cosa sia la struttura di un romanzo (e quando nasce quest'ultimo), la trama (e sottotrama sia nel romanzo che nel dramma teatrale), il punto di vista (chi l'ha "inventato" o per lo meno ne ha evidenziato l'importanza) e tante altre cosette: a quei tempi (seconda metà degli anni Settanta) circolavano nomi e/o pensieri come i formalisti Russi, Todorov, Barthes,, Frye e compagnia bella: con essi ho dovuto far i conti. Per la storia della Letteratura Inglese mi ha formato il grande Mario Praz che ha portato il saggio a livello artistico. (anche sull'arredamento). Be', non voglio annoiarvi oltre. a ritrovarci. 2 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 25 Gennaio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 25 Gennaio 2021 (modificato) 1 The Writing of Fiction - Scrivere narrativa di Edith Wharton Quando sento parlare di manuali o riflessioni sullo scrivere di grandi scrittori viventi m'imbatto spesso nell'osannato On Writing di Stephen King che io non ho letto. Di King, confesso (senza vergogna alcuna) ho letto poco o niente: Danse Macabre e Le notti di Salem. Non mi attrae King; non dico che non sappia scrivere ma, sinceramente preferisco colei che dev'esser stata in certa misura la sua maestra: Shirley Jackson (1916-1965). E, rimanendo nel genere horror, il nostro ravennate Eraldo Baldini e, perché no?, il caro Pupi (Giuseppe) Avati. Tornando allo scrivere in particolare Narrativa alcuni anni fa, in originale (ma esiste la traduzione del '96 di Pratiche Editrice, ancora reperibile in sei copie rimanenti su Amazon) lessi The Writing of Fiction di quella Signora delle Lettere internazionali che fu Edith Wharton. Riporto più sotto cosa ne scrissi su questo suo libro. Ogni qualvolta leggo Edith Wharton (1862-1937) mi compare davanti agli occhi l’immagine di parole scolpite sulla pietra perché ho la costante impressione che come li ha comunicati ed espressi lei, i concetti, le spiegazioni, i commenti non possano venir comunicati ed espressi in alcun altro modo: sceglie parole così esatte, precise, definitive che non se ne possono usare diverse per dire la stessa cosa. E questo vale sia per la sua produzione letteraria che saggistica. Quando nel 1925 pubblicò questo The Writing of Fiction, alle spalle aveva già una ragguardevole esperienza sul campo, basti menzionare che quattro anni prima, nel 1921, era stata la prima donna a vincere il Premio Pulitzer col suo romanzo più conosciuto: The Age of Innocence. L’autrice inizia il suo libro dando una prospettiva storica: come e quando è nata la narrativa? È nata nel momento in cui i meri fatti vengono interiorizzati, recepiti e filtrati da quello che diverrà il personaggio che si evolverà con tanta maggiore raffinatezza quanto l’autore sarà capace di dargli una sua propria personalità allontanandolo da un lato dal cliché del tipo – si pensi ai caratteri “fissi” della Commedia dell’Arte – e immergendolo e facendolo agire in un dato e preciso ambiente dall’altro. Il personaggio è sempre per la Wharton il risultato dell’ambiente da cui proviene e vive e del modo in cui con questo e con gli altri personaggi si relaziona non diventando in questo modo un entità statica o astratta ma, al contrario, viva e reale. La Wharton prende in esame, illustra e discute tutte le forme della narrativa: dal racconto (short story che sarebbe meglio in questo caso tradurre come “storia breve” per seguire la differenza che lei fa con la “storia lunga,” che chiama con un imprestito dalla nostra lingua, novella), senza tralasciare un tipo particolare di short story di cui lei è stata indiscussa maestra: la storia fantastica, bizzarra e di fantasmi; al romanzo: quello essenzialmente basato sul personaggio e quello basato sulla situazione e l’ambiente; nel primo tutto il contesto i fatti narrati, le situazioni devono concorrere a raccontare la storia, la psicologia del personaggio o dei personaggi principali. Al contrario, nel romanzo d’ambiente (anche sociale) e di situazione tutti i protagonisti devono essere funzionali a narrare, illustrare quell’ambiente, quella situazione. Nulla vieta – anzi i romanzieri più noti e abili lo fanno spesso – che vi siano delle sapienti commistioni tra i due tipi di romanzo. L’autrice tratta anche altri problemi con cui uno scrittore necessariamente si scontra: quelli dei dialoghi e del dar l’impressione al lettore dello scorrere del tempo della storia: secondo lei, il miglior scrittore che ha saputo far questo è Lev Tolstòij (1828-1910). Dei dialoghi non bisogna abusare e servono per mostrare un climax, un punto di alta tensione del romanzo; non bisogna farne eccessivo uso per non fuoriuscire dalla narrativa e sfociare nel genere teatrale. A parte le considerazioni e i consigli tecnici, quanto scritto dalla Wharton e i suoi riferimenti e commenti esemplificativi, ci mostra un modo piuttosto originale di far Storia della Letteratura. Bisogna tener sempre presente, leggendo, che parecchi scrittori da lei citati , quando scriveva questi saggi sullo Scrivere Narrativa, o erano ancora vivi (Virginia Woolf aveva 43 anni e proprio in quell’anno, 1925, sarebbe uscito uno dei suoi romanzi più famosi, se non il più famoso: Mrs Dalloway; James Joyce, stessa età della Woof, tre anni prima, nel ‘22, aveva pubblicato Ulysses), o erano morti da pochi anni: Proust (nel 1922, un saggio sul quale conclude questo libro della scrittrice statunitense), Tolstoij quindici anni prima e nove anni prima, nel 1916, era morto il suo caro amico, collega e connazionale Henry James. Il taglio, si diceva, è quantomai originale e interessante, poiché a parlare dei loro romanzi a far notare dettagli sul modo in cui erano stati composti e scritti non è il critico letterario o il professore universitario di Letteratura di turno (anche famosi, non diciamo di no) ma una scrittrice, ossia una persona che i romanzi e i racconti anche li faceva e sapeva bene, quindi, individuare con esattezza i modi e i metodi che per scriverli i suoi colleghi avevano utilizzato e i risultati cui erano pervenuti nel e per farlo. Al di là della perfida e ironica definizione dei critici data dal drammaturgo irlandese Brendan Behan (1923-1964: si veda: http://www.brainyquote.com/quotes/quotes/b/brendanbeh132621.html), cosa differenzia un critico letterario da uno scrittore? Essenzialmente un foglio: scritto, da dare nelle mani del critico che lo analizzi, interpreti e spieghi, bianco e vuoto tra le mani dello scrittore che lo deve riempire e scrivere. A quanto pare Edith Wharton ha dimostrato reiteratamente di saperlo fare. Modificato 26 Gennaio 2021 da Sfranz 2 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 26 Gennaio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 26 Gennaio 2021 2) Paradossi editoriali Sì, certo, gli editori pubblicano e presentano al pubblico anche eminenti sconosciuti; i quali, magari, cominciano ad avere successo perché, chissà come e per qual ragione, vincono pure un premio letterario ricadendo poi, nel giro di qualche mese (se va loro bene) nell'oblio, passato che è il loro quarto d'ora di notorietà. Se si nota, chi rimane più a lungo alla ribalta e nella mente dell'uomo comune è chi ha saputo farsi conoscere tramite giornali o TV; in genere, appunto, giornalisti che scrivono su quotidiani e/o riviste e che spesso son ospiti da colleghi in trasmissioni più o meno leggere o di approfondimento (come sogliono dire), avendo in questo modo maggiore visibilità. A questi un editore difficilmente rifiuterà un loro dattiloscritto, perché immagina (anzi è sicuro) che, essendo conosciuti se non proprio popolari, questi autori hanno già un parco lettori che li segue e legge, parco che diverrà, quanto mai probabilmente, anche un parco acquirenti dei libri che loro, editori, pubblicheranno. Prova ne sia che - se vi ci si fa caso - la maggior parte di scrittori molto conosciuti dal pubblico sono "giornalisti e scrittori" non solamente "scrittori". Tutto ciò, naturalmente, non si può dire per l'eminente sconosciuto che invia il suo dattiloscritto alle Case Editrici per pubblicarlo e farsi conoscere. Dove sta il paradosso? Sta nel fatto che per pubblicare e farsi conoscere bisogna per lo più... esser già conosciuti. 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 28 Gennaio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 28 Gennaio 2021 (modificato) 3) Scurdemmoce o passato Il concetto è semplice: la continua presentazione di novità librarie se, da un lato, dà un'effimera quanto fugace notorietà allo scrittore di turno, dall'altro fa dimenticare tutti gli altri. Soprattutto quelli che, pur validi e, a loro tempo, conosciuti ora risultano dimenticati. È questo il deleterio effetto dell'inevitabile commercializzazione del libro: favorisce la spasmodica ricerca e rincorsa alla novità non lasciando il tempo al lettore di ritenere ciò che ha letto. Anche da poco tempo: verrà quanto prima scalzato dall'ultimo romanzo, l'ultimo bestseller del famoso autore (che, chissà?, si vede spesso anche in TV), il quale da parte sua, per non rischiare di cadere nel dimenticatoio, di romanzi e di bestseller dovrà sfornarne a ripetizione entro un breve lasso di tempo dall'ultimo pubblicato: diciamo, indicativamente, un anno, un anno e mezzo. Questa è una palese logica commerciale, non culturale. Ed è quella, per forza di cose, seguita dagli editori che sono e rimangono - viene sovente ribadito, tra l'altro, a ragione - degli imprenditori. Ben pochi (se non nessuno) di essi possono permettersi di anteporre e mantenere una ricerca e una produzione culturali senza scadere nel commerciale. Il fatto è che il presente di noi tutti è il frutto e il risultato nel nostro passato. Anche e soprattutto culturale, con i nostri interessi, le nostre letture che ci han formato nel pensiero, nel giudizio, nella nostra attuale visione del mondo. Noi siamo adesso ciò che eravamo e siamo stati e più non siamo perché viviamo il nostro presente. Perciò non scurdemmoce o passato. Non ci conviene. Del resto, col passar degli anni ci renderemo sempre più conto che il passato è ciò che di più nostro ci resta. Modificato 28 Gennaio 2021 da Sfranz 2 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 29 Gennaio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 29 Gennaio 2021 (modificato) 4) Di libri e di chi li fa - Cesare De Michelis È sempre interessante sentire l'altra parte, ossia come la vedono gli editori. E Cesare De Michelis non è solamente l'editore-imprenditore che mira solo a vendere. È stato molto di più! È stato un uomo di cultura, critico letterario e docente universitario. Nel 2016 presso il collega editore Gaffi - che sotto la propria ala ha anche la triestina Italo Svevo - De Michelis diede alle stampe questo bel libretto. Ecco le note che mi son preso. Si sa, già i lettori nel nostro paese non son molti (o meglio, non sono uniformemente distribuiti: c’è chi legge molto, chi pochino pochino e chi niente), figuriamoci se conoscono (salvo i soliti nomi noti) o, addirittura, s’interessano a chi i libri li fa, ossia gli editori che sono di fatto degli imprenditori, per loro natura e caratteristica anomali e fuori dagli schemi dell’imprenditoria tradizionale, sempre in precario equilibrio tra l’imperativa esigenza di far cultura, la quale diviene il riflesso in gran parte delle loro scelte, e le ferree leggi del mercato che non perdonano e non possono fare a meno di influire in maniera più o meno pesante su quelle scelte. Sul solco di questi concetti, Cesare De Michelis (1943-2018), patron della Casa Editrice veneziana Marsilio, in questo suo libretto - Editori vicini e lontani, Trieste, Italo Svevo 2016 (un centinaio di pagine) - raccoglie i suoi interventi via via comparsi dal 1980 sino all’anno scorso su vari quotidiani e periodici. Ne risultano, in pratica, tre storie: una breve dell’editoria italiana a partire dal Settecento; una culturale e del costume letterario Italiani e, benché parzialmente, una della Letteratura vista da un’angolazione particolare e inusuale alla quale non si è abituati e, per questo motivo, senz’altro originale. Sono ritratti - non biografie, intendiamoci - di colleghi, molti dei quali frequentati e conosciuti personalmente. Ritratti che mettono in risalto la figura, gli ideali che han spinto quegli uomini, in primo luogo di cultura, a diventare editori per scegliere testi, scoprendone gli autori, e divulgarli, facendo fronte, non di rado, a pressioni di natura ideologico-politica. L’Editoria più “tranquilla” è quella accademica: lo è sempre stata, avendo, assicurati, autori e un pubblico destinatario che li legge. L’Editoria “Letteraria” è già molto più problematica: un po’ per il pubblico, un po’ per mutevoli valori su cui si fonda una società . Dopo quello che è successo e le rivoluzioni dello scorso secolo, il vacillare se non proprio lo svuotarsi, il banalizzarsi dei valori hanno fatto, in ultima analisi, il gioco dell’Editoria di mercato e commerciale. È tempo di ritrovare, ricostruire quei valori per ritornare ad una Editoria che sappia distinguere i libri che avranno vita breve da quelli che rimarranno; un’editoria il cui basilare principio ispiratore sia quello per cui “È meglio vendere i libri che si fanno, che fare i libri che si vendono”. Modificato 29 Gennaio 2021 da Sfranz 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 1 Febbraio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 1 Febbraio 2021 (modificato) 5) Consigli da Nobel: Lettere ad un aspirante romanziere di Mario Vargas Llosa (Einaudi) Può non essere certamente insolito per uno scrittore di fama internazionale e insignito perfino del premio Nobel nel 2010 come il peruviano Mario Vargas Llosa, sentirsi domandare da aspiranti romanzieri come scrivere, appunto, un romanzo. Ed ecco qui dodici lettere in cui vengono illustrate con dovizia di esempi e riferimenti letterari quelle che sono le tecniche narrative più utilizzate e diciamo, il loro risultato consapevole. Prima di addentrarsi nella disamina dei “ferri del mestiere” nelle prime due lettere Llosa parla del passione e dell'urgenza e, quindi, della condizione psicologica di chi si accosta alla creazione di “un'opera di finzione” come tende sempre a chiamarla. Subito dopo viene affrontato il modo in cui si possono trarre e trovare idee che potranno successivamente diventare quelle opere di finzione. Essenzialmente uno scrittore le trae e le trova dalla e nella propria esperienza di vita. Il resto è tecnica narrativa che lo scrittore deve saper scegliere e padroneggiare se vuole che i propri romanzi e/o racconti abbiano potere di persuasione, siano cioè convincenti e – si presume e augura – piacere ai lettori. Innanzi tutto chiarisce alcuni punti fermi che possono indurre in errore e confondere l'aspirante romanziere (e anche il lettore): chi racconta, narra, le vicende della storia scritta? L'autore, il narratore o tutt'e due poiché questi si identificano son, perciò la medesima persona. Nient'affatto: sono due persone o, meglio, entità diverse e completamente distinte. Il narratore può essere di tipi e, quindi, con caratteristiche differenti e peculiari: può essere anche più d'uno (come, del resto, il o gli autori). Nel far diventare racconto il materiale narrativo, dovrà inoltre misurarsi non solo con la scelta del narratore ma, anche con quella dei punti di vista spaziali, temporali e i piani della realtà narrata, la quale può essere oggettiva o soggettiva, realistica o fantastica o un un impercettibile andirivieni tra ambo i piani. Ci possono essere racconti innestati nella storia principale come ramificazioni o come scatole e cinesi. Dati tenuti nascosti oppure, diversamente dalle scatole cinesi (o matrioske) due episodi che avvengono contemporaneamente e si influenzano reciprocamente migliorando la narrazione non solo sotto il profilo puramente tecnico ma, anche, estetico. Ma ciò che tiene e abbraccia tutto non può che essere lo stile, la lingua, le parole, poiché son queste i reali, quotidiani strumenti di uno scrittore. Alla fine, però nell'ultima lettera, Llosa conclude che “nessuno può insegnare a un altro a creare, ma tutt'al più può insegnargli a leggere e a scrivere. Il resto, ognuno lo insegna a se stesso inciampando, cadendo e rialzandosi incessantemente”. Il che ci rammenta quanto disse Oscar Wilde (1854-1900) nel Critico come artista (1890) a proposito dell'istruzione: “cosa ammirevole, ma ogni tanto ci farebbe bene ricordare che non si può mai insegnare quel che veramente vale la pena di conoscere”. Quanto è vero! Modificato 1 Febbraio 2021 da Sfranz 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 1 Febbraio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 1 Febbraio 2021 6) Phishing letterari Tempo fa segnalai al Blog Webnauta tenuto da Barbara Businaro un articolo neanche tanto vecchio (di poco più di un mese fa: 23 dicembre 2020) riguardante misteriosi fenomeni di phishing letterari. La blogger ha indagato ed ecco qui il suo resoconto davvero intrigante per chiunque ami i libri e sia interessato alle vicissitudini dell'editoria (italiana ed estera): https://www.webnauta.it/wordpress/furto-dei-manoscritti/#comment-42358. 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 8 Febbraio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 8 Febbraio 2021 7) Quante verità in quel mucchio di bugie Leggendo quest’antologia di racconti di Giulio Mozzi, scritti dal 1993 al 2017, ci si accorge immediatamente di non avere a che fare con racconti, diciamo pure, “tradizionali”, con personaggi, drammi personali, analisi psicologiche, situazioni, vicende che accadono e, in un modo o nell’altro, si risolvono (magari con una joyciana “epifania”). Ecco, chi si aspetta questo, chiuda il libro e si rivolga ad altro autore. Chi, invece, vuol continuare la lettura, si troverà davanti ad uno stile trascinante col quale Mozzi lo introdurrà a storie (inventate) di altri e riferimenti (veri) alla propria, il che - dato il titolo Un mucchio di bugie - potrebbe indurre il lettore a concludere che in quelle bugie ci son tante verità. Parlare, poi, di cose private in opere che di solito si considerano “narrative”, non lo fa soltanto Mozzi ma, anche Emmanuel Carrère. Fa, inoltre, pensare al termine autofiction (più che fiction pura e semplice). Può piacere… oppure no. Tornando alle bugie che dicono verità è la caratteristica precipua della finzione letteraria: narrare, raccontare storie di fantasia per mostrare (e, se possibile, far riflettere su) situazioni, condizioni reali. Lo sintetizza molto bene Simone Weil (1909-43): "C'è qualcos'altro che ha il potere di svegliarci alla verità. È il lavoro degli scrittori di genio. Essi ci danno, sotto forma di finzione, qualcosa di equivalente all'attuale densità del reale, quella densità che la vita ci offre ogni giorno ma che siamo incapaci di afferrare perché ci stiamo divertendo con delle bugie." È la funzione della Letteratura, dopotutto. Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 11 Febbraio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 11 Febbraio 2021 (modificato) 8) Sul recensire È inevitabile: quanto si amano i libri leggere anche le recensioni che li annunciano e/o presentano. Leggendole, appunto, si può notare che in genere, hanno una sorta di struttura non codificata ma data da chi le scrive. Enunciano con chiarezza il titolo, l'autore, l'editore e, nel caso, il traduttore del libro (opzionalmente numero pagine e prezzo); ne parlano senza raccontare cosa succede (o appena accennandone vagamente) se un romanzo; cercando uno o più elementi unificanti se, invece, è una raccolta di racconti, evidenziando punti focali e d'interesse se è un saggio su un determinato argomento. Rimanendo sulle recensioni di tipo letterario, c'è da dire che, negli ultimi anni, quelle che si leggono si possono definire sincroniche e autoreferenziali: sincroniche perché considerano l'oggetto della recensione in quel momento come ultima uscita di un certo autore senza quasi mai metterla in relazione e confrontarla con i precedenti frutti del medesimo autore, se non altro per vedere l'andamento evolutivo (o, anche, involutivo) della sua produzione; autoreferenziale perché l'opera o alcune tematiche da questa trattate e svolte non vengono messe a confronto con altre opere di altri autori - contemporanei o del passato - in cui sono presenti; anche in questo caso per vedere se vi sia un evoluzione nel narrare e, quindi, letteraria in senso lato: un esempio a cui accenno soltanto: il cosiddetto "correlativo oggettivo" "inventato" in poesia da Thomas Stearns Eliot (1888-1965) lo ritroviamo in forma narrativa in alcuni racconti di Peter Cameron (per es. Nozze e conversioni e Melissa e Henry - 10 settembre 1983 in In un modo o nell'altro). E questo indica un progresso, una (non importa se grande o piccola) evoluzione in Letteratura. Evoluzione di cui non sarebbe male (anzi, tutto il contrario) informare il potenziale acquirente del libro recensito: avrebbe qualche dettaglio in più su quello che eventualmente comprerà, inclinandolo, magari, a farlo. Modificato 14 Febbraio 2021 da Sfranz 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 19 Febbraio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 19 Febbraio 2021 9) Sui libri Può rivelarsi bello stare con gli amici, stare con i libri lo è sempre. Gli amici passano, i libri no. Gli amici cambiano, i libri no, sono fermi nel tempo e se a una loro rilettura ti sembrano diversi, non sono loro ad esserlo, bensì tu: essi semmai sono diventati "classici". Un amico può tradirti, un libro mai! Un amico può lasciarti, un libro mai, tutt'al più sei tu che lo abbandoni, perché non ti piace, perché ti sei stancato, ma questa, nell'atto stesso della scrittura, non era la sua intenzione, e non lo sarà mai. Né mai se la prenderà con te (o con chiunque) perché l’hai lasciato: sarà al contrario sempre gioiosamente pronto a riprendere il discorso dal punto esatto dove l’avevi abbandonato. Senza recriminare. Detto questo, è piacevolissimo parlare di libri e di letteratura con amici davanti ad una tazza di caffè. 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 26 Febbraio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 26 Febbraio 2021 10) Dejà lu, dejà écrit Non è la prima volta che mi càpita leggendo presentazioni e/o recensioni di libri più o meno entusiaste di quanto presentato e/o recensito, che può essere il frutto di uno scrittore esordiente come di uno affermato. E ciò che provo va dallo stupore all’ilarità passando talvolta per lo sdegno e terminando, invariabilmente, con una rassegnata malinconia. Mi riferisco al fatto che ogni tanto vengono presentati romanzi (o anche saggi) con contenuti che si vogliono far passare per originali novità mentre – in toto o in parte – non lo sono per niente. E se chi ha scritto la recensione avesse davvero letto (e vissuto) abbastanza saprebbe che quell’opera che ha presentato si basa su di un’idea narrativa già sfruttata – in toto o in parte – e che, perciò, originale e nuova non lo è poi tanto. Una volta, pochi anni fa, lessi di un romanzo – di cui ho dimenticato l’autore e il titolo (significativamente) – nel quale il protagonista, in e a certe condizioni, aveva la possibilità di vivere in parte esistenze altrui. Idea originale e nuova? Non proprio: l’aveva già immaginata Julien Green (1900-1998, statunitense ma internazionale; accademico di Francia – unico straniero ad esserlo – dal 1971 al ‘96: quel posto, prima di lui era stato occupato da François Mauriac, tanto per intenderci; visse anche in Italia, a Forlì) col suo romanzo Si j’étais vous del 1947 (Se fossi in te, Macerata, Quodilibet, 2004). Altro esempio? Il simpatico Oracolo manuale per scrittrici e scrittori (Sonzogno 2019) di Giulio Mozzi. L’intento è quello di fornire, in forma oracolare, appunto, suggerimenti a scrittrici e scrittori per stimolare, migliorare la loro produzione. Bell’idea, non c’è che dire. E pure utile! Ma a chi ha una certa età e, ormai, un notevole bagaglio di letture alle spalle, questo libro non può non far venire alla mente quel Il castello dei destini incrociati che Italo Calvino pubblicò nel 1969 in cui, in una cornice da Decamerone, alcune persone inventano storie utilizzando le carte dei tarocchi. Dejà lu, dejà écrit! 2 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 27 Febbraio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 27 Febbraio 2021 100) Un sentito ringraziamento Un sentito ringraziamento a tutti coloro che son passati di qui e uno speciale alla 100esima persona. 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 1 Aprile 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 1 Aprile 2021 11) La Letteratura è intrattenimento? La domanda è di una semplicità sconcertante. La risposta no, perché più articolata. Se si legge per puro divertimento, allora sì, la Letteratura (con la S maiuscola) può esser considerata intrattenimento e, vista in questa e da questa prospettiva, vien alla mente la Letteratura di genere: Polizieschi, Fantascienza, Romanzi Rosa o anche Fantasy, un tipo di narrativa con un pattern fisso e ben consolidato che – con forse l’eccezione della vicenda fantascientifica – non consente tanti voli pindarici nella costruzione delle storie. Ma se, invece, non si legge Letteratura di genere e nel testo letterario si vogliono trovare – anche inconsciamente – altre cose, altri valori che vanno ben oltre la ricerca di momenti di rilassata distrazione, allora no, la Letteratura (con la S maiuscola) è tutt’altro che intrattenimento. È, nel senso più vero, desiderio dell’Uomo di parlare ad altri Uomini per dare il proprio contributo alla comprensione di se stesso e della propria condizione. E questo, magari presentando situazioni e ambienti anche molto lontani e inusitati all’uomo comune. Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Russotto Inviato 1 Aprile 2021 Segnala Condividi Inviato 1 Aprile 2021 Miii Sfranz! Dai un'occhiata a questa discussione: P.S.: non posso che essere d'accordo quasi su tutto quello che hai detto. Quasi perché credo che anche la narrativa di genere potrebbe avere altri valori, credo che basti volerlo. P.P.S: perché? "S" maiuscola? Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 2 Aprile 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 2 Aprile 2021 22 ore fa, Russotto ha scritto: P.S.: non posso che essere d'accordo quasi su tutto quello che hai detto. Quasi perché credo che anche la narrativa di genere potrebbe avere altri valori, credo che basti volerlo. P.P.S: perché? "S" maiuscola? Perché, vedendoci poco, spesso faccio errori di battitura e, anche rileggendo, spesso mi sfuggono. Semplice no? Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 15 Aprile 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 15 Aprile 2021 12) Visita dolente Forse mi sbagliavo io: andare in una ben fornita libreria non può essere sempre una visita entusiasmante e piacevole. Preso da interesse e curiosità, mi appassiona prendere il volume dal titolo accattivante, dalla copertina curiosa, leggerne la parte dove viene presentato il contenuto e poi rimetterlo al suo posto o, se proprio mi piace, riportarne gli estremi bibliografici essenziali sull'app bloc notes del telefonino, quale promemoria per un eventuale acquisto o regalo. Forse mi sbagliavo io, credendo che, essendo finora stato sempre così, avrebbe continuato a esserlo. La delusione l'ho provata guardando lo scaffale dove, in bella mostra, erano esposti i libri col numeretto, indicante - presumibilmente - la classifica di vendita. E lì - povero me ingenuo illuso - lei, la mia amata non c'era. Titoli di romanzi del già conosciuto autore, quello la cui firma la vedi spesso anche sui giornali o sui settimanali e la cui faccia e i cui discorsi non di rado la vedi e li senti anche in televisione in dibattiti e cosiddetti "approfondimenti" che ti lasciano, il più delle volte, più confuso che padrone di nuovi elementi per farti un'idea più completa del mondo che ti circonda. A rinforzo di questi libri c'erano saggi del giornalista o dell'amministratore, dell'esperto incaricato politico, sugli argomenti di più pressante attualità: quelli che ti analizzano il presente, ti svelano segreti, ti vaticinano il futuro... lasciandoti ancora più confuso per non dire sconcertato. La letteratura non era, evidentemente, presente. La mia amata, colei che - lontana dall'enfatico spettacolo pubblicitario - mi sussurra , parola dopo parola, storie fittizie che si rifanno a persone , situazioni, fatti che, chissà, da qualche parte potrebbero e/o possono esser o esser stati reali; sommessa e discreta, lei parla a me, di me, per me, mostrandomi, per quanto può, le cose che restano, non quelle che passano come quello scaffale con la classifica dei libri più venduti che, la prossima volta, tra qualche giorno o settimana quando tornerò nella fornita libreria, non ci saranno più sostituiti da altri, condannati come loro a passare e a non essere più. Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 28 Aprile 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 28 Aprile 2021 13) Teoria del successo Vorrei proprio vedere quale aspirante o esordiente scrittore non vorrebbe essere anche uno scrittore di successo! Senza magari considerare – oltre all'ovvio piacere – la stanchezza, lo stress, i compromessi, i doveri d'immagine che una simile condizione comporta e implica. Non è detto, poi che il successo sia durevole: va riattizzato come il fuoco. Aver successo, inoltre, significa vendere molto o esser letto e conosciuto (anche per effetto dei mass media)? Un po' l'uno un po' l'altro. Esser conosciuti darebbe per scontato un buon numero di vendite (le quali non sono mai d'impiccio, anzi). Dipende. Dipende dal modo e per quanto tempo si vuol esser conosciuti. Si desidera il successo facile, televisivo, mediatico che è il più effimero o si desidera (desidererebbe) essere conosciuti per essere ricordati nel tempo? Comunque sia, tutti gli esordienti vorrebbero veder la loro opera prima trasformarsi i un best-seller: è comprensibile, è umano… ma, a conti fatti, non conveniente (e fors'anche controproducente): tra le prime cose che, con ogni probabilità, succederebbero al neo scrittore di successo (e non necessariamente anche di talento) sarebbe quella di provare , stress, una più o mento intensa ansia da prestazione, andrebbe da sé che il successo dovrebbe essere bissato e, magari in misura maggiore, col secondo libro altrimenti… la felice situazione e l'agognata situazione raggiunti sarebbero inesorabilmente destinati a venir molto ridimensionati nel giro di qualche mese o anno. A ben pensarci, sarebbe meglio fosse l'opera seconda ad avere maggior successo della prima. Può essere sufficiente che quest'ultima presenti e faccia conoscere favorevolmente l'esordiente autore, faccia capire quanto promettente sia. Sarà l'opera successiva che dovrà essere di successo, perché questa se, da un lato, contribuirà a farlo conoscere in maniera più ampia, dall'altro lo consacrerà come scrittore in sé, allontanando il rischio che ai lettori appaia o sia apparso come una fuggevole meteora. Un po' come succede a volte con band e cantanti. Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Desy Icardi Inviato 1 Maggio 2021 Segnala Condividi Inviato 1 Maggio 2021 Trovo i tuoi articoli molto interessanti e utili. Ti ringrazio moltissimo. Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 1 Maggio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 1 Maggio 2021 Grazie a te che mi leggi. È già molto. 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 3 Maggio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 3 Maggio 2021 14) Autofiction Sapevo che, prima o poi, avrei dovuto farlo. Di tanto in tanto, anche radio e televisione lo ricordava agli ascoltatori e ai telespettatori: dall’autunno di quest’anno, con gradualità, ci sarebbe stato il passaggio ad altre frequenze e l’abbandono delle attuali con la conseguenza che parecchi televisori in uso sarebbero diventati inutilizzabili; per vedere se, quello in nostro possesso era abbastanza nuovo da superare il programmato switch, bastava sintonizzarsi o sul canale 100 o sul 200: se si vedeva qualcosa di statico, si era apposto e il cambio non sarebbe stato necessario: se, al contrario, non si fosse visto niente (come capitò a me) bisognava o comprare un televisore nuovo o un decoder da collegare a quello vecchio. Esclusi subito quest’ultima soluzione. Di sicuro era la più economica ma anche quella che avrebbe esatto più spazio, spazio che io non avevo. E poi ritenevo il decoder fosse meglio se integrato nell’apparecchio TV: faceva parte dell’originale progetto ingegneristico del televisore: attaccare due strumenti per quanto l’uno (il decoder) fosse stato pensato per l’altro (il vecchio apparecchio TV) mi dava vagamente l’idea di qualche cosa che non sarebbe durato molto. Forse mi sbagliavo, forse ero eccessivamente prudente o diffidente ma… «I decoder si rompono tutti.», mi confermò il commesso del grande emporio dov’ero andato per l’inevitabile acquisto. Potevo anche pensare me l’avesse detto per farmi spendere di più comprando il televisore anziché il decoder ma, poi, mi dissi che lui, come dipendente, che avesse venduto uno o venti televisori al giorno, a fine mese in busta paga si sarebbe trovata la stessa cifra. Quindi, la sua affermazione poteva essere vera e senza secondi fini. «Preferisco il decoder sia integrato nel televisore», gli dissi io quasi a concludere il suo discorso. Eravamo di fronte al modello che ero intenzionato ad acquistare con uno schermo grande, essenziale, privo di bottoni, nemmeno nascosti. Mi era piaciuto e me lo portai a casa. Appena montato e sintonizzato, provai i canali 100 e 200. Si vedeva un’immagine del test in corso. Tutto a posto. Per un bel po’ non avrò da fare altri cambiamenti. In quello che ho scritto ho parlato dei fatti miei e i fatti miei non vi interessano? È vero e avete perfettamente ragione; ma volete mettere è autofiction. 1 Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Russotto Inviato 3 Maggio 2021 Segnala Condividi Inviato 3 Maggio 2021 Ogni tanto un po'di autofiction ci sta. Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 4 Maggio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 4 Maggio 2021 se piace... Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 6 Maggio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 6 Maggio 2021 15) Fiction, Autofiction e Autobiografia Great art is the outward expression of an inner life in the artist, and this inner life will result in his personal vision of the world. Edward Hopper “La grande arte è l’espressione esteriore di una vita interiore dell’artista, e questa vita interiore risulterà nella sua personale visione del mondo.” Parto da questa considerazione del pittore statunitense Edward Hopper (1882-1967) per fare alcune puntualizzazioni tra Fiction (narrativa), Autofiction (autonarrativa? narrativa autorerferente?) e Autobiografia. Quanto asserito da Hopper può, anzi, va bene per qualsiasi artista, quale che sia l’arte in cui si esprime. La fiction è la narrativa che, tramite storie di fantasia – nella quali può esserci trasfusa e mascherata l'esperienza dello scrittore – ha la pretesa di raccontare storie vere e, soprattutto, credibili quand’anche, si dichiari espressamente fantastica (si pensi alla letteratura fantastica vera e propria, o ai sottogeneri, horror fiaba , fantascienza ecc.) Lo scrittore c’è sempre dietro alle sue storie e ai personaggi che inventa (che possono essere “ispirati” anche a altre persone reali): si pensi a Graham Greene che disse: “I am my books”. L’autobiografia – la parola stessa lo dice – si ha quando viene raccontata la vita di una persona, scritta e, appunto, raccontata da chi l’ha vissuta: si pensi alle memorie di Casanova o del concittadino Carlo Goldoni, per esempio. L’autofiction non è l’autobiografia. Si ha quando lo scrittore (e, quindi, non l’autore o il narratore) entra deliberatamente nella storia (fittizia) che sta raccontando. Ci possono essere varianti ma, credo, sostanzialmente sia così. È un genere letterario? Della fiction, probabilmente, e, può piacere oppure no. Il suo teorico è lo scrittore e critico francese Julien Serge Doubrovsky (1928-2017) e coniò il neologismo non tantissimi anni fa: nel 1977. Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 20 Maggio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 20 Maggio 2021 16) Scrivere e insegnare Tanti vogliono scrivere. È in sé positivo. Altrettanti, se non di più, vogliono insegnare a farlo. E magari non sono, talvolta dichiaratamente, scrittori; al contrario, altri lo sono o lo sono stati. A ben pensarci, è difficile insegnare a scrivere. Tutt'al più si possono suggerire alcune tecniche o sottolineare delle ingenuità o delle sconvenienze. O dare qualche dritta. Perché i testi potranno essere simili ma saranno inevitabilmente sempre diversi. E poi l'animo , le esperienze di chi racconta, sono unici: che gli posso o devo insegnare? Sorge, tra l'altro, spontanea la domanda: se chi insegna a scrivere è padrone di tutte le tecniche, di tutti i trucchi per creare il Romanzo Perfetto che tutti vorranno leggere e che sarà un best-seller, perché invece di insegnare ad aspiranti scrittori il know-how per riuscire nell'impresa (anche e soprattutto commerciale), non ne approfittano per sfornare best-seller a nastro e fare soldi a palate? Da come si atteggiano sembra certo ne abbiano la formula. Eppure... Eppure, sovente, nei corsi di Scrittura Creativa, il docente principale (che magari ne presenta altri) non sembra uno scrittore conosciuto (se va bene un sentito nominare, neanche tanto spesso). Avrà sicuramente pubblicato ma i suoi libri io alla Feltrinelli non li ho mai visti. E vuole insegnare a me? Tutte queste situazioni mi fanno tornare alla mente il famoso detto di GBS (George Bernard Shaw, 1856-1950; do per scontato sappiate chi sia): "chi sa fare, fa chi non sa fare, insegna". (dove l'abbia scritto, cercatelo voi: io ve lo dirò, un giorno o l'altro). Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
Sfranz Inviato 28 Maggio 2021 Autore Segnala Condividi Inviato 28 Maggio 2021 (modificato) 17) Se fossi in te… Julen Green, Macerata, Quodlibet, 2004 C’è qualcosa di pirandelliano in questo Se fossi in te (Si j’étais vous) che l’autore – lo statunitense (di nazionalità, ma anche francese per formazione e cultura) Julien Green (1900-1998) – diede alle stampe nel 1947. Il protagonista – il ventiduenne Fabien Especel modesto, impiegato che passa i suoi giorni espletando la noiosa quanto ingrata e frustrante attività di catalogazione – nelle sue solitarie, spesso serali riflessioni si rende conto che per chi lo conosce egli è una frammentarietà di persone: per il suo datore di lavoro è, appunto, un impiegato, per la madre un figlio adorato con i suoi pregi e i suoi difetti e, per i conoscenti e gli amici è l’idea, l’immagine che questi si sono fatti di lui, idea e immagine che solo in parte (se va bene) corrispondono alla realtà. Quale realtà? La sua realtà? Quanto detto vale anche per lui nei confronti degli altri: come capire l’autentica realtà delle loro esistenze? Egli continuerà a trovarsi di fronte alle loro esteriorità e mai penetrerà, comprendendola, la loro essenza. La stessa cosa, in modo analogo, la fanno gli altri con lui. Come fare, quindi, per capire, comprendere la vita, l’animo altrui? Semplice: essendo gli altri. Facile a dirsi, difficile a farsi! Ecco allora che interviene un altro tema caro alla Letteratura: quello del faustiano patto col diavolo. Va precisato che qui c’è poco di faustiano e molto di patto e di tentazione. E non c’è nemmeno Belzebù, Lucifero o Mefistofele… c’è Brittomart un loro più modesto “subalterno” che, però, ne sa far bene e correttamente le veci… in maniera anche meno formale e truculenta: non occorre la pergamena con gli estremi del patto scritti col sangue: tra gentiluomini ci si intende no: basta la parola. A rigor di termini, poi, non è nemmeno un patto, bensì un “dono” che Brittomart gli fa e che Fabien accetta, potendo così diventare chiunque egli vorrà. Per cambiare identità bastano le giuste parole sussurrate all’orecchio di chi si vuole essere. Le persone con le quali Fabien decide di identificarsi (in tutto e per tutto) sono nell’ordine: il suo capo, un incolto violento che assassinerà una giovane donna, un intellettuale con poco senso pratico e… sì anche un bambino. Ma con quest’ultimo la formuletta del passaggio d’identità fa cilecca e non funziona. Fabien deve prender atto che lui potrà entrare in persone che hanno perso l’innocenza e che, al cospetto di questa, i poteri conferitigli da un accordo demoniaco nulla possono. Julien Green parallelamente ai temi di cui si è finora parlato, per tutto il romanzo affronta quello da sempre trattato nella sua narrativa ossia quello della Fede, del Peccato e della Tentazione, Peccato e Tentazione che, per lui, sono sempre di natura sessuale: perché il piacere dev’essere considerato peccaminoso e, come tale, proibito, castigato e represso? Perché dev’essere considerato un Male? È così naturale e umano… È strano (oppure in qualche maniera significativo) che Fabien non abbia mai desiderato essere una donna. Nella seconda parte del romanzo, cambia il punto di vista. Non è neanche più strettamente maschile. Élise è una giovane nubile che vive in quel che resta di una famiglia cattolica osservante tenuta amorevolmente a bacchetta dal vecchio zio Firmin: Élise è innamorata di Camille, marito della cugina Stéphanie. È un amore impossibile, peccaminoso, inconfessabile e inconfessato. Ma, proprio perché è innamorata, è la prima della famiglia ad accorgersi che il comportamento di Camille è… cambiato. E questo cambiamento si paleserà sempre di più tanto da rendere il buon e osservante Camille un inaudito ribelle che abbandonerà il tetto familiare alla ricerca di… E qui lascio al lettore scoprire il finale e trarre la morale, il messaggio, se si vuole, di questo romanzo. che, a mio modesto avviso è che la noia, la frustrazione, l’ipocrisia, l’impossibilità di esser se stessi senza inquietudini o preoccupazioni etiche e religiose le si trovano nella maggior parte delle persone e che perciò tanto vale essere e rimanere quelli che si è senza desiderare di essere qualcun altro. Anche potendolo, per evitare di trovarsi in situazioni peggiori da quella da cui si era partiti. Modificato 28 Maggio 2021 da Sfranz Link al commento Condividi su altri siti Altre opzioni di condivisione...
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