Cerca nel Forum
Mostra risultati per tag 'romantico'.
Trovato 31 risultati
-
Trama: Una corona vacante, un regno da riportare ai suoi antichi splendori, una principessa scomparsa, un re malato e un ragazzo in cerca di stabilità e riposo; è stanco di percorrere il regno in lungo e in largo dando la caccia a mostri ed ombre che ogni giorno infestano il regno, invadendo villaggi nutrendosi dei suoi cittadini già ridotti a fame, freddo e povertà. La vita della diciannovenne Kaylye scorre normale, apatica e monotona. Basta a sé stessa. Non ha bisogno di nessuno e non vuole nessuno, perché nasconde dei segreti pericolosi che potrebbero mandare in rovina la vita del suo villaggio. Se chi regna illegittimo su trono di Shadowland scoprisse che sa controllare gli elementi della natura potrebbe essere la fine. Torture, incantesimi... farebbero di tutto per scoprire come ottenere le sue capacità. Un'opportunità, un'occasione unica le si presenta, quella che aspettava da tempo, migliorare le condizioni del suo villaggio, se non fosse per quel ragazzo, che comincia a mostrare un sincero interesse per lei. I Giochi d'Inverno sono l'unica possibilità che ha al momento per cambiare la vita di tutti quelli che ama, e del ragazzo che ogni singolo giorno dal loro primo incontro non smette di renderle la vita più bella. Questa scelta impulsiva la condurrà verso l'avventura più pericolosa di tutta la sua vita, fino alle origini del suo passato, verso il segreto più inaspettato. Il suo coraggio, unite all'abilità per le armi ed il combattimento le daranno accesso al raffinato mondo della Corte Reale; si lascerà trascinare dal suo carattere ribelle ed indomito acquisito vivendo tra i boschi e le radure al villaggio oppure saprà mantenere la calma e reggere di fronte a spietati nemici e lotte infinite per la giustizia? Kay arriverà a scoprire la verità su sé stessa, sulla sua vera identità, sulla propria famiglia; scoprirà la potenza dell'amore, del coraggio, della bontà e della fede. Tag: hefallfirst slowburn forcedproximity avventura Hungergames medioevo principi royalty foundfamily magic Witch monsters
-
Che caratteristiche hanno i libri più famosi del Booktok?
-
- Titolo: Emozione e verità - Autore: Margherita Fasano - Editore: Le Mezzelane - Ringworld - sci-fi&fantasy - Genere: Romanzo narrato da diversi punti di vista - N° di pagine: 462 - Link per l’acquisto: https://negozio.lemezzelane.eu/prodotto/emozione-e-verita-ebook https://negozio.lemezzelane.eu/prodotto/emozione-e-verita-carta https://www.amazon.it/Emozione-verità-Margherita-Fasano-ebook/dp/B0CCCH2G1F https://www.mondadoristore.it/Emozione-e-verita-Margherita-Fasano/eai978883328736/ https://www.libraccio.it/libro/9788833287362/margherita-fasano/emozione-e-verita.html https://www.ibs.it/emozione-verita-libro-margherita-fasano/e/9788833287362?queryId=76ab541f2a2791b9562eefac8fa411ac - Trama Angelica, una ragazza di sedici anni, incontra l’eccentrico Zacabrio, che le propone un patto: diventare bella rinunciando alla sua sensibilità. Dopo aver accettato, Angelica scompare come voce narrante, ma la sua presenza trascina il diciottenne Rodolfo nei primi pensieri amorosi. Nel frattempo, Claudio, un compagno di classe di Rodolfo, conosce Salvatore, di cui si innamora a prima vista. Claudio si è trasferito a Roma, città in cui è ambientato l’inizio del romanzo, con l’intenzione di entrare in seminario, ma questa attrazione improvvisa mette in crisi la sua fede. Le vicende, narrate dal punto di vista dei personaggi, coinvolgono anche due professori liceali (voci della Filosofia e della Fisica). I cinque protagonisti partono per la gita scolastica, nel corso della quale, per motivi diversi, si addentrano in un labirinto e vengono proiettati in un misterioso mondo fantastico. Ricchissimo dal punto di vista narrativo, “Emozione e verità” è sospeso in una dimensione speculativa e fantastica che lo rende godibile sia per chi ami il dialogo filosofico sia per chi desideri divagarsi con una narrativa non banale. Per ulteriori informazioni: https://margheritafasano.wordpress.com/2023/07/20/emozione-e-verita/
-
- fantastico
- narrativa
-
(and 2 più)
Taggato come:
-
Vangelo di Luca BFV Piovasco pubblicato da: Passerino Editore (ed. a pagamento), La Bottega della Polvere (ed. libera) genere: storico, poesia, religioso. 68 pagine dal sito dell'autore: Vangelo di Luca BFV - PIOVASCO (weebly.com) da Kobo: Vangelo di Luca BFV eBook di Piovasco - EPUB | Rakuten Kobo Italia da amazon: Vangelo di Luca - BFV eBook : Piovasco: Amazon.it: Kindle Store Questa versione del vangelo di Luca nasce e si sviluppa con l’obiettivo di diffondere la buona notizia. In copertina trovate scritto BFV; è chiaramente un acronimo per il quale potete sceglierne liberamente il significato da attribuire, io consiglio “brindisi fazzu version” o “bibbia fu vitale” o “bibbia flilastroccata versatamente”, insomma “beh fate voi” secondo il vostro grado di spirito e di spiritualità, potete anche inventare altri significati da attribuire sempre nel rispetto e nei limiti forniti dall’educazione di cui siamo equipaggiati. Lungi da me il voler essere blasfemo o irriverente verso la sensibilità di ognuno, ma lungi da me anche i buontemponi, i perditempo, i bigotti e i sepolcri imbiancati. Auguro comunque a tutti una buona lettura e un fruttuoso incontro con Gesù il vivente, il rivoluzionario, la fonte di acqua viva. Piovasco nasce il 24.01.86 a Reggio Calabria che è la città in cui vive con la sua famiglia. Appassionato di esseri umani, dei loro visceri e dei loro pensieri, si guadagna da vivere come collaboratore clinico degli aggiusta ossa, sostiene di non essersi mai annoiato in vita sua, sonnecchia nel tempo libero. Scrittore per una naturale propensione a inventare storie assolutamente vere.
-
Titolo: Loser Autori: Laura Donadelli e Andrea Cattaneo Editore: Self Genere: commedia romantica N° di pagine: 274 cartaceo flessibile Link per l’acquisto/download: https://amzn.eu/d/3tJ4KiM Estratto e Trama: L'amore al tempo del liceo è una cosa complicatissima, difficile da riconoscere, da confessare e da gestire. Soprattutto se è amore verso un adulto, un tuo professore, come nel caso di Elsa che ha l'ambizione di poter conquistare tutto nella vita, compreso il professor Scafiddi. Per Arturo invece è tutta un'altra storia, per lui l'amore è solo una delle tante cose da scansare come tutti gli altri impegni che la sua vita di studente gli impone. Lui vuole vivere sullo sfondo, senza che nessuno lo noti e lo disturbi, senza rischiare altre delusioni e sofferenze come quella causata da suo padre che l'ha abbandonato da piccolo. L'unica cosa che hanno in comune questi due ragazzi è che frequentano la stessa scuola e sono in classe insieme ma, essendo agli antipodi, si detestano a vicenda, sono nemici dichiarati. Ad aumentare gli attriti tra i due ci penserà il professor Scafiddi che ha promesso alla madre di Arturo di aiutarlo ad evitare la bocciatura e lo fa affiancandogli Elsa (che accetta per i suoi secondi fini), l'insegnante migliore possibile, la prima della classe. Per i due l'appuntamento è fissato tutti i pomeriggi, nella biblioteca della scuola tra amori che nascono, incomprensioni, fraintendimenti e quell'assurda convinzione che tutte le possibilità del mondo siano aperte che si prova solo negli anni del liceo.
-
- per ragazzi
- romantico
-
(and 2 più)
Taggato come:
-
- Titolo: Pandora - Autore: Daniele Marcone - Editore: Echos edizioni - Genere: Romanzo storico - N° di pagine: 168 - Link per l’acquisto/download: in arrivo - Trama: Alla fine del XVIII secolo, a Marsiglia, le divergenze ideologiche e caratteriali portano i fratelli Jean e Arthur de la Fère a separarsi, nel giorno in cui la Guardia Nazionale conquista i tre forti di Marsiglia, tra i quali il fort de François I, all’interno del quale si trova la chiesa di Notre-Dame-de-la-Garde, tanto cara ai fratelli. Per far fronte ai problemi economici della famiglia, Jean intraprende un viaggio in mare a bordo della nave negriera Pandora, ignaro della sorte toccata al fratello, che lo condurrà dapprima in Africa, dove troverà l’amore, e poi, dopo una sofferta traversata, a Saint-Domingue, nei giorni di ribellione degli schiavi. La speranza di Jean, degli schiavi e perfino degli antagonisti, ci condurrà fino a Parigi nei giorni della Rivoluzione.
-
TITOLO: Lo specchio dell'anima AUTORE: Elena Inuso EDITORE: Leonida Edizioni GENERE: Narrativa contemporanea N° DI PAGINE: 232 LINK PER ACQUISTO: https://www.lafeltrinelli.it/libri/elena-inuso/specchio-anima/9788833740478?awaid=9507&gclid=EAIaIQobChMIs9uUvu2a7QIVCrh3Ch0O4g0kEAYYASABEgLdR_D_BwE&awc=9507_1606209876_d0785f3aa30aa68316f3987e0129559e (e tutti gli altri store online) PREVIEW SCARICABILE: https://www.amazon.it/Lo-specchio-dellanima-Elena-Inuso/dp/8833740471/ref=tmm_pap_title_0?_encoding=UTF8&qid=1614336223&sr=8-1 TRAMA: Il romanzo tratta di due diverse storie: quella di una bambina, Gemma, che affronta il fallimento del matrimonio dei propri genitori cercando di mantenere la gioia di vivere, nonostante la distanza del padre e l’instabilità di una madre profondamente infelice; e quella di una giovane donna, Angela, che prova a distruggere piano piano la sua corazza di ghiaccio permettendo a un ragazzo appena conosciuto di farle scoprire cosa significa amare e fidarsi di qualcuno. Due storie apparentemente sconnesse, ma che poi si legano inesorabilmente rivelando un trauma nascosto e una sconvolgente verità, la quale porta con sé la speranza di una rinascita, di una riscoperta di sé e delle proprie potenzialità BOOK TRAILER: Grazie per l'attenzione
-
*** Inquisizione (parte 1/2) Ogni tanto me lo chiede, tra le battute di un discorso d’altro tipo oppure nel mezzo d’una tirata contro qualcuno che quasi sempre non conosco. È una domanda spinosa. Una di quelle che sottintendono altro. Me la pone non perché le interessi sul serio la risposta, pensavo, ma per solleticare una reazione. Reazione d’orgoglio, di possesso, da gorilla maschio che batte i pugni sul petto. La cosa è più complessa. Ma a te darebbe fastidio se lo facessi? Dove facessi è la figura retorica per postassi foto svestita su Instagram. La risposta va scelta con cura e calcolo strategico. Non puoi dire sì, perché è quel che vuole sentirsi dire. Non puoi dire no, perché è quel che vuole sentirsi dire. Devi stare nel limbo. La parola chiave da usare, quella che sbatto lì in evidenza, a caratteri cubitali e grondanti Inquisizione Spagnola, è DIPENDE. La sua replica è sempre la stessa. “Dipende da cosa?” Guido nel traffico per accompagnarla a casa, che stasera non può stare da me. Siamo partiti dal commentare le frasi boriose sotto ai fashion post di una stra-bocciata dell’altra quinta e di colpo, tra un momento di gloria e l’altro, è arrivata la domanda. Quella domanda. Ma a te darebbe fastidio se lo facessi? Respiro a pieni polmoni. Mi vien da sorridere ma non bisogna MAI sorridere davanti alla domanda, quella domanda. Mai. “DIPENDE.” “Dipende da cosa?” Mi guarda come fanno i gatti con gli oggetti curiosi, quelli che non sanno come gestire, se prenderli o se finisce che scottano. Giorgia ha tutte le espressioni del repertorio dei gatti. “Allora, innanzitutto da quanto ti devi svestire.” “Ma solo un po’, ti pare, mica nuda.” “Poi dipende da cosa ci devi fare.” “Che vuol dire?” Qui le parti s’invertono. La gatta non sta più studiando l’oggetto misterioso, è l’oggetto misterioso che sta studiando la gatta. E nel gioco all’Inquisizione Spagnola non si dice mai di sì o di no, si gira intorno al concetto. “Vuol dire che, se mi chiedi una cosa del genere, è perché c’è un motivo per il quale vuoi farla.” “Ma io non ho detto che voglio farla, ho solo chiesto se ti darebbe fastidio.” Mai dire sì, mai dire no. “Allora te l’ho detto, dipende.” “Sì, e questo l’ho capito.” “Allora bon, siamo a posto, no?” “Eh, no, io ti ho risposto ma tu a me no.” Nel gioco dell’Inquisizione bisogna essere pronti a ricominciare il giro della ruota dentata. “Giorgina, lo schema è semplice. Dipende. Da quanto ti svesti e da cosa devi farci con quelle foto.” “Ma solo metterle su Insta.” Nel gioco dell’Inquisizione, poi, occorre avere in mano tutti i dati per capire dove stia veramente il punto della questione. Una volta inquadrato, ci si può giocare intorno con vari strumenti del mestiere. Bisogna fare delle premesse. Giorgia è veramente una bella ragazza, ma veramente, però con quel tipo di bellezza artistica, ricercata, che ha poco a che spartire con l’ostentazione gratuita e selvaggia delle influencer sue coetanee. Ha un fisico esile, snello, adorabile, ma non è prosperosa o lavorata come quelle che invece così ci nascono e possono sbrodolarlo al mondo. “Ma su Insta hai già diverse foto in costume da bagno, non vanno bene?” Mi guarda come fanno i gatti di fronte agli oggetti misteriosi e patetici. “Avrò quindici anni in quelle foto?” “A parte che non è vero, ma anche fosse, non vanno bene?” “Vabbé, ma adesso sono molto meglio, no?” Altro ferro inquisitorio che punzecchia tra le costole. Occorre risposta a effetto parabolico. “Guarda che se t’avessi conosciuta prima, con quelle foto là, io ti portavo via alla Bonnie e Clyde, che me ne frega a me.” Sorride, alza gli occhi, me la tiro vicino mentre siamo al semaforo, le stampo un bacio sulla guancia. Lei torna composta sul sedile, si riaggiusta i capelli tenendosi quel sorriso un po’ seccato un po’ sognante; gongola senza darlo a vedere, ma io lo vedo, lo so, la conosco. È bella, bellissima, di quella bellezza artistica. Giorgia lo sa, ci marcia, ci sguazza, ma a volte se ne dimentica e credo che una parte di lei invidi quelle sue coetanee che sbrodolano corpi formosi alla rete, per quanto sia come buttare molliche di pane in un laghetto costipato di trote. Il maschio medio in rete è una trota che si agita e morde per arrivare al pane per primo. E so, sono sicuro, che una parte di lei desidera essere quella mano che getta le molliche. Solo non ha il coraggio di farlo. Per questo lo chiede a me, il coraggio. Per questo pone la domanda, quella domanda, lanciandola in mezzo a un discorso che non c’entra, tirandola come una mollica all’unico storione del lago. Il problema è la risposta che cerca. Vuole il sì per sentirsi legittimata a farlo, vuole il no per sentirsi amata al punto da negarsi questa ambizione. “Senti,” scandisco dopo un paio di minuti buoni che nessuno parla più e anche il traffico s’è diluito, “Per te questa cosa è importante?” Sospira, alza di spalle. “Ma no, figurati, è solo per dire.” “Ah, boh, okay.” Regolo l’aria condizionata. “Perché avevo un’idea, ma vabbé, se non è importante meglio così.” Occhi di gatto si spostano inquisitori sulla mia sorniona figura. “Che idea?” “Ma niente, figurati, è solo per dire.” “No, adesso me lo dici.” Mischiare il gioco dell’Inquisizione con quello del tira e molla è un’esperienza che tutti dovrebbero provare, almeno una volta nella vita. Soprassiedo in nome della diplomazia. “Te lo voglio dire sinceramente, Jo: secondo me tu non hai bisogno di ostentare niente, sei sexy con qualunque cosa indossi, cazzo, anche con la tuta da casa. Non hai bisogno di mettere su Insta foto strane, davvero.” “Sì, vabbé.” “Però, se mi fai finire, secondo me potresti fare qualcosa di artisticamente bello senza scadere nella banalità noiosa e pallosa di tutte le migliaia di cretine che si fanno profili zeppi di foto banali solo per far vedere tette e culi.” “Ma tipo?” “Cose che valorizzino la tua bellezza senza scadere nella banalità.” “Sì, ma tipo?” È il momento di usare il ferro inquisitorio di rimando. “Ti fidi di me?” Espira, s’appoggia al sedile, la finta espressione seccata che è mista a un mezzo sorriso. “Dipende.” “Dipende sta gran ceppa. Ti fidi o no?” Espira di nuovo, ancor più seccata e ancora più sorridente. “Dimmi che idea è.” “Te l’ho detto. Fare delle foto che siano belle, sexy, ma composte. Niente esibizioni gratuite e banali che tanto fanno già tutte.” “Ma io non sono come tutte,” anche il tono, adesso, è decisamente felino. “È per questo che non voglio che tu faccia cose banali. E soprattutto, una ogni tanto, per le occasioni speciali, in modo da distinguersi e farsi desiderare. E sia chiaro che il fotografo sono IO.” “Ma se non sei capace.” “Hai un telefono della madonna, per fare una foto decente basta avere il pollice opponibile. Ci stai?” Ride, fissa avanti, mordicchia le labbra. “E se mi vergogno?” “Eh, ciccia, non è che posso decidere io per i tuoi dubbi esistenziali.” Ridacchia di nuovo, prende un po’ di colore sulle guance, ciondola, guarda la strada. “Facciamo una prova, allora, e poi vedi se ti piace o no.” Occhieggia, molto più coinvolta di quanto cerchi di nascondere. “Dai, va bene.” “Sicura?” “Sicura.” “Allora io domani vado a ordinare un paio di cose per la foto che ho in mente, sabato vieni da me e la facciamo.” “Un paio di cose cosa?” “Un artista non rivela mai le sue idee prima del tempo.” “Ma dammi almeno un indizio.” “Cosa piace a tutta Italia e che sta per tornare?” Mi guarda come fanno i gatti. “Cioè?” “Ciao, Giorgina, siamo arrivati.” Fermo davanti al suo portone. Non dirò una parola di più, ferri o non ferri dell’Inquisizione. ***
-
*** Discromia “Lettura interessante?” Il tono è di lieve sfida ma non lo afferro. Esco dall’impasse del libro che fisso in copertina da svariati minuti, sbatto le palpebre, sollevo due occhi straniti. Roberta mi guarda come si guardano le macchie di tinteggiatura sugli stipiti delle porte. Ha uno dei suoi abbinamenti di camicetta e jeans, un cardigan cappuccino, il caffè delle dieci in mano. Penso a una risposta di circostanza e assieme che non mi ha mai rivolto la parola in tre anni che lavoro lì. “È un regalo,” sentenzio dopo un’indecisione prolungata. Lei occhieggia con due iridi scure e penetranti, ricontrolla la copertina del libro e poi me con la medesima circospezione. “Il mito di Lancillotto? Sul serio?” Pausa. “Non sembra neppure un romanzo.” “È un saggio.” “Pensavo fosse un regalo.” “È un saggio in regalo.” “Un regalo di?” Prendo un respiro più lungo e torno a fissare la copertina col cavaliere disegnato in stile arcaico. “La mia ragazza.” “Ragazza, adesso.” Non centro il punto della frecciata o lo manco di proposito. Roberta sorride senza lasciarmi tempo di replicare, alza le sopracciglia curatissime, si scosta e riprende la via del suo openspace. Il mito di Lancillotto rivive in tinte violente, per un momento, dietro le retine. *** Sono passate le cinque. Dovrei spegnere, andare, la giornata è finita. Lei non s’è mossa dalla postazione. Di solito è tra quelle che, alle 17 spaccate, è già in piedi con la borsa in spalla e nessun tipo di saluto al resto del branco umano: stasera è ancora lì, seduta al pc, che muove il mouse in circolo, senza staccare gli occhi dallo schermo. Non ne ha bisogno. Cerco un grugno che non ho nello scarno repertorio, mi alzo, cammino spedito. Appoggio Il Mito di Lancillotto sulla sua scrivania, mi siedo nella postazione vuota accanto. Il suo sguardo al mascara arriva dopo un lungo e calcolato istante d’indifferenza. “Mi spieghi, per favore?” Roberta sbatte le palpebre, guarda il cavaliere, guarda me. Sento il tocco di quelle iridi fin sotto la pelle. “Spiegarti cosa?” “Perché hai detto… Ma poi cosa ne sai?” “Niente, solo quello che ho sentito dire.” “Cosa hai sentito dire? Da chi?” Sorride con solo un lato della bocca, un’increspatura quasi impercettibile sulla linea marcata delle labbra. Poi inarca le sopracciglia e allarga un sorriso da squalo. “Ma te ne vergogni, quindi?” “Io non…!” Osservo intorno, allarmato, a quelli che se ne vanno con più o meno clamore e i pochi che restano per lo straordinario, sparsi qua e là tra le scrivanie. “Di che stai parlando?” “La tua ragazza.” “E allora?” “Tu stai con una che va al liceo?” Vago le iridi e in ogni alcova del campo visivo c’è un cavaliere lanciato alla carica. “Che ne sapete voi?” “Mai sentito parlare di social network?” “Io non li uso mai.” “Tu no, forse.” Un brivido irrazionale passa tra schiena e reni. “Ma cosa ve ne frega, a parte tutto?” “Niente, infatti. Solo che non puoi chiamare una cosa come quella ragazza. È offensivo, capisci?” “Offensivo per chi?” Non replica, manca qualsiasi forma di vergogna nel suo curatissimo appeal. Spegne il pc, prende lo smartphone, controlla l’agenda, inclina il capo. “Stasera ceno al Nardò, ore 20.” Scuoto il capo senza aver realmente capito il senso della frase. “Cosa?” “Sono disposta a continuare lì questa gradevole conversazione.” Il mondo sta andando verso il baratro e non sono stato informato. Roberta prende con due dita la copertina del saggio, volta il libro sottosopra con un gesto lento, studiato, poi si alza. “Ore 20. Mi raccomando, odio i ritardatari.” *** L’atmosfera del Nardò è ovattata, calda, straniante. Del tutto diversa dai posti caotici e popolari dove, quando non posso evitarlo, Giorgia si fa portare a celebrare circostanze immaginarie. Gli avventori non sono quelli consueti, scorciati dalle notizie non confortanti degli ultimi giorni. Roberta mi guarda come si guardano certe infiorescenze dai colori sgargianti. Ha un viso curato, dai tratti decisi e sfiorato dal tocco dell’abbronzatura artificiale. I capelli, lunghi, castani e impreziositi da un sobrio shatush, le cadono ondulati dietro le spalle. Il rossetto, tenue, ne esalta le labbra ovali. Ha passato i trenta ma ha una bellezza da qualche anno in più. Non ci siamo mai parlati una singola volta in tre anni e ora siamo allo stesso tavolo del Nardò, davanti a un antipasto d’uva e crema di parmigiano. “Non è che si parli di te,” commenta senza enfasi, come amministrasse una delle sue conference-call, “Ma qualcuno l’ha detto e chi ha voluto ascoltare l’ha fatto.” Qualcuno s’è preso la briga di fare lo scoop che Giorgia va a scuola. Una cosa da servizi segreti. Capisco ora il saluto di Edoardo, stamani, con bestemmia e tu sei un uomo fortunato. Ha cinquant’anni, pensavo a demenza precoce. “Ascolta,” non sopportavo il mio ufficio prima, lo tollero ancor meno adesso, “Non ce l’ho con te, ma gradirei vi faceste i fatti vostri. Tutti.” “È per questo che siamo qui: una cosa senza interferenze.” “Una cosa che cosa?” Roberta alza appena di spalle, il vestito da sera, blu scuro, ne tratteggia i contorni. “Ci tenevo a chiedertelo: cosa ci trovi in una come quella?” Il gusto acidulo dell’uva e quello nebuloso del parmigiano. È un gioco d’incastri che funziona a metà. “Molte cose. Devo fare l’elenco?” “Mi renderesti felice.” Vedo distintamente il tunnel buio verso il quale marcio a tappe forzate e non so come invertire la rotta. “Primo: non è una donna stressata da un lavoro che non s’è scelta o una vita che non è quella dei suoi sogni.” “Non ancora. Non è neppure una donna, a dirla tutta.” “Non sai nulla di lei.” “Sono tutt’orecchi.” C’è un fastidio che sale dal basso ma latita a palesarsi. “Secondo: non ha la pretesa di comandare in casa mia o di dirmi come devo vivere la mia vita.” “Quante donne hai conosciuto che lo facessero?” Il fastidio vaga in spirali concentriche. “Terzo: sto bene con lei.” Roberta sorride, da prassi, riempie i bicchieri di Franciacorta con un gesto elegante. Il modo in cui si protende in avanti, garbato, nasconde un sottile divertimento. “D’accordo, questa era la parte politically correct. Ora vorrei quella più,” prende un mezzo sorso dal calice, “Sincera.” So e credo sia tutto surreale. Illogico. “Dove stiamo andando?” “Non lo so. Ma sembra un viaggio interessante.” “Senti, Roberta…” “Roby.” “Roby. A me sembra tanto che questo gioco stia andando oltre.” “Non va da nessuna parte che tu non voglia.” “Allora non parleremo ancora di Giorgia.” “Come ti ha accalappiato, esattamente? No, non me lo dire.” Si china di più, il tono abbassato a un sussurro complice. “Completini intimi di pizzo.” “Roby.” “Dai, dimmelo,” minimizza, “Stiamo solo giocando.” Il fastidio è entrato in un curioso loop attorno allo stomaco. Espiro a metà tra dubbio e fascino dell’ignoto. “Completini sportivi. Li adoro. E le stanno alla perfezione.” Lei sorride sorniona, ravvia i capelli. “Allora,” mormora aggiustando la scollatura, uno scorcio fugace del reggipetto nero ricamato, “Ho sbagliato outfit.” C’è dell’assurdo ma è un assurdo che tocca i tasti corretti sulla combinazione di corpo e anima. “Dimmi di più,” poggia la gota su un indice e la malia striscia e s’insinua: ho difese progettate per assalti meno subdoli. “Amo la sua schiettezza, in tutto.” “È disinibita?” “Dipende. Ma è perfetta così.” Lei vaga lo sguardo, distratta da dettagli che sfuggono alla mia attenzione, poi mi fissa e di nuovo qualcosa affonda tra le costole e il respiro. “Sai, mi ero fatta un’idea di te del tutto sbagliata.” Sorso di vino bianco. “Pensavo fossi uno Scolorito.” “Uno Scolorito.” “Quelli che,” esita, “Hanno preso la strada dell’apatia, del non c’è più niente al mondo che mi faccia sorridere. Quelli che,” accenna intorno, “Sono ormai diretti al purgatorio e non se ne rendono conto. Sono una moltitudine.” Mi sfugge un sorriso pleonastico. “Davo questa impressione?” “Sfortunatamente. Ma sapere che ti diverti con una ragazzina, e che credi veramente in quello che fai, beh… Cambia la prospettiva.” “Questa cosa del purgatorio mi turba.” “Io sono su quella strada. Sono una Scolorita.” Umetta le labbra e si colora d’una tinta più opaca. Gli occhi sono freddi come il marmo. “Non c’è quasi più niente che mi dia soddisfazione.” Sorride del mio sguardo allucinato. Il cameriere si presenta con la prima portata. *** L’aria notturna è fresca, più di un ordinario settembre. Roberta chiude il suo SUV, guarda me e poi il portone del suo civico. “Lo lascerò socchiuso.” In quegli occhi scuri, profondi, ci sono guerre che hanno scordato da tempo i rispettivi casus belli. Saluta con un cenno leggero della mano cui rispondo appena, poggiato alla portiera della Mercedes. La guardo sparire nella scala, torno al posto guida. Ho le mani strette al volante. Il portone socchiuso attende che io faccia una scelta; gli echi che assaltano la parete della coscienza hanno pari delicatezza e rabbia. L’odore sottile della pelle bagnata. Vivo in un mondo di Scoloriti che affollano le strade, gli uffici, le automobili in coda, che mi passano accanto, come grigia acqua corrente; opposto al flusso, fermo come uno scoglio, attendo il giorno in cui mi volterò per seguire la medesima direzione. Chiudo gli occhi, le mani sul volante. L’odore della pelle. L’aroma del veleno. Scendo con un verso di scorno, chiudo la macchina. L’aria di settembre è fredda, fredda come certi angoli dell’anima. Il fiato non condensa ma i pensieri malevoli, certe crude fissazioni, si disegnano ad arabeschi nella luce dei lampioni. Stringo la giacca di jeans beige solo per non dover stringere quel pezzo di dignità che scivola un passo alla volta sull’asfalto. Supero la barriera del portone, l’aura del suo profumo a note orientali traccia una via su per le scale, un sentiero lastricato di carne e respiri. Salgo al passo lento dei morituri. Un filo di saliva resta per un attimo sospeso, dall’alto in basso, tra le nostre labbra dischiuse. Ride, Roberta, pulendosi col polso. La sua mano mi sta premuta sul petto, così forte da bruciare. Brucia come certe consapevoli debolezze, come il segno di Caino, la sabbia ad agosto. Si china ancora, labbra su labbra, i capelli sciolti sul mio volto in un gioco di denti e lingua, furibondo, plateale, accanito. L’animale d’Averno che morde e abbaia dentro non è diverso da quello che domina il mio corpo disteso, fuori. Spinge con più foga, attimo dopo attimo, le cosce serrate ai miei fianchi, la linea arcuata della schiena rosseggia nella luce soffusa della stanza: liscia, sagomata, elegante. L’amplesso stride d’una nota cupa quando mi ricorda cos’è una donna, una vera. Quella mano sul petto mi brancica carne e muscolo, fino al cuore di sotto. Quando la tempesta finisce, la marea si ritrae, quando fisso il soffitto della sua camera da letto e le ombre hanno contorni più lunghi, solo allora realizzo l’imponenza del sottinteso. Il senso ultimo che ho inseguito per tutto il giorno. Mi sollevo a sedere con le fibre che bruciano, sollecitate, tra lenzuola di un colore sanguigno. Roberta mi guarda, sorniona, occhi abissali incorniciati da capelli che hanno ripreso la loro elegante forma. Mi guarda, seduta su un fianco, nuda, il corpo curato, allenato, la stessa silhouette d’una lince pardina. “In tre anni,” sollevo pollice, indice e medio, “Non mi hai neppure mai guardato una volta.” Un’estremità della bocca le si allarga, tenue, in una specie di sorriso. “Adesso è diverso.” “Non è diverso.” Conosco la risposta tanto quanto la conosce lei. Guardo i segni sul mio petto, lì dove c’è il cuore: ne ho di più profondi al di sotto. Colore, incolore, le tinte perdono di senso. La sua figura è carne dorata che perde poco a poco la vibrazione dell’ocra. Si fa grigia, poi bianca. Opaca. Scolorita. “Mi dispiace per te.” Lo dico senza malizia né circostanza. Lei china il capo, piega le labbra. “Sei un bravo ragazzo. Ti meriti qualcosa di meglio d’una bambina.” “Non c’entrano i meriti. Solo le circostanze.” “Forse.” Chiudo gli occhi per un attimo. “Non mi avresti mai cercato se,” la saliva ha ancora, per un attimo, il suo gusto ricercato, “Se non avessi saputo di lei.” Roberta sorride, una linea di seta sulle labbra curate. “Come ti ho detto, poche cose ancora riescono a darmi soddisfazione.” “Forse allora dovresti allargare gli orizzonti.” Mi alzo, raccolgo i vestiti sparsi. “Finisce qui, beninteso.” Il suo sorriso, sottile, non cambia gradazione. “Ovvio.” Note lontane, come di Bosforo, sfiorano quelle corde di me troppo tese, rimaste ad un altro e diverso stato delle cose. Quando tutto questo era solo una ruvida fantasia. Un gioco al massacro. Chiudo gli occhi e Giorgia mi guarda dietro il velo delle palpebre, atona. Non c’è che un frammento di noi a resistere l’ordalia. Tutto scolorisce nelle tinte del bianco e del nero. Sogno, di quei sogni che sanno di caos primordiale. Ho le mani strette al volante. L’odore della pelle è quello dell’imbottitura dei sedili nuovi. Il parabrezza s’appanna con la cadenza del mio respiro. Il libro, Il mito di Lancillotto, giace poggiato sul sedile del passeggero. Giorgia si disegna, per un momento, tra uno screzio di luci e uno d’immaginazione. Avvio il motore e prendo la strada di casa. *** È una giornata come le altre. Roberta non mi ha guardato, stamattina, è andata in postazione come se non esistessi, e va bene così. È un gioco che sa di normalità, d’orgoglio, di ragione. È un gioco. Tutto ritorna nell’ordine delle cose. Quando mi suona il telefono, alle due, ed è lei, Giorgia, sorrido come ogni volta. È il colore che torna a stendersi sul mondo come lo conosco. Rispondo ma lei non c’è, ci sono solo le sue lacrime. Piange. Piange e si arrota con le parole, le distorce, tra i singhiozzi. Non capisco, poi capisco. Alzo incredulo uno sguardo condannato, Roberta mi osserva di lontano. Alza di spalle, divertita, innocente, come la lince acromatica che è. Poche cose le danno ancora soddisfazione. Una è prendersi i colori altrui. ***
-
Titolo: Gotica Chimera Autore: Francesca Ghiribelli Editore: Tulipani Edizioni Genere: Dark poetry Prezzo e-book: 1.99 offerta lancio Prezzo cartaceo: 8,00 BOOKTRAILER https://www.youtube.com/watch?v=pvQyrAY9W_M Link amazon https://www.amazon.it/Gotica-chimera-Collana-Tulipani-Edizioni/dp/8833666905/ TRAMA: Una raccolta di poesie gotiche che verso dopo verso vi porteranno a esplorare il lato più misterioso dell’amore, con sfumature fantasiose e pennellate decise. Il nero è il colore protagonista, ma non è detto che se coloriamo il nostro cuore di questo elegante colore dobbiamo per forza creare un’atmosfera triste o pervasa dal pessimismo: ogni colore dà tono a tutti gli altri. Ogni poesia è parte di noi stessi che ci nascondiamo dietro maschere lontane dal nostro vero essere per non ammettere che ci troviamo veramente in difficoltà di fronte alla vita. Ha scritto questo libro perché... L’uomo si sente spesso piccolo e inerme, ma osservando e comprendendo a fondo i miei versi il lettore potrà ritrovare alla fine di ogni mia poesia quella voglia di evadere dal piccolo malessere interiore, che ci cattura quando il crepuscolo arriva e ci fa cadere in istanti di pura monotonia. Estratto: Abbandono Dalle ceneri della terra rinascerò sovente e in me vivida rinascerà una goccia di sangue che inebrierà il tuo cuore, così saremo una sola anima che viaggerà nelle coltri del tempo per non sapere niente del mondo e non conoscerà i nostri nomi, ma volerà altrove dove il sole non possiede tenebra e l’oscurità non trova luce. Quando sarai primavera io diventerò perla di fiore, se solamente tu sarai inverno io sarò lacrima di neve e se nascerai autunno io cadrò foglia per avvolgere il tuo corpo. Ora sei estate e tramonti dietro la collina, mentre io sarò il crepuscolo che ti accoglie fra le braccia del nostro abbandono chiamato vita.
-
*** “Tutto chiaro?” La adoro quando chiede Tutto chiaro? al termine di uno spiegone. La adoro e assieme sento l’irrefrenabile bisogno di fare il contrario di quello che ha appena detto. I preparativi per una storia di Instagram di successo sono roba complessa, non per tutti, ma i TikTok stanno a un livello ancora superiore. Specie quelli di coppia. Per fare un TikTok servono alcuni elementi imprescindibili: talento, studio accurato del terreno, idea vincente, uno o più personaggi fighi. Per fighi intendo decenti abbastanza da far salire la bile ai loro coetanei. Giorgia è figa: lo sa, ci sguazza, ne fa un vanto, talvolta se lo scorda. A quanto ne so, non è una che sta più di tanto alle prese coi TikTok, ma a volte decide che deve tirarsela anche lì. E per tirartela su TikTok hai due strade: ostentare opulenza, far vedere l’idillio della tua vita di coppia. Di TikTok sul sedile della mia Mercedes ne ha già fatti diversi. “Tutto chiaro?” Ho una domanda. “Perché davanti allo specchio del bagno?” “Perché devo vedere cosa riprendo?” “Ma non è da sfigate farsi le riprese davanti allo specchio del bagno?” “E dove hai letto questa cosa?” Non l’ho letta, è una cosa che mi viene dall’anima. Se hai bisogno d’uno specchio per farti una foto o un video vuol dire che non sai usare l’autoscatto o non hai un servo della gleba che ti faccia una foto decente: ergo sei sfigato. “Niente, lascia stare.” Giorgia espira, poggia le mani curatissime sul lavandino, mi guarda dal riflesso. “Tutto chiaro quindi?” Me la scruto per qualche momento, nel top nero e i pantaloni della tuta bianchi, Adidas. “Io conto fino a tre, entro, ti sto dietro, ti lego sto cordino rosso al polso e ti prendo in braccio.” “E mi porti in camera.” “Ma tanto il telefono riprende solo qui, chi lo vede dove ti porto?” “Vabbé, oh, è uguale.” “Appunto.” “E allora mi porti dove ti pare, tanto la registrazione finisce da sola.” “Magnifico.” Sospira, aggiusta meglio l’Iphone dalla sua posizione tattica sopra al lavandino. “Tanto lo so che dovremo rifarla tipo quindici volte.” “Ouh, che è sta sfiducia?” “Perché non ce la farai mai a farmi un nodo al polso al primo tentativo.” La guardo come si guardano i criminali colti in flagrante, lei ride nel suo modo criminoso. “Anche fosse, sfido chiunque a farti un nodo al polso con il ciarpame che hai.” Le sollevo il braccio coi sei-sette bracciali e monili che ci tiene agganciati. Ride di nuovo, poi torna seria e scocciata, sbuffa, reclina il capo nel suo modo rassegnato. “Sono trenta secondi d’impegno, puoi metterceli per favore?” “Trenta secondi d’impegno per farti fare la figa su Instagram.” “Su TikTok.” “Quello che sia.” “Dai, ma se non ti chiedo mai niente.” Altro guardare come si guardano i criminali presi la seconda volta sul fatto. Ride ancora. “Che poi che c’entra il cordino rosso?” “È una cosa giapponese, unisce due persone che si amano per la vita.” “E secondo te su TikTok c’è gente che capisce questa cosa.” “Ovvio.” “E tutto questo serve a far credere al mondo che io e te staremo insieme per tutta la vita.” “Eh.” “Poi magari ci lasciamo domani.” “Noi NON ci lasciamo domani.” “Ma che ne sai.” Sbuffa, reclina di nuovo la testa, “Puoi fare questa cosa per me senza rompere?” “Con sto cordino io ti ci…” Agita le spalle in un finto attacco di pianto frustrato che è una delle varie cose che adoro del suo repertorio di smorfie. “Trenta secondi,” pesta sul pavimento con un piede, “Solo trenta secondi d’impegno, cazzoooo.” Adoro anche le sue finali allungate quando perde la pazienza. “Okay, va bene.” “Okay?” “Okay.” Espira, si risistema i capelli lunghi e lisci, fa cenno di venirle accanto, mi prende la mano sinistra e il cordino rosso, ci fa un nodo al mio polso con cura maniacale. “L’altro capo,” scandisce occhi negli occhi come fosse la cosa più importante del mondo, “Qua.” Mostra il suo, di polso, con tutta la pletora di bracciali e monili. “Ho capito, scemina.” “Bravo. Adesso vai fuori, do il via, conti fino a tre e entri.” Esco solo dopo una manata energica sulle sue chiappe che, nella tuta bianca, stanno da Dio. È più forte di me. È un bisogno irrefrenabile, il mio. Non posso farci niente. Generazioni diverse, idee diverse, concetti diversi. Poi, TikTok è proprio una cagata. Ma una cagata terribile. Il cordino dal polso me lo sono slacciato e l’ho teso per bene. Giorgia dà il via, inizia a muovere i fianchi canticchiando le parole di qualsiasi stupida canzone contemporanea abbia messo in sottofondo, guarda nello specchio contando i secondi. Nervosa. Tesa. Non si è mai fidata al cento per cento di me. Non in queste cose. E fa bene. Benissimo. Tre secondi vanno via in fretta. Io entro, posato e tranquillo. Mi fermo dietro di lei. Guardo nello specchio da sopra quei pochi centimetri che ci passiamo. Sta fremendo come un animale selvatico. Le prendo il polso, anzi entrambi i polsi: col cordino rosso glieli allaccio di brutto e col nodo più veloce della Storia. Giorgia ha gli occhi sgranati e un mezzo sorriso incredulo. In braccio non la prendo: me la carico su una spalla con una mossa da wrestling. La sento ridere con voce stridula. Saluto militare verso l’Iphone. Addio, io il mio l’ho fatto. Me la porto via come bottino di guerra. *** “Allora?” Fisso il soffitto della camera come se fosse un cielo stellato, Giorgia invece l’Iphone che tiene sollevato davanti al viso. Si perderebbe tutte le stelle del mondo, stesi qui sul letto, se il soffitto fosse la Via Lattea. Piega le labbra, s’aggiusta, concentrata sullo schermo, “Eh.” “Eh cosa?” “Boh, ha fatto un mare di visua e di like.” “Ma che strano.” Rimugina qualcosa, la intravvedo sorridere, ritorna seria quando se ne accorge. “La mia idea era migliore.” “Sì. La cosa giapponese che sapete tu e Toriyama.” “Chi?” “Appunto.” Sbuffa col sorriso che non riesce a trattenere; ci ho messo un po’ a convincerla a non rifare il video e metterlo su così com’è venuto. “Vedi, Giorgina, alla gente piacciono le cose spontanee, non le baggianate finte e artificiali.” Scende un silenzio che sa di proposta in arrivo, mentre scorre il dannato TikTok su e giù e riguarda con metodica insistenza il suo video, il nostro video. “E se diventassi un’influencer?” “Per diventare un’influencer devi avere minimo qualcosa d’interessante da far vedere agli altri.” “Vabbé, io sono interessante.” “Sì ma sai quante ce ne sono come te là fuori?” “Stronzo.” “Che poi, interessante è una parola grossa.” “Stronzo.” “Non sai neanche ballare.” “Sì che so ballare.” “Giorgina, ballare è una cosa, dimenarsi a caso davanti al telefono è un’altra.” “Infatti non lo faccio.” “Perché sai che io le ragazzine su TikTok che ballano come cretine per dieci secondi cacati non le posso vedere.” “Ma infatti io non lo faccio.” “E meno male.” “E se diventassimo tutti e due influencer?” Il cielo stellato sul soffitto diventa una pioggia di meteore infuocate. Alcune hanno la faccia di Fedez e quell’altra. “Per diventare influencer dovremmo minimo avere qualcosa d’interessante da mostrare.” “Ma noi siamo interessanti.” “Sai quanta gente ha un Mercedes bianco, neanche top-class, e una casetta in Liguria?” “Ma che c’entra quello: io dico noi siamo interessanti.” “Perché?” “Perché mica tutte hanno un ragazzo molto più grande.” “E questa cosa sarebbe interessante?” “Certo. Guarda che mi invidiano, eh.” Silenzio. C’è una spruzzata d’aurora boreale, adesso, sulle mie retine. “E cosa facciamo vedere al mondo?” “Ma non lo so, la nostra vita, il modo in cui stiamo insieme. Per esempio: una cosa che ti piace fare con me?” Sorrido come sorridono i coccodrilli a merenda. Giorgia sbuffa sorridendo a sua volta, si ravvia i capelli sparsi, “Una cosa sentimentale, dico.” Ci penso. Mai stato un grande fornitore d’idee. “Vieni qui,” le faccio posare il telefono, la guido a mettersi cavalcioni sul mio petto. Il suo top nero e il modo in cui mi guarda, attenta come una gatta, sono benzina per incendi. Ravvia di nuovo i capelli, la panoplia dei suoi bracciali freme e tintinna come un sonaglio. Le abbasso con cura i calzini dai talloni, la massaggio in circolo. “Sarebbe questo?” Ci guardiamo come gatta e coccodrillo, entrambi con un mezzo sorriso affilato. “A me piace farlo, hai i talloni di velluto.” Sbuffa, alza gli occhi, “Ma secondo te io posso fare un video su questo?” “È una cosa sentimentale.” “Non è una cosa sentimentale.” “Ha parlato l’esperta.” “Questa è una cosa sentimentale.” Si china solenne finché i suoi capelli castani non mi spiovono sulla faccia. Deposita un bacio sulle mie labbra, poi un altro. Non c’è più un soffitto stellato da guardare, solo il suo bel viso ovale e la cascata della chioma. Gli occhi scuri e vividi. La collanina col suo nome in corsivo mi oscilla davanti al volto. “E tu vuoi fare un video su questo?” Sorride, socchiude le palpebre, mi bacia di nuovo. “No, vabbé.” “Non saremo mai degli influencer.” “Chissenefrega.” La bacio ancora e sa vagamente di ciliegia. Sarà il rossetto rosa. Insegue un qualche pensiero mesto mentre mi s’abbandona sul petto, sognante: non voglio disilluderla su quanto facile sia perdersi per la strada, specie per quelli come noi. Anche se siamo influencer immaginari. Giorgia sa poco o niente del mondo degli adulti e non ha avuto basi solide dalle quali partire. Non ha avuto punti di riferimento, o li ha persi troppo in fretta. Un’incombenza che è finita sulle mie spalle, ma non ne sento il peso. Non l’ho mai sentito. In compenso, ha dei talloni di velluto. ***
-
[continua] Mi guarda, occhi fradici, rossi, la mano sempre premuta sulla bocca. “Non mi hai salvato come Amore, Tesoro o sticazzi. Perché sai chi sono io e chi sei tu. Chi siamo noi.” Apro la portiera del passeggero, prendo dal sedile il libro, il suo libro, l’immagine di copertina. Il cavaliere alla carica. “Mi hai chiamato tu così. Hai deciso tu questo gioco. Vuoi lasciarmi per un sospetto, una cattiveria gratuita? È questo che vuoi?” Sospiro, atono. “Il mondo è pieno di demoni, Jo. Per quanti io possa distruggerne, ce ne saranno sempre altri che cercheranno di prendersi la mia, la tua felicità. Sempre.” Sfoga ancora per un lungo attimo, poi mi guarda, tremula, fragile. “Giurami che è la verità…” “I giuramenti sono parole, come tali fallaci. Le emozioni no. Se chiudi gli occhi puoi vederci, io e lei, su un bel letto, i vestiti sparsi, il senso di caldo: funziona così, no? Ti batte il cuore, la testa pulsa, pensi di aver perso tutto in un attimo. Lo pensi, lo vedi, impazzisci.” Continua a fissarmi, incredula. Le leggo nella mente, lei legge nella mia. Tra noi ha funzionato anche per questo. “Demoni, Jo. Vanno sempre qui,” tocco la mia fronte, poi la sua. “Sempre qui. È dove fa più male.” Guarda a terra, l’asfalto del sentiero, le nostre scarpe, l’orlo dei pantaloni. “Lo hai visto e continui a vederlo. L’ho visto anche io, ieri sera, nello stesso modo: ho fatto l’amore con lei, sì, su quel letto che immagini, coi vestiti sparsi, nei modi più bizzarri. L’ho visto anch’io. Ma era tutto nella mia testa. Non è accaduto, semplicemente. Lo abbiamo solo immaginato. Entrambi.” Respira a fondo, col petto che trema per lo sforzo. Accenna un sorriso, affranta, aggrappata a se stessa. “Ho te, non me ne faccio niente delle altre.” Stavolta l’abbraccio non lo cerco, lo offro con le mani appena aperte, quel porto sicuro di cui ha tutto il bisogno del mondo. Mi guarda e scandaglia alla ricerca di una traccia di colpa che non può trovare. Un lungo attimo di nulla poi ci s’abbandona con rabbia, singhiozzando libera, selvatica, rossa in viso. In un altro film, i due vecchi col cane s’intenerirebbero ricordando la gioventù; nel nostro, lui s’increspa digrignando a mezza voce Pezzi di merda esibizionisti. Non so dargli torto. Le bacio i capelli che sanno di mandorle, piange senza suono. “Certo che sei proprio fessa, mamma mia, come fai a credere a tutto?” Più stringo più ne sento il cuore battere sullo sterno. Mormora qualcosa che non capisco, ma non ha importanza. Quando ci stacchiamo sembra passata un’era, il tempo cambiato, i nostri colori anche. Sono vividi, perlati, preziosi. Si smanaccia le lacrime dal viso, aggiusta i capelli che le ho manovrato. Sorride con ancora gli angoli delle labbra piegati verso il basso e gli occhi gonfi, guarda la Mercedes, “Sei veramente entrato nel parco con la macchina?” “Per te questo e altro, scemina.” Alzo di spalle. “C’era l’ingresso per residenti aperto e non avevo voglia di mettermi a correre per tutto il parco a cercarti.” Ride di un riso accennato, con ancora un sottofondo di singhiozzi, mi guarda. In quegli occhi scuri, nocciolati, c’è la muta supplica di non farle rivivere questo inferno. Non lo esterna mai, non lo dice, ma so e so bene che la cosa di cui più ha paura al mondo è vedermi andare via. È anche la mia, per quanto non possa ammetterlo. “Ma poi, come sapevi che ero qui?” “Cuori connessi, stessa frequenza.” Lascio passare qualche secondo ad effetto. “No, vabbé, ho riconosciuto il parco nella storia che hai messo su Insta.” Ride di nuovo, di sollievo, con gli occhi umidi. La paura di guardarsi andare via. Abbiamo demoni che s’ingozzano l’un l’altro di questo assunto. “Andiamo, per favore? Che se passano i vigili la mia giornata diventa ancora più complicata.” La bacio a stampo su una guancia, forte, per vederle indosso un altro sorriso tenue, fragile come certi fiori primaverili. “Muoviti, oh, che devo portarti a casa e poi tua madre vede che hai pianto e mi telefona e mi rompe i coglioni e m’insulta, e sai che io non reggo gli insulti. Specie i suoi.” Ride, le lacrime asciugate a forza, mentre si avvia alla portiera. “Non voglio andare a casa, stasera…” “Se vieni da me, porca miseria, non voglio vedere mezzo pianto né sentir parlare di Instagram.” “Va bene.” “Promesso?” Annuisce con un sorriso delicato. “Promesso.” Saliamo in auto, il libro lo appoggio con cura sui sedili posteriori. Faccio per mettere in moto, ci ripenso, fisso il volante, il verde del Parco Reale e l’azzurro opaco del cielo. “Posso dirti una cosa?” Annuisce dopo un’occhiata tesa. “Non mi era mai capitato prima, voglio dire, prima di stare con te.” “Che cosa?” “Che due tipe ci provassero con me nello spazio di due giorni. Una al dì, praticamente. Non mi ha mai calcolato nessuna, a me: da quando sto con te, invece, è tutto diverso.” Sgrana gli occhi in un moto d’orrore, prende un respiro denso, attonito. “Chi è la seconda, scusa?” “Marty, la tua amica.” Freddo. Gelo. “Come Marty?” Fischio con un muovere della mano. “QG chiama Giorgia: me l’hai detto tu ieri sera, ricordi?” Espira come liberata da un peso mostruoso, mi guarda con un accenno di sorriso che stavolta non può liberare. “Quella cretina ha solo detto che sei figo.” “E sticazzi, non mi sembra poco. Equivale a provarci.” Alza le iridi al cielo, piega le labbra per trattenere il sollievo. “Sì, vabbé.” “Marty è quella con due tette incredibili, no?” Mi fissa allucinata. “Come lo sai?!” “Ciccia, non è che solo tu sai usare Instagram.” “Quindi tu hai cercato Marty su Instagram?” “Chiaro. Se una ti dice che sei figo, minimo minimo vuoi sapere di cosa stiamo parlando.” Appoggia la nuca al sedile in un moto di sconforto. “No, io non posso farcela.” “Non è niente di che. Carina, c’ha un po’ la faccia da bambina. Bambina strabica.” Ride. “Non è strabica.” “Serio? Nella foto sembrava strabica. Sulle tette però niente da dire.” “Vaffanculo.” “Saranno il triplo delle tue.” “Vaffanculo.” Metto in moto, sorrido di sottecchi, la guardo, lei non mi guarda. “E se mi piacessero comunque di più le tue?” “Non mi parlare.” “Chi mi ha fatto uscire prima da lavoro per le sue pazzie immaginarie?” “Non sono pazzie immaginarie.” “Possono dirti che sono un rettiliano e tu ci credi. Basta che sia qualcosa per farti del male, e tu ci credi. M’hai fatto correre fino a qui, m’hai fatto pensare che stava finendo il mondo, minimo minimo da qui a casa parliamo delle tette di Marty e altre cose del genere. Per punizione.” Espira come fa quando non sa uscire da un casino che lei stessa ha creato. “E comunque Marty non so che faccia abbia, non l’ho trovata su Instagram.” “E che ne sai che ha la quarta, allora?” “Ho tirato a caso.” “Sì, vabbé.” Sorrido guidando senza fretta verso l’uscita del parco. “Te lo giuro, del tutto a caso.” Demoni svaniscono nel sole pomeridiano: ne ho uccisi d’ogni genere e specie, ben sapendo che la legione ha numeri smisurati. Che non cesseranno mai d’insinuarsi tra le pieghe dell’esistenza. La nostra esistenza. “Comunque non è che siamo proprio amiche.” “Ma lo so. Tu non hai amiche.” “Se conosco solo gente di merda…” “Concordo. Quelli della tua classe, mamma mia, li appenderei tutti in via Roma.” Ride, cerca la mia mano sul cambio. Il terrore perenne di vedermi andare via. Il bisogno di un punto fermo, uno, nella sua personale burrasca. Lascio passare un’ambulanza a sirene spiegate prima d’immettermi sul corso. ***
-
*** Dianoetica “Come sarebbe che non c’è?” Il portinaio della scuola è un tizio sulla sessantina, basso, squadrato, con la mascella da bulldog e due occhiali antiquati. Non riesco a immaginarlo fare alcun altro lavoro al mondo che il portinaio di questa scuola. “Ma lei chi è, scusi?” scandisce con accento siciliano e sguardo inquisitore. “Sono un parente stretto.” “Che parente stretto?” “Il convivente. Voglio dire: il fidanzato.” “Ma mica è una parentela, scusi.” “No, ma devo portarla a casa, per cui…” “La signorina è uscita prima, oggi.” “E chi è venuto a prenderla?” “Nessuno.” Scordo e ricordo di continuo che adesso Giorgia può firmarsi le giustificazioni da sola. Alzo l’indice come se dovessi dire qualcosa ma non ho nulla da dire; giro sul posto e torno fuori, in strada, nel pomeriggio assolato, mentre il bulldog sporge da dietro il plexiglass del suo stanzino per un’ulteriore indagine visiva. Torno alla macchina, salgo a bordo. “Mercedes: chiama Bimba,” recito al computer di bordo sentendomi un cretino come ognuna delle poche volte che lo faccio. Odio che la mia auto sappia come chiamo la mia ragazza. Il telefono prende a squillare, a vuoto come nelle ultime due ore, mentre faccio inversione con addosso una cappa d’inquietudine. *** Inchiodo l’auto dopo un’accelerata esibizionista, proprio accanto alla sua panchina, sul viottolo asfaltato del parco. Lei alza lo sguardo per un attimo, lo riabbassa. “JO!” Scendo dalla macchina, sbatto la portiera, le sono davanti con le braccia aperte e l’espressione dei martiri in gloria. “Ma che stai facendo?” Accenno alla quiete e gli spazi del Parco Reale, tra il verde dei giardini, l’azzurro scolorito del cielo. Scoloriti quelli che passano, pochi, a debita distanza. Non mi guarda, tiene gli occhi a terra, le braccia strette sulla giacchetta color panna. I segni del pianto, sulle guance, sono cicatrici identiche da qualche parte dentro. “Non voglio vederti,” mormora in un filo di voce. “Non voglio vederti ‘sto gran cazzo. Adesso mi spieghi. Mi spieghi che cosa è successo, e dall’inizio alla fine.” Non replica: si alza di botto, prende lo zaino, si avvia sulla stradina tra le aiuole del parco. “No, no, no, no.” Le sono davanti in poche e decise falcate. “Non te ne vai se prima non mi hai spiegato.” “Non ti devo spiegare niente.” “Devi, invece. Dopo puoi andartene, se vuoi. Ma mi devi spiegare, me lo devi.” Fa per replicare, ha un singulto, piega le labbra, chiude gli occhi. Prendo il respiro più lungo della mia vita. “Non ho fatto niente, Jo. Nulla.” Singhiozza, in composto silenzio. Due anziani di passaggio guardano, attenti come il loro cane che assomiglia al portinaio. Le prendo le spalle, con vigore. “Guardami.” Niente. “Jo, guardami.” Ci vuole ben più che qualche secondo perché alzi il viso rigato contro il mio. “Ti ha chiamato, ti ha scritto, cosa ha fatto?” “Mi ha scritto.” “Su Instagram?” Annuisce appena. Lascio passare i secondi nel modo che serve a sentire i battiti del cuore. “Ti ha mentito, Jo. Voleva farmi un torto, e lo ha fatto nel modo peggiore.” Scuote la testa, in lacrime, cerco di abbracciarla, si sottrae. “Ti ha mandato una foto?” “Sì.” “Non dire cazzate. Non ti ha mandato nessuna foto.” “No.” “Ti ha dato una prova, qualcosa?!” “No…” “No, certo. Quindi una che non conosci ti scrive su Instagram che ti ho tradita con lei e tu ci credi. Così, a cazzo, tu ci credi. Se domani ti scrive uno per dirti che sono finocchio, tu ci credi.” Sussulta le spalle, il viso dal bel colorito ora torbido, come l’acqua di mare quando sollevi la sabbia dal fondo. “Ma poi l’hai vista? L’hai vista in foto quella?!” “Che c’entra?” mormora a voce rotta. “È figa? La consideri figa?” Si spazientisce come quando incomincio un caleidoscopio di parole, cerca di voltarsi, in lacrime, mi ritrova di nuovo di fronte. “Rispondi. La trovi figa sì o no?” “SÌ!” “Ecco, ma secondo te io posso andare con una così? Tutta truccata che, madonna, la chiamano al circo Orfei?” “Cosa c’entra…?” “Io sto con te, ho te, e devo perderti per andare con una del circo Orfei? Ma ti sembra logico? No, dimmi se ti sembra logico!” Mi guarda come si guardano i miraggi sfocati nel deserto. Ha il respiro affannato di chi vuol annegarsi ma non trova il coraggio di farlo. Mimo il girare d’ingranaggi, “Era un modo per dirti, se ce la fai, che sei la cosa più bella che mi sia mai capitata. Non me ne possono capitare di migliori. Specie se truccate in quel modo.” Un lungo attimo di nulla, di rabbia forzata, voluta, cercata, di odio e disperazione che non hanno solide basi. “Ci sei andato a cena?” “Certo. È una mia collega, abbiamo un progetto di lavoro da portare avanti, voleva discuterne. Ci ha provato con me, le ho detto di no, e per ripicca ti ha scritto.” Esita, cerca di trattenere le lacrime. “L’hai accompagnata a casa?” “Certo. È una cortesia che non si nega a una donna, se te lo chiede.” “Non dovevi farlo!” “Dovevo eccome.” Ha un altro singulto, il dorso della mano pressato sulle labbra e gli occhi serrati per un lungo attimo. “Jo.” Guardo il cielo solo perché non amo vederla in quello stato, non per me. “Jo: come mi hai salvato sulla tua rubrica del telefono?” Sussulta le spalle in un nuovo attacco di pianto muto. “Come hai salvato il mio numero sulla rubrica, Jo? Con che nome?” [segue]
-
*** Deus Ex Mi porti via? Tre parole, dieci lettere, tutto scritto sullo schermo del telefono in un balloon bianco. Mi porti via? Sono tre parole e dieci lettere che ti danno un valore, un peso specifico, una funzione. Ti rendono deus ex. Leggo cercando il tasto per spegnere il pc e chiudere così la giornata. Mi porti via? Il suo modo per dire che ha litigato col mondo, di nuovo, o che la vita fa schifo. Più raro si riferisca a uno dei molteplici, triviali problemi della sua esistenza quotidiana. Scrivo di pollice per sapere a che ora finisce il pomeriggio, mi dice alle cinque e mezza. È una vita che il pomeriggio finisce alle cinque e mezza ma mi piace esserne sicuro. - Sto da te stasera Senza il punto o la domanda. Hai avvisato tua madre? Rassetto la postazione per spendere i minuti che mancano alle 17. - Tanto esce. Le frega < 0 Allora ti porto via. Allora la porto via. - <3 Deus ex. Gliel’ho scritto, una volta: sono il tuo deus ex. *** Entro in casa con quella sensazione d’estraneo che mi prende da qualche parte al ventre, ormai da tempo, e che sbiadisce solo se lei entra da quella stessa porta, con me. I muri, gli armadi in legno di rovere, il piastrellato in gres: non ho scelto niente, neppure l’arredo delle mie quattro mura. Non scelgo mai, è una maledizione. Giorgia, per contro, varca la mia soglia e rinasce. Non manco uno dei movimenti quasi erotici coi quali si sfila le costose Nike nere senza chinarsi, butta lo zaino contro la parete, svanisce nel corridoio stirandosi: io sto ancora decidendo dove poggiare la borsa della spesa, la giacca, con che mano chiudere la porta. “Che poi,” finisce dal bagno il ragionamento sul come abbia solo amiche stronze, “Alla fine chissene.” L’acqua corre, i miei scorni giornalieri se ne vanno anche più in fretta. “Ah,” sporge dal bagno mentre riordina i capelli in una corta coda, “Marty ha detto che sei figo.” “Lusingato.” Non che sappia chi sia, ma certo una di quelle che chiama amiche solo a giorni alterni, quando non sono un ostacolo da rimuovere nella scalata al trono. “Marty sarebbe?” “Ma chissenefrega? Tanto è cessa.” Più che una reginetta Giorgia è una despota concettuale. Per arrivare dove vuole, anche se non deve arrivare da nessuna parte, passeggerebbe scalza sui cadaveri allineati delle sue più strette amiche. Quelle dei giorni alterni, se non sono un ostacolo da rimuovere. Amo l’idea che entri in casa mia prima di me, usi il bagno prima di me, vada a ravanare nei cassetti che le ho riservato per prendersi una tenuta da camera, e poi nei miei, per vedere se ho comprato qualche nuova maglietta di marca. Amo l’idea che, mentre ficco la spesa in cucina, alla buona, il suo problema sia non aver da parte abbastanza per cambiare l’iPhone invece degli esami che avrà a fine anno. “Col cazzo che t’aiuto a studiare a giugno,” preciso a voce alta. “Siamo a settembreee,” dall’altra stanza, con la E finale che s’allunga nel suo modo di banalizzare tutto, anche l’ovvio, e mi piace il modo in cui riesce a farlo. Quel modo che a me non riesce più da tempo. Metto su l’acqua per la pasta. Amo il vederla ricomparire in cucina, come niente fosse, con gli shorts grigi, le gambe abbronzate, le calzette, il felpone nero di Calvin Klein preso dal mio dannato armadio. “Dai, non rompere, è mio ormai,” si scansa scazzata, e so che quella felpa, indosso, le ricorda un qualche abbraccio protettivo, uno che le manca. Amo il suo modo di camminare che non è sensuale né ricercato, al più dinamico, come certi uccelli di piccola taglia che ispirano dignità. Ride e s’inarca quando lascio i fornelli per prenderla ai fianchi, da dietro, tenta di svicolare ma è solo un momento: s’adagia con la testa sul mio petto, attende. “Hai fame?” Alza di spalle. “Poca.” Le stampo un bacio sulla guancia, ha un mezzo sorriso. “Sentito tuo padre?” Incupisce, piega appena le labbra. “Boh.” La bacio ancora. “Boh?” “Tanto lo vedo nel weekend.” Le batto col piede su un tallone. “Glieli hai fatti gli auguri, sì? Avevi detto che glieli facevi.” “Ma che t’importa di lui.” “Non di lui. Di te.” Le sue braccia s’allungano dietro, a brancicarmi i capelli, volta il capo a occhi socchiusi. “M’importa di te.” Sorride appena, in qualche modo dolce nonostante la giornata. Se la lascio è solo per seguire la pasta. *** La televisione parla di cose che non vorrei sentire, d’immagini che non vorrei vedere. Non cambio canale, ammaliato dall’ennesima inquadratura d’un’ambulanza a sirene spiegate. I titoli sul bordo basso dello schermo menzionano numeri che scelgo di non leggere. Giorgia compare con la sua camminata dignitosa e lo sguardo mezzo chiuso, siede con me sul divano, il telefono incollato agli occhi. Amo il modo in cui tira su le gambe nude, si mette di lato, poggia con cura la schiena sul cuscino del bracciolo e ambo i piedi sul mio uccello. Ho imparato, ma solo col tempo, che non è una richiesta né un gesto sottinteso, solo uno dei suoi modi di esprimere e chiedere affetto, nonostante non mi guardi neppure, nonostante l’iPhone tra le mani. Le accarezzo una gamba e lì rimaniamo, a fissare ciascuno il proprio schermo, senza ammettere quanto importante sia essere sullo stesso divano, a giocare con la sua gamba nuda, coi suoi piedi sul mio uccello. “Vuoi dormire qui?” “Ovvio.” Sorrido appena, un giornalista ricama concetti davanti ai cancelli chiusi del San Vincenzo. “L’hai avvisata tua madre?” “Tanto torna tardi.” Si scuote e stira con un movimento sontuoso delle braccia, cambia posizione, mi si accoccola addosso. Le bacio i capelli che, nel suo anonimo castano, profumano vagamente di mandorla. Smanaccia cercando, chiedendo e poi prendendosi di forza il telecomando, cambia canale con un verso annoiato, cerca uno qualsiasi dei reality col nome importante. Sbadiglia già. “Se faccio una storia?” “A chi interessa che siamo sul divano a far niente?” “A un sacco di gente. Marty per prima.” “Sei gelosa?” “Di quella? Ma tu sei scemo.” Mi si preme di più ancora contro, solleva il telefono, fa due smorfie con le labbra. Ho imparato che non guardare nello schermo e fregarsene d’essere filmati aumenta l’appeal sulle storie di Instagram, come pizzicarla al fianco e guardarla contrarsi e sorridere. Il contorno di filtri stupidi e qualche cuore lo lascio all’immaginazione. “Studi qualcosa questo weekend?” Poggia il telefono sul divano, mi guarda dal basso e sottosopra. “Che cosa?” “Ma che ne so. Basta che studi un po’.” “Studio poi ad aprile.” “Ad aprile è tardi. Tu non li passi gli esami se continui così.” “Va bene, a marzo.” “A febbraio.” “Ok.” Pausa che conosco, sorrisetto. “Tanto mi aiuti tu.” “Io non ti aiuto.” Si abbandona con un singulto di finta stanchezza, sorride con altrettanta finta stanchezza, mi prende una mano e se la poggia in grembo. “Ho freddo.” “Hai una felpa di tre chili, non puoi avere freddo.” “Ho comunque freddo.” Cambia posizione, si muove, va a mettersi cavalcioni davanti a me oscurando la televisione. Le accarezzo le cosce nude, abbronzate, lisce. “Dovrei cominciare a mettere i pantaloni lunghi,” commenta guardandosi, le labbra piegate in basso. “Non ci provare neanche.” Ride, mi abbraccia, deposita un bacio. Si alza sulle ginocchia per stare più in alto di me, guardarmi con quei pochi centimetri in più che di solito sono mio appannaggio. “Non voglio andare a scuola domani.” “Né io a lavoro.” “E allora stiamo a casa.” “Ma a lavoro ci devo andare.” “Dai, che palle…” “Tua madre mi ha coperto d’insulti l’ultima volta che non sei andata a scuola.” “Perché è stronza.” “Perché la scuola è importante.” “Ma se posso morire domani e non gliene fregherebbe un cazzo.” “No, Giorgina, non è così.” Mi bacia con lo schiocco per coprire cose che non ama sentirsi dire. “Quando mi fai venire a vivere qui?” Le accarezzo le gambe. “Quando avrai un lavoro qualsiasi.” “Ma se prendi un fracco di soldi.” “È il principio. Si vive insieme se si collabora insieme. Poi comunque non prendo un fracco.” Sbuffa e sorride. Si riadagia sui talloni e le mie mani rimangono pressate tra le sue cosce e i polpacci. “E se ti faccio da casalinga?” “Tu non sai fare la casalinga.” “Imparo.” “Ma cosa impari che ti mancano le basi.” “Imparo anche quelle.” “Comincia a passare gli esami a giugno.” Sbuffa, cambia posizione, mi si siede addosso, abbracciata, le gambe raccolte. Amo il suo ammettere, col linguaggio delle posture, che ha molto più bisogno di protezione di quanto dicano i suoi modi spicci. “Jo.” Mugugna senza guardare. “Io ci sono per te. Ma devi fare la tua parte.” Altro mugugno. Si aggiusta, si scuote, prego mentalmente per la salute delle mie palle, abbassa gli shorts quel poco che serve a far risaltare l’elastico delle mutandine arancioni. Sa che il baratto del suo corpo con l’evitare argomenti complessi, con me, non funziona. Ci prova egualmente. Tiro e rilascio quell’elastico perché schiocchi sulla sua pelle perfetta, come un bacio. “Andiamo al mare?” mormora contro il mio collo, sbadiglia, socchiude gli occhi. “Quando?” “Questo weekend.” “Vai da tuo padre questo weekend.” “Gli dico che non ci sono.” “Non perderlo il rapporto con lui, Jo. È importante.” “Che palle che sei.” “Andremo quello dopo.” “Ormai è settembre, farà freddo tra due week.” “Tuo padre è più importante del mare.” Mi bacia a padre per non sentire il resto. “Che palle che sei.” “Andiamo a nanna?” “Facciamo l’amore?” “Guarda che è mezzanotte.” Sbadiglia. “E chissenefrega?” “Sei stata due ore su Instagram.” Ridacchia, mi bacia svogliata. “A nanna, Jo. Che domani ti devo pure portare a scuola e mi fai fare tardi, Cristoddio.” Mi alzo, la sollevo di peso, lei ride, la reggo tra le braccia come nei film ma nei film è diverso. Muove i piccoli piedi come una ninfa al bagno, non passiamo dalle porte, prendo uno stipite anzi lo prende lei su un ginocchio, mi regala una pacca di finto sdegno, la butto sul letto. *** “È ancora lunga la disamina?” chiedo da sotto le lenzuola mentre, al lume dell’abat-jour, la guardo camminare su e giù per la camera con l’iPhone in mano e la faccia scornata. “Marty ancora non l’ha guardata la storia.” “Se è gelosa di te non la guarderà.” “DEVE guardarla. E starsene al suo posto, la stronza.” Sorrido perché alla fine c’è del buffo a guardarla vagare attorno al letto, indosso una delle mie magliette slargate, con la camminata di certi uccelli di piccola taglia, pure dignitosi. “Dai, Jo, molla quel telefono.” Espira, sbuffa, controlla ancora una volta Instagram, poi chiude, spegne, lo butta sul comodino. Alza le lenzuola, controlla il mio abbigliamento da notte: dice che solo i vecchi usano il pigiama, quindi non lo devo portare. “Ma la canotta devi per forza tenerla?” “L’hai detto tu, è settembre, ormai fa freddino.” “Senza canotta stai meglio.” “Al buio non si nota la differenza.” Giorgia non è una reginetta, solo una despota concettuale. Si siede, sfila i calzini con gesto aggraziato, scioglie i capelli, s’infila sotto le lenzuola ancora leggere. Il letto non è un matrimoniale, lo spazio è poco ma amo pensare che è meglio così, è quel che vogliamo. “Freddo?” L’abbranco in una morsa di peso e supremazia, lei ride, si contorce come un pesce, rimane passiva nella muta lotta per la posizione più comoda. Si rifarà a luci spente. “Buonanotte.” “Notte.” Spengo la lampada e il buio si prende quel che avanza di noi. Le ore, i minuti, scorrono via come acqua nel piatto della doccia quando riesco ad averla qui, a casa. Troppo in fretta, prima di un altro giorno a lavoro, a scuola, nel vuoto acuto che Giorgia riempie quando le circostanze lo permettono. Non credo ai progetti che millanta sul nostro futuro. Non credo alla maschera di vanità che le piace portare. Non avrebbe bisogno di un deus ex. Pure amo quando, nel buio, finisce la quiete e iniziano i suoi cambi di posizione, i calci involontari, il suo avvinghiarsi con ogni mezzo ed estremità, come se nel buio potessi sparire lasciandola ai suoi vuoti, le mancanze d’affetto, le storie su Instagram. Quel calore che il suo corpo sul mio genera è quanto mi tiene ancorato al mondo, il mio mondo, giorno per giorno, settimana dopo settimana e oltre ancora. È settembre ma il tepore e il calore del suo corpo sanno d’estate. Per quanto possa volerla, desiderarla, abbracciati nella notte come termini di un’equazione, niente di lei vale quanto l’insieme delle nostre mancanze. È questo a renderci, in qualche modo, perfetti. Glielo scrissi, una volta, sono il tuo deus ex. Rispose come rispondono le despote concettuali. Al massimo, deus sex. ***
-
Vi è mai capitato di stare seduti vicino a due persone che parlano ad alta voce, cercando di non ascoltare i loro discorsi, per essere discreti? È proprio quello che sto cercando di fare in questo momento. Ma chi voglio prendere in giro? Non è vero. Oggi sono tornato qui apposta, sulla mia panchina preferita, all'angolo di questo piccolo parco dai grandi alberi, nella speranza e nel timore di ritrovarli e di risentirli. E loro, come ieri, sono ancora lì, seduti su un'altra panchina, quasi di fronte a me. Ci separa solo un sentiero di terra battuta, che si snoda tortuoso tra le radici delle piante secolari, come un serpente marrone in mezzo all'erba lucente di questo inizio di primavera. A occhio e croce non devono avere più di vent'anni. Lei è quella che potremmo definire un tipo interessante, né bella né brutta, ma comunque interessante: capelli castani sciolti, che le cadono lisci sulle spalle, occhiali neri da segretaria che si fa sposare dagli avvocati, come nella canzone di Venditti, giubbotto beige con il bavero alzato e l'immancabile foulard fantasia. Anche lui lo potremmo definire nella media, né bello né brutto, ma molto più “ordinario” e molto meno “interessante”. Parla sempre lei, come ieri del resto, e come sempre accade tra uomini e donne fin dalla notte dei tempi. Lui non può far altro che stare ad ascoltare, rassegnato al ruolo più tragico a cui un esemplare maschio possa adattarsi in una relazione con un esemplare femmina: quello del confidente. Ogni tanto prova a interloquire, ma riesce solo a pronunciare solo qualche storta sillaba e secca come un ramo, prima che un nuovo turbine di parole lo travolga. Anche l'argomento, come io speravo e nel contempo temevo, è lo stesso di ieri. La ragazza gli sta spiegando le “ragioni” per le quali alla fine ha deciso di non mettersi insieme a un altro tizio, di cui non afferro il nome, ma che, a quanto pare, risulta essere un compagno di studi di entrambi: «Sai come succede, insomma: avevamo gli stessi gusti, ci piacevano gli stessi libri, gli stessi film, perfino lo stesso cibo. Potevamo parlare per ore, senza annoiarci, ma...» «Ma fisicamente non ti piaceva» interviene il ragazzo, illudendosi di completare la frase nel modo giusto. «Ma va, non è quello! Fisicamente mi piaceva e pure molto. E sono abbastanza convinta che pure io piacessi a lui.» «E allora?» «Non so come spiegarti. È che...» No, per amor del cielo, non dirlo: l'hai già detto ieri, per favore non ripeterlo! La ragazza si aggiusta i capelli, guarda in alto verso il folto delle chiome delle magnolie e poi abbassa di nuovo lo sguardo sulle sue scarpe rosa pulitissime. «Sì, insomma: lui mi piaceva e io piacevo a lui. Però...» Ecco lo sapevo, ora lo dice. Me lo sentivo che l'avrebbe detto di nuovo, me lo sentivo! «Ma dai, lo sai, te l'ho spiegato già ieri: non è scattata la scintilla.» Era inevitabile, l'ha detto: lo ha ripetuto anche oggi! D'altronde, se ne è convinta, cos'altro potrebbe fare se non ripeterlo in continuazione, agli altri, oltre che a se stessa? Chiudo il libro che avevo tra le mani e del quale non sono riuscito a leggere neppure una riga. Tiro un lungo respiro e mi preparo psicologicamente a essere mandato a quel paese in modo più o meno elegante; ma è un rischio che devo correre: la mia socratica ricerca del vero me lo impone. Mi sposto sul lato della panchina più vicino ai due giovani e, dopo essermi schiarito la voce, decido di importunarli: «Mi scusi, signorina: posso farle una domanda?» Lei mi osserva stupita, spingendosi gli occhiali più vicino alla fronte. Anche il suo interlocutore si gira verso di me e dal suo sguardo capisco che comunque non mi considera una minaccia, ma solo un tipo strano. Non aspetto la risposta e continuo. «Posso chiederle cosa ha mangiato oggi a pranzo?» «Eh? Come dice?» «Sì» insisto, «a pranzo: avrà mangiato qualcosa, no?» «Certo: un'insalata mista. Ma perché lo vuol sapere?» Scuoto la testa, sconsolato. «Mi perdoni. L'insalata non va bene: ho scelto l'esempio sbagliato. Allora facciamo a cena: cosa ha mangiato a cena ieri sera?» La ragazza si gira verso il suo compagno di panchina: ci manca solo che si picchi il dito sulla tempia per fargli capire che sono matto. Alla fine decide lo stesso di rispondermi. «A cena? Non mi ricordo... Una bistecca mi pare. Sì, una bistecca, con contorno di patate fritte.» «Oh, perfetto!» esclamo soddisfatto «Così va bene: proprio quello che mi occorreva. Bistecca con patate... roba che bisogna cuocere, insomma. E mi dica: lei, o chi cucina per lei, avrà provveduto ad accendere il fuoco sotto la padella, immagino? Oppure vi siete semplicemente seduti davanti ai fornelli, aspettando che la fiamma sgorgasse da sola come per magia?» Ormai sono piuttosto convinto che lei davvero mi consideri un pazzo; ma forse è troppo educata per dirmelo in faccia e poi i pazzi, si sa, è meglio assecondarli. «È ovvio che abbiamo acceso il fuoco, altrimenti staremmo ancora qui ad aspettare di mangiare!» Il suo confidente si lascia andare a una risatina un po' forzata: anche lui mi considera strambo, ma sempre non pericoloso. Non mi importa. Proseguo imperterrito. «Vede signorina, sia ieri sia oggi, non ho potuto fare a meno di ascoltare i suoi discorsi, e per questo le chiedo scusa. Mi creda: non sono un pettegolo e odio il pettegolezzo, ma i suoi “ragionamenti”, se così si possono definire, li ho sentiti tante di quelle volte e fatti da tante di quelle donne, che alla fine non sono riuscito a trattenermi.» «A quali ragionamenti si riferisce?» Il suo tono ora è un po' indispettito. «E cosa c'entrano con il cibo e i fornelli?» «Ci arrivo subito. Ieri ha parlato di una “scintilla” che non è scoccata tra lei e un ragazzo che comunque, a quanto pare, le piaceva. Ma perché non l'ha accesa lei questa scintilla, come ha fatto per le bistecche e le patate? » Adesso anche la ragazza mi elargisce una pietosa risatina. «Ma cosa c'entra, mi scusi? Sono due cose completamente diverse!» «Lei crede? Davvero ne è convinta? Sul serio è sicura che un sentimento non possa essere creato, preparato, acceso allo stesso modo in cui siamo in grado di accendere un fuoco?» «Ma che discorsi! Non ci si innamora a comando!» «Questo è vero. Non ci si innamora a comando, così come a comando non ci prendiamo un'influenza o un'altra malattia. Ma si può amare a comando, mi dia retta: questa è una prerogativa esclusiva di noi esseri umani, l'unica che ci distingua davvero dal regno animale.» Stavolta la ragazza attende qualche attimo prima di rispondere: «Innamoramento, amore… sono due parole per definire la stessa cosa.» «Si sbaglia di grosso e come lei si sbagliano tutti quelli che la pensano allo stesso modo. E le dirò di più: da questo errore, da questa confusione nascono la maggior parte delle incomprensioni, dei drammi e addirittura delle tragedie nei rapporti sentimentali. Perché vede, signorina, gli esseri umani da sempre hanno cercato di tenere sotto controllo la propria vita, programmando lavoro, casa, viaggi, passatempi... tutto. Tutto, tranne la cosa più importante: l'amore. Ancora oggi, che siamo in grado di spedire nello spazio un oggetto per milioni di chilometri e di farlo atterrare su un altro pianeta con l'approssimazione di pochi metri, per l'amore ci affidiamo al caso e non ci riteniamo capaci di accendere una scintilla.» Hanno smesso entrambi di ascoltarmi. Lui le ha ricordato che rischiano di perdere l'autobus. Si sono alzati e, dopo aver biascicato un “arrivederci”, che sottintende “a mai più”, se ne stanno andando verso l'antico cancello in ferro battuto che segna l'uscita dal parco. Lei, un istante prima di varcarlo, mi getta un'ultima occhiata, ma è troppo lontana perché io possa capire se si tratta di compatimento o comprensione. Ripenso a De Andrè: Da chimico un giorno avevo il potere di sposar gli elementi e di farli reagire, ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l'amore, affidando ad un gioco la gioia e il dolore.
- 3 risposte
-
- introspettivo
- psicologico
-
(and 2 più)
Taggato come:
-
https://ultimapagina.net/forum/topic/943-crocevia/?do=findComment&comment=11922 «Io esco! Vado a comprarmi le scarpe!» Così dicendo Antonella corse fuori di casa e poi giù per le scale, non vedeva l’ora di di trovarsi a girovagare per le vie del centro. Era dal tempo dei preparativi per il matrimonio che non era più entrata in un negozio di scarpe. Erano passati tre anni da quando si era sposata poi il lavoro aveva assorbito lei e suo marito al punto che non si ricordava quasi più che faccia avessero i suoi amici. «Invece la faccia di quello stronzo me la ricordo sempre! Ma perché continua a tornarmi in mente?» Si sforzò di pensare alle sue future nuove scarpe per scacciare l’immagine di colui che da almeno tre anni aveva fatto perdere le sue tracce. Non un saluto, non una chiamata. Alla faccia delle promesse: non perdiamoci di vista, restiamo amici, potrai sempre contare su di me. Sì, su di un fantasma poteva contare. Ma tanto non aveva più importanza, ora aveva un marito che le voleva bene e a cui lei voleva bene. Eppure la curiosità di sapere che fine avesse fatto, se viveva ancora a Torino o se se n’era andato. Se aveva un’altra… certo che ce l’aveva, sicuramente era per quello che un giorno le si era presentato davanti e con vomitevole diplomazia l’aveva scaricata. Giunse davanti al primo negozio di scarpe, il primo di una lunga lista, e finalmente riuscì a pensare ad altro. «Ma che vi costa? Dico, sono solo cinque minuti. Qua parlate tutti di eternità, di infinito, di… cinque minuti e torno! Promesso.» «Forse non le è ancora chiaro cosa le è successo, lei non può tornare indietro.» «Guarda là!» indicò un punto a caso in lontananza poi prese a correre. Corse come non aveva mai corso prima, si sentiva leggero e veloce e, cosa che più lo sorprendeva, non gli sembrava di provare alcuna fatica. Corse senza voltarsi indietro finché si trovò proprio di fronte a colui da cui stava scappando. Si fermò e rimase a fissarlo sorpreso. Infine questi parlò. «Le sono stati concessi cinque minuti. Cerchi di farne buon uso.» «Se devo farne buon uso mi servono almeno un paio d’ore. Va bene, scherzo. Scherzo. Vado.» Mentre contemplava un paio di scarpe rosse chiedendosi come le sarebbero state addosso, Antonella non poté fare a meno di notare una coppietta che si era fermata accanto a lei. «Guarda quelle scarpe rosse! Che schifo! Ma chi vogliono che se le compri?» chiese subito inorridita la ragazza che stringeva il braccio del suo fidanzatino come fosse l’ultimo appiglio prima di precipitare in un burrone. «Beh, che ne sai? Magari qualche vecchietta potrebbe apprezzare.» Vecchietta? Pensò Antonella. Si guardò nella vetrina e si accorse che, sì, era letteralmente fuori dal tempo. Il suo modo di vestire non era certo in linea con le tendenze correnti. «Possibile che bastino tre mesi e mezzo di matrimonio a farmi sentire già vecchia?» si chiese mentre si allontanava da quelle scarpe che continuavano a piacerle ma ormai la facevano sentire vecchia. Al fastidio creato dall’immagine del suo ex si aggiunse quello creato dall’odioso commento di quella ragazzina. Quant’erano teneri. Si sorprese a pensare. Comprendendo così che non era il commento a darle fastidio, ma quella spensieratezza che traspariva dalle voci dei due fidanzatini. Quella stessa spensieratezza che aveva avuto anche lei quando ancora quello stronzo non l’aveva piantata. Non poteva aspettare un po’? Giusto il tempo di diventare maggiorenne, cominciare a lavorare, non poteva aspettare che finisse il tempo dei sogni? No! A diciassette anni! L’estate più schifosa della sua vita, tutte le amiche che raccontavano di vacanze in giro per il mondo mentre lei era rimasta sola dall’oggi al domani. Se mi si parasse davanti lo… Antonella trattenne a stento un urlo nel vedere davanti a se Michele. «Cosa vuoi?» furono le prime parole che le riuscì di pronunciare mentre nella sua testa era era in corso una tempesta di pensieri ed emozioni. Notò un sorriso tremendamente sicuro riempire il viso di lui e pregò con tutte le sue forze che lui non lo facesse. «Ciao Nelly, come stai?» Brutto stronzo! Figlio di… ringrazia che ho rispetto per tua madre. L’aveva fatto! L’aveva chiamata Nelly come faceva sempre quando stavano insieme. E questo aveva riacceso in lei il desiderio di buttargli le braccia al collo. Ma non poteva, ancora di più ora che era sposata. «Bene, ciao. Ora scusa ma devo andare.» Gli girò attorno e si avviò ma subito si sentì afferrare e trascinare indietro. Si voltò pronta a sputare in faccia a Michele tutta la sua rabbia ma fu bloccata dal suono di un clacson e dal rumore di una macchina che le passò alle spalle tanto vicino da darle l’impressione che l’avrebbe investita. Questa volta urlò in preda alla paura. «Tranquilla, non è successo niente.» la rassicurò Michele mentre le lasciava le braccia per ristabilire una rispettosa distanza da lei. «C’è mancato poco, ancora un secondo e sarei finita all’inferno.» disse Antonella ancora scossa. «Be’, però non è successo.» insistette Michele cercando di smorzare la paura di Antonella. «Allora? Come te la passi?» Bravo! Adesso che mi hai salvato la vita pensi che debba sdebitarmi? Ti aggiusto io. «Bene, mi sono sposata da poco. E tu?» «Sono contento, mi fa piacere che tu abbia trovato una persona con cui creare una famiglia. Lui ti vuole bene?» Sul volto di Michele si dipinse l’espressione della serenità, quella serenità di chi non ha più nulla da desiderare ne da rimpiangere. Quella serenità che si legge nel volto di un bambino che dorme sul petto di sua madre. O di un anziano che sente avvicinarsi il suo momneto e non ne ha paura. «Certo! Lui sì!» rispose Antonella incapace di nascondere l’astio che provava verso il suo primo amore. «E tu? Che fine hai fatto? È da un po’ che non ti si vede in giro. Hai una donna? Una famiglia.» «Io sto bene. Son qui solo di passaggio. Mi ha fatto piacere incontrarti e sapere che stai bene. E non sai quanto sia contento che tu abbia qualcuno al tuo fianco.» «Non so dove vuoi arrivare, non so quale sia il tuo fine ma ti posso garantire che non ho bisogno della tua commiserazione. Dopo che mi hai piantata in asso, dopo che mi hai abbandonata come una scarpa vecchia sono stata malissimo ma mi sono fatta forza da sola e sono andata avanti. Se sei venuto per rimediare al danno fatto sei in ritardo.» Si bloccò accorgendosi che stava per piangere. Guardò Michele negli occhi. Lo fissò intensamente per riuscire a respingere le lacrime, per mostrargli che non le importava più niente di lui ma rimase presto ipnotizzata dal particolare brillio di quegli occhi. C’era qualcosa di strano in quello sguardo. Rimasero immobili per pochi ma interminabili secondi, a lei parve di rivivere in un attimo tutto il tempo passato con lui. Provò un irrefrenabile desiderio di abbracciarlo ma l’immobilità di Michele la fece desistere. Lei non poté fare a meno di sorridere. «Adesso sparirai nuovamente nel nulla?» «Mi dispiace ma non posso fermarmi, ma è sicuramente meglio così.» Detto questo Michele sfiorò la fronte di Antonella con le labbra, poi indietreggiò le strizzò l’occhio e se ne andò. Lei rimase ferma a riflettere su come quell’uomo fosse cambiato. Perché aveva fatto finta di baciarla? Un innocente bacio sulla fronte poteva anche darglielo per davvero. Perché era stato così maledettamente corretto? Antonella fissava il bicchiere davanti a se. Erano passati quattro mesi da quando aveva rivisto Michele. Non c’entra nulla, non può esserci alcuna relazione tra le due cose. «Ciao Anto! Scusa il ritardo.» disse Valentina, la sua migliore amica, arrivando e sedendosi. «Ehi? Cos’hai? Hai una faccia.» «Ah, no… niente. Ero sovrappensiero. Come stai?» «Bene! Ieri ho trovato un nuovo negozio stupendo! Ci devi venire. No! Questa volta non voglio sentire storie...» Valentina rovesciò in faccia ad Antonella una valanga di parole, parlava in maniera concitata e si interrompeva solo per riprendere fiato finché si accorse che Antonella aveva uno sguardo strano. «Anto, tu devi dirmi qualcosa vero?» «Sì» «Ma perché non me l’hai detto subito? Io sto parlando da mezzora di stupidaggini. Avanti dimmi. Tesoro, ma ti rendi conto che era dal tuo matrimonio che non ci facevamo una chiaccherata come si de…» «Sono incinta.» «...ve… co… cosa?» chiese Valentina senza fiato per la sorpresa. «Aspetto un bambino.» confermò Antonella. Valentina fissò l’amica per un istante poi si alzò di scatto e si gettò addosso all’amica, le cinse il collo con le braccia e la strinse forte a se ricoprendo la sua guancia di baci. «Ma che bella notizia! E di quanti mesi? No, no aspetta. Fatti vedere. Tu sei di… Anto. Ma cosa c’è?» «Va tutto bene. Sono incinta di quattro mesi. Il ginecologo che mi segue ha detto che sta andando tutto per il meglio.» «Ma allora perché hai questa faccia? Dovresti sprizzare gioia da tutti i pori.» Antonella prese a giocherellare timidamente con il suo bicchiere. «Piero… in teoria… gli avevano detto che non poteva avere figli.» Valentina tirò un respiro profondo. «Anto, cos’hai combinato?» «Niente, il bimbo è di Piero.» Valentina scosse la testa senza distogliere lo sguardo da Antonella. «Tu non mi stai dicendo tutto.» «Quando sono andata dal ginecologo mi ha detto qual’era il periodo in cui il feto è stato concepito.» «E?» «Mi ha detto un giorno ma ha anche aggiunto che il calcolo non è preciso, insomma potrebbe sbagliare di un paio di giorni.- Valentina annuì. -Be’ in quel periodo mi è capitata una cosa stranissima.» «Che cosa?» chiese Valentina avvicinandosi. «Ho rivisto Michele.» Disse Antonella abbassando lo sguardo come se avesse confessato il più vergognoso dei peccati. «E vorresti dirmi che sei rimasta incinta per intercessione dello spirito di Michele?» la canzonò Valentina. «È stato gentilissimo, tra l’altro mi ha anche evitato di finire sotto una macchina. Non mi ha sfiorata nemmeno con un dito. Boh sarà perché gli ho detto che mi sono sposata. Però è stato tanto carino. Mi ha anche detto che era contento di sapere che mi sono sistemata.» Valentina guardò l’amica. «Anto, ma tu l’hai sognato, vero?» chiese con una punta di preoccupazione. Antonella sgranò gli occhi. «No, cosa ti fa pensare che l’abbia sognato. L’ho visto.» Il vento agitava i capelli di Antonella mentre lei fissava la lapide. Lesse e rilesse il nome e la data di morte. Interrogò più volte quella lapide ma la sola risposta che ottenne fu che Michele era morto un anno dopo che l’aveva lasciata. «Quindi quella svitata di Valentina ha detto il vero: il tumore, tu che non ti fai più sentire per non farmi vedere come ti spegni lentamente. Eppure io ti ho visto, eri lì.» «Quindi? Ha fatto tutte queste storie solo per assicurarsi che la sua amata stava bene?» «Sì. Ora possiamo andare. A proposito. Dove si va?»
-
"Maschere di Cristallo" di Terry Salvini
Aporema Edizioni ha pubblicato una discussione in In Vetrina
"Maschere di Cristallo" di Terry Salvini Aporema Edizioni Legal Thriller - Romance Pagine 416 Link per l’acquisto/download: Sito Editore - Amazon - Kindle - Epub Anteprima Quarta di Copertina Una notte di passione getta scompiglio nella vita e nella carriera della bella Loreley, giovane avvocato di New York, alle prese con un delicato caso giudiziario dall’esito in apparenza scontato. Pur di scoprire la verità, la donna decide di vestire anche i panni di detective, intrufolandosi in un ambiente ambiguo e poco raccomandabile. Intorno alla protagonista ruotano diversi personaggi: un vecchio amore, la famiglia, gli amici, i colleghi, ma soprattutto Sonny, un pianista e compositore ancora legato al proprio passato. Alcuni di loro restano fedeli a se stessi, altri si celano dietro maschere di cristallo, che il rapido e incalzante susseguirsi degli eventi finirà con l’infrangere. ISBN versione cartacea 9788832144277 ISBN versione ebook 9788832144376 Note Biografiche -
- Sorridimi ancora - Anna De Lorenzo - Self publishing - Romance - 202 pagine - Link per l'acquisto Tradita dall’uomo che sta per sposare, Alice non si abbandona all’autocommiserazione. Decisa a sfuggire il compatimento generale, infatti, sceglie di “staccare la spina” rifugiandosi a Gambarie. Nel piccolo paese dell’Aspromonte, legato ai ricordi più belli del suo passato, spera di rimarginare la ferita e tornare più forte e agguerrita che mai. I suoi piani di pace e serenità si scontreranno però con l’indomita zia Milly: donna piuttosto intraprendente che non lascerà alla nipote il tempo per piangersi addosso. Così, tra incontri inaspettati, cospirazioni e appuntamenti a sorpresa, il soggiorno di Alice si rivelerà più movimentato del previsto ma con risvolti tutt’altro che spiacevoli. Estratto.pdf
-
Commento Capitolo 1 capitolo 2 capitolo 3 Gli spiego dove spostare i vasi e le fioriere, gli mostro le zone che deve pulire e lo lascio al lavoro. Torno alle mie telefonate, ma non riesco a fare a meno di guardarlo mentre si sforza per spostare quei vasi enormi e li dispone con precisione dove gli ho indicato. Fa caldo e dopo un paio d'ore faccio portare dalla donna di servizio da bere ai due operai che stanno lavorando in giardino mentre io mi occupo di portarlo a Valerio. È accaldato e si sta asciugando il sudore del viso con la maglietta scoprendo degli addominali molto sexy e, senza rendermene conto, mi perdo a guardare gli obliqui che scendono verso il basso, scompaiono nei jeans leggermente abbassati fino a scoprire parte alta dell'anca e lasciano intravedere l'elastico dei boxer. Deglutisco, mi ridesto dalla trance, lievemente accaldata a mia volta e lo invito a entrare a rinfrescarsi. Gli verso l'acqua nel bicchiere e lo guardo mentre beve, è molto affascinante, ha dei lineamenti decisi, un po' ruvidi, ma molto regolari: potrebbe fare il modello senza problemi e ha due occhi di un castano talmente chiaro da sembrare verde con il riflesso del sole. Ah, se solo non fossi sposata... be', in effetti non devo certo correttezza a quel bastardo. Potrei anche divertirmici un po', ne ho tutto il diritto. Mi avvicino per versargli dell'altra acqua reggendo con una mano la sua che tiene il bicchiere, lo sento irrigidirsi al contatto, forse lo intimorisco, compiaciuta, torno a distanza di sicurezza posando la caraffa dell'acqua sul tavolino. Percepisco la tensione elettrostatica nell'aria, l'attrazione è reciproca, una donna lo sente sempre. Verso l’una ritorna il furgone per prendere gli operai che nel frattempo hanno finito il lavoro nel giardino e mi accordo con il titolare rassicurandolo che poi farò riaccompagnare io Valerio a casa, una volta finito il lavoro e che domani resterà ancora da noi a terminare. Vanno via tutti e restiamo finalmente soli. Vorrei tentare un approccio subito, ma mi sembra una persona riservata, credo sia più prudente tergiversare un po'. Gli offro un panino che insiste per consumare sul terrazzo e non in sala da pranzo dove avevo fatto apparecchiare anche per lui. Credo che la casa lo metta in soggezione. Gli porto fuori il caffè e mi siedo su una fioriera a berlo con lui. Parliamo e mi racconta della moglie che è senza lavoro e del suo piccolo Matteo che va all'asilo, mentre parla di lui gli si illuminano gli occhi e mi mostra il suo sorriso più dolce. Mi sento in colpa al pensiero di quello che vorrei fare, ma lui mi piace veramente tanto. Andrò all'inferno, ma voglio averlo a tutti i costi e credo che l'avrò. Accarezzo con un dito il bordo della tazzina del caffè, con noncuranza, come se accarezzassi lui e noto che, con lo sguardo, segue il movimento e si umetta le labbra. Decido di battere il ferro finché è caldo e mi avvicino un po' di più e, senza dare importanza al movimento, avvicino la mia gamba alla sua. Il contatto mi eccita e credo che faccia effetto anche a lui perché si sposta un po' e cambia posizione di continuo, ma non stacca il contatto. Mi allontano di colpo e lo sento sospirare, me ne vado ancheggiando sui tacchi alti, lo so che mi sta fissando il sedere, è quello che voglio. Una volta dentro, protetta dall'oscurità dell'interno, lo guardo mentre scuote la testa come per schiarirsi le idee, si ravviva i capelli emette un grosso respiro e ricomincia a lavorare. Verso le sette lo faccio accompagnare dalla donna delle pulizie alla doccia di servizio, con un telo da bagno e un cambio di vestiti. Finita la doccia lo invito ad accomodarsi in giardino, sotto il gazebo; spero sia meno timoroso e si lasci un po' andare. Ha i capelli mossi e bagnati e il sole gli ha colorito il viso: da togliere il fiato! Parliamo ancora, gli racconto del mio disastroso matrimonio, di mille altre cose e ci troviamo a ridere di nulla come vecchi amici dopo nemmeno mezz'ora. Lo faccio riaccompagnare a casa da un taxi e gli do appuntamento per l'indomani mattina. Dopo aver portato Matteo all'asilo torno a casa, pulisco dappertutto e mi porto avanti con il pranzo e la cena. Faccio anche una torta con le uova di Sonia e le mele che mi ha portato a casa Valerio. Sprizzo energia e positività da tutti i pori e non vedo l'ora che arrivi stasera, cercherò di mettere a letto il piccolo presto, è troppo tempo che non stiamo insieme come si deve. Mille immagini di noi due in camera da letto mi mettono caldo, sì è decisamente troppo tempo che non facciamo l'amore, dobbiamo per forza rimediare e questa sera sarà la sera buona. Canticchio mentre metto a posto i giochi nella camera di Matteo. Nel pomeriggio mi faccio una bella doccia e mi prendo un po' cura di me, ne ho bisogno, ho un aspetto orribile, non ricordo nemmeno l'ultima volta che mi sono depilata. Mio Dio, ma quand'è che ho smesso di essere una donna? Non importa, stasera recupero alla grande! Non riesco a non stare in ansia per Valerio, chissà come sarà agitato per il suo primo giorno del nuovo lavoro, speriamo gli vada tutto liscio, si merita un po' di serenità. Verso le sette non è ancora tornato, sono molto preoccupata. Do la cena a Matteo e cerco di anticipare il bagnetto e il solito rituale della fiaba nella speranza che poi si addormenti presto. Finalmente sento la chiave nella serratura, gli corro in contro e lo abbraccio, è pulito e profumato, non sembra nemmeno che abbia lavorato e indossa abiti non suoi, la cosa mi sembra un po’ strana. - Amore, com'è andata? - Bene direi. - Come sei bello profumato! - Ho fatto la doccia al lavoro. Il titolare mi ha prestato questi abiti: ero in una condizione terribile. - Racconta: com’è il lavoro? - Mi piace molto. Ho sistemato un giardino e un terrazzo in una villa pazzesca, quel terrazzo è più grande di casa nostra! - Eh, buon per loro. Ti hanno trattato bene? Hai mangiato a pranzo? - Sì, ho mangiato un panino. Però adesso ho fame di nuovo: c'è un profumino! Mangiamo quasi in silenzio per non rischiare di svegliare Matteo che appena lo ha visto lo ha salutato e poi è crollato. Non lavo nemmeno i piatti, ci guardiamo per qualche istante e poi, per mano, ci dirigiamo verso la camera da letto, finalmente! - Non sei troppo stanco? - Non sono mai troppo stanco per quello, Viola! Ridiamo sottovoce e cominciamo a spogliarci. Anche lui ha voglia quanto me di stare un po' insieme. Sono settimane che non ci sfioriamo nemmeno. Siamo persi l'uno tra le braccia dell'altra e la temperatura sale velocemente, le sue mani mi cercano e le mie cercano lui. Tutto è perfetto, ma Mattia decide di svegliarsi proprio ora e ci sta chiamando dalla sua cameretta. Impreco tra me e me e mi rivesto in fretta. Vado da lui sperando di riuscire ad addormentarlo subito, ma non c'è nulla da fare: ha avuto un incubo e sta piangendo sconsolato. Lo prendo in braccio per calmarlo e mi chiede di poter dormire con noi: addio nottata bollente! Torno di là, Valerio sorride e gli fa spazio. Dopo qualche minuto, li sento russare entrambi... non male come seratina. La sveglia sembra suonare dopo pochi minuti, ma in realtà abbiamo dormito tutta la notte senza mai svegliarci. Lui si prepara per andare al lavoro e io a passare un'altra giornata come tutte le altre. Non ho quasi chiuso occhio stanotte. Lorenzo è rientrato alle due e mezza, ho evitato di parlare con lui facendo finta di dormire: Ho passato tutta la notte a pensare al mio matrimonio che sta fallendo e alla mia vita. Ho anche pensato a Valerio, a lungo: non mi era mai successo di provare un'attrazione del genere per uno sconosciuto prima d'ora. Mi dispiace solo che sia sposato, ma in fondo perché dovrei dispiacermene? Qualcuna delle sgualdrine con cui è stato mio marito si è mai fatta scrupoli per me? Se cederà alle mie avance, e lo farà di certo, vuol dire che il suo matrimonio non è poi così felice come dice che sia. Non ho forse diritto anch'io di qualcuno che mi desideri e a un po' di gioia. Fingo di dormire anche quando Lorenzo si alza per andare al lavoro. Mi alzo solo quando lo sento uscire con la macchina dal vialetto. Faccio la doccia e mi preparo, tra poco arriverà Valerio. Puntuale come mi aspettavo, eccolo che suona al citofono, gli apro e gli vado incontro. Indosso un top attillato e un paio di leggings bianchi che con i sandali con il tacco alto trovo che mi stiano d'incanto, messa così potrei svegliare anche un morto. - Buongiorno Signora Graci. - Buongiorno Valerio, ma chiamami Rosa, per favore. Ho parlato con il tuo capo: sarai mio per qualche giorno - rido e spero colga l'allusione. Arrossisce leggermente: credo l'abbia colta. - Cosa devo fare oggi? Il terrazzo mi sembra a posto. - Sì, lo è. Aspettiamo che mi portino i tavoli e poi mi aiuterai a disporli, dovrebbero consegnarmeli in giornata. Come te la cavi con le piccole riparazioni? - Dipende, di cosa si tratta? - Una persiana al piano di sopra non mi si chiude bene, potresti dare un'occhiata? - Volentieri, fammi strada. Lo accompagno di sopra, in camera da letto: adesso o mai più. Lui armeggia un po' con la cerniera della persiana e mi dice che ha solo bisogno di una lubrificata e torna nuova. Mi avvicino e gli metto una mano sul bicipite, lui si volta di scatto e mi guarda con gli occhi sbarrati: credo abbia capito cosa sta per accadere. Sta per dire qualcosa, ma io lo anticipo mettendogli un dito sulle labbra. Anche lui prova attrazione per me, è palese, allarga le narici per respirare e serra la mandibola. Deglutisco e avvicino il viso al suo. Aspetto un cenno, un invito, un diniego, qualsiasi cosa, ma lui resta immobile. Ormai le nostre labbra sono quasi a contatto, aspetto ancora, sento il suo respiro sul viso e perdo lucidità: voglio solo sentire che sapore ha la sua bocca. Lui mi fissa, non accenna né ad avvicinarsi né ad allontanarsi, sembra impietrito. Mi decido: annullo la piccola distanza e appoggio le mie labbra alle sue.
-
Commento Mi sveglio con un mal di testa ferocissimo, nemmeno mi ricordo di esserci andata a letto. Lorenzo sta dormendo accanto a me. Dalla persiana entra un unico fascio di luce e mi arriva direttamente negli occhi, la testa mi pulsa e ho ancora voglia di vomitare. Mi tiro su a fatica e scendo dal letto. La testa mi gira, ma riesco ad arrivare in bagno, prendo un antidolorifico e mi caccio sotto la doccia. Mi sembra che la situazione stia migliorando leggermente, m'infilo l'accappatoio e torno in camera dove trovo Lorenzo sveglio, seduto sul letto. - Buongiorno Rosa. Fatto bagordi ieri sera? - Ti prego: abbassa la voce, ho un terrificante mal di testa. - Ci credo! Ti ho trovata svenuta in bagno quando sono rientrato. Sei uscita con le tue amiche della parrocchia? - Il tuo sarcasmo è fuori luogo, Lorenzo. Improvvisamente mi ricordo della sera prima, della telefonata a Matilde e le conclusioni a cui ero arrivata. La bile mi risale fino in gola - E tu? La tua riunione di lavoro è andata bene? - Come vuoi che sia andata, era una riunione. - Il tuo socio che ne pensa? - È stata una scocciatura anche per lui. Ma che c'entra? Dimmi dove sei stata a bere fino a stare male. - Di sicuro ho avuto le mie buone ragioni – sibilo tra i denti. Prendo un respiro profondo per dominare la nausea e proseguo: - È la tua segretaria? No, ti prego: dimmi che non è quella sciacquetta della tua segretaria! - Non so di cosa tu stia parlando. Prendi un calmante e torna a letto che ne hai bisogno. - Lorenzo, ma pensi davvero che io sia così scema da non accorgermi che mi stai tradendo un'altra volta? Mi credi così stupida? - Rosa ora mi stai stancando con la tua paranoia, non sono andata a letto con la mia segretaria: sei soddisfatta? - Ma con qualcun altro sì, però, questa è una certezza perché Matilda mi ha detto che non c'era nessuna riunione di lavoro, quindi vai a prendere in giro qualcun altro. Comunque non ho voglia di litigare, quindi puoi anche tornare da lei e non disturbarti a tornare a casa stasera. Nel giro di qualche giorno riceverai la tua roba se mi dai il tuo nuovo indirizzo: è finita Lorenzo. - Tu davvero pensi che ti lasci la casa e tutto il resto? Tu senza di me non sopravvivresti un minuto, non hai nulla, dipendi da me in tutto, non sai nemmeno pisciare senza il mio aiuto. Quindi ora piantala di rompermi i coglioni e fatti passare questa sbronza del cazzo: sei patetica. Patetica... certo io sarei la patetica mogliettina tradita che dipende dal marito. Purtroppo questa frase brucia perché è vera. Maledetto bastardo: ho lasciato il mio posto da dirigente di una grossa azienda pubblica perché lui me lo ha chiesto, lo ha fatto per assoggettarmi. non avrei dovuto permetterglielo, sono stata una sciocca. Io non ho nulla: è tutto suo e se lo lasciassi non vedrei un euro per via dell’accordo prematrimoniale, miserabile! E io che gli ho dato tutta la mia vita. Mi viene da piangere, ma non gli voglio dare anche questa soddisfazione. Mi vesto in silenzio e lo lascio in camera senza aggiungere altro. Dopo mezz'ora scende anche lui, pronto per uscire per andare al lavoro. - Che non si debba più tornare su questo argomento, per favore! - Come preferisci - gli dico seccamente e cambio locale. Lui mi segue e francamente non vorrei lo facesse perché avrei voglia di litigare ma credo che sarebbe inutile farlo arrabbiare, tanto non ho via di uscita a meno di rinunciare a tutto per fare una vita di miseria come quella donna del metrò: Madonna che orrore! - Visto che ormai sai che esco con qualcuno, meglio: almeno non devo raccontarti balle. Comunque oggi resta a casa perché arriva la squadra per sistemare il giardino. Controlla che non facciano danni, per favore. - Agli ordini - sibilo tra i denti. - E stasera torno tardi: gradirei che non mi facessi il terzo grado. - Per me puoi anche morire. Non lo vedo nemmeno arrivare lo schiaffo, ma sento il bruciore sul viso. Barcollo e a stento riesco a restare in piedi. - Bravo, adesso mi metti anche le mani addosso! - singhiozzo tra le lacrime, non mi ha fatto certo più male di sapere del tradimento, ma è un affronto che non posso sopportare. Lui è dispiaciuto e mi si avvicina per scusarsi, ma io mi scanso d'istinto. - Ehi, scusami, non volevo colpirti. Ho perso la pazienza. Dai stasera torno a casa e ti porto fuori a cena, vuoi? - Non occorre, davvero. Fai come preferisci. Ora scusami, ma ho da fare. Mi allontano giusto in tempo per non farmi vedere a pezzi. Appena sento sbattere la porta d'ingresso torno in cucina e metto del ghiaccio sulla guancia che mi pulsa ancora. Non posso farmi trovare così dagli estranei. La guancia mi fa male ed è un po' arrossata, nulla di difficile da coprire con un po' di fondotinta, ma per la ferita dell'orgoglio non c’è make up a sufficienza. Mi sono appena ricomposta quando suonano al cancello. Guardo dal videocitofono e vedo un furgone, dannazione speravo non arrivassero. Apro e mi appresto a uscire per vedere cosa devono fare. Mi verrebbe voglia di cacciarli solo per fare un dispetto a Lorenzo, bastardo maledetto! Non lo farò, non è giusto che paghino loro per colpe che non hanno. Saluto il titolare del vivaio, mi spiega che ha accompagnato i dipendenti e che sanno già cosa fare, quindi gli riapro il cancello e torno in casa. Li guardo per qualche minuto dalla finestra sono in tre, due dei quali sono anche vecchiotti, solo uno sembra sulla trentina ed è anche un bell'uomo. Torno a farmi gli affari miei, ho delle telefonate da fare per organizzare un evento per la raccolta di fondi per l'ospedale pediatrico e mi viene un'illuminazione: faremo la cena qui sul nostro terrazzo, so quanto odia le feste di beneficenza, sarà un piacere contrariarlo. Contatto il catering e inizio a organizzare tutto. Lascio un messaggio alla segretaria di Lorenzo per informarlo della mia decisione e la sensazione che provo è magnifica. Devo mettermi subito all'opera per sistemare il terrazzo, ho solo due settimane. Mi affaccio e chiamo gli operai: - Scusatemi, uno di voi potrebbe venire su a darmi una mano? Li vedo confabulare e poi quello più giovane si avvicina alla porta finestra che dà sul giardino. Si pulisce diligentemente gli scarponi da lavoro e poi lo vedo titubare. Gli vado incontro e gli dico: - Vieni, non preoccuparti, c'è chi pulirà. - È che non so se sono autorizzato a entrare in casa sua, signora. Il capo ci ha detto di sistemare fuori e di non entrare in casa per nessuna ragione. - Capisco, aspetta che sento il tuo capo, hai ragione, potresti avere dei guai. Come ti chiami? - Valerio, tra l'altro è il mio primo giorno. - Tranquillo non ti faccio perdere il posto. - Salve sono la Signora Graci. Dall'altra parte, il titolare mi risponde un po' allarmato: - Salve signora, ci sono problemi con i miei ragazzi? - No, nessun problema, anzi. Avrei bisogno che uno dei vostri operai facesse dei lavori sulla terrazza, mio marito non avrà nulla in contrario a pagare le ore in più. Credo che le ruberò il Signor Valerio per un paio di giornate, se non è un problema. - Credo che Jussef e Mirko abbiano più esperienza, ma decida pure come preferisce. - Credo che Valerio andrà benissimo, grazie mille. Riattacco e gli sorrido, si è incantato a guadare l'arredamento del salone: in effetti può sembrare imponente a prima vista. - Seguimi, ti mostro cosa vorrei che facessi.
-
Commento CAPITOLO 1 Ho avuto una pessima giornata. La manicure mi ha tagliato troppo le unghie, il sarto ha sbagliato le misure del tailleur e il parrucchiere mi ha fatto una piega orrenda, potrebbe una giornata andare più storta di così? Sì, perché devo prendere il metrò per tornare a casa invece del taxi visto che ho lasciato a casa la carta di credito e ho finito i contanti. Odio la metropolitana: è sporca, puzza ed è sempre troppo affollata. Compro un biglietto all'edicola, insieme a qualche rivista di moda, al limite le userò per non sporcarmi la gonna sul sedile sudicio. Mi incanto a guardare un tabellone che pubblicizza un profumo da uomo, ispira voglia di comprarlo solo a vederne la pubblicità. Dio come sta diventando questa città, ci sono barboni dappertutto, meglio tenermi stretta la borsa, se non verrò scippata sarà un miracolo! Mi metterò ad aspettare qui vicino al muro, non potrei mai stare vicino alla linea gialla, con tutti i pazzi che girano. Il display dice che fra tre minuti arriverà il treno, che incubo, ancora tre minuti. Ho avuto una pessima giornata. L'ho passata tra un'agenzia interinale e l'altra ricevendo sempre la stessa risposta: "le faremo sapere". Non mi resta che tornare a casa e spiegare a mio marito che nemmeno oggi ho trovato lavoro. Spero che mi bastino le monete che ho in tasca per prendere il biglietto della metro...meno male ho quattro euro: che fortuna Viola, ti restano in tasca quei due euro che ti possono cambiare la serata... Dio che vita ingrata! Mentre ritiro il biglietto mi cade l'occhio su un senzatetto avvolto in una coperta sporca e consumata, seduto sul pavimento con la schiena appoggiata a un cartellone che fa pubblicità di un profumo che ritrae modello bellissimo: un contrasto notevole tra le due figure. Gli passo accanto e vedo il suo sguardo perso nel vuoto, il viso segnato dal freddo e dalla fame, non ce la faccio a passare oltre: gli lascio, nel cappello che ha accanto, la moneta da due euro che mi è rimasta: magari a lui davvero salverà la serata, di sicuro più che a me. Timbro il biglietto e passo il tornello, scendo le scale e guardo il display: fra tre minuti arriverà la metro. Sono combattuta tra la voglia di arrivare a casa dalla mia famiglia e quella di ritardare il rientro perché non ho nulla nel frigorifero: che metterò in tavola stasera? Ecco il treno. Aspetto che tutti salgano, non ho voglia di sgomitare per entrare. Meno male che la carrozza non è così affollata come temevo. Mi siedo in un sedile di quelli disposti lungo il finestrino centrale, tra le due porte. Accanto a me, a destra ho un posto vuoto, spero che rimanga tale fino all‘arrivo e dall'altra parte si è seduto un uomo dall'aspetto distinto. Mi è venuta un’emicrania pazzesca. Chiudo gli occhi un attimo, ma il terrore che qualcuno possa avvicinarsi è troppo forte per potermi rilassare. Faccio una panoramica generale degli altri frequentatori della carrozza. Due fidanzatini si sbaciucchiano un po' troppo sfacciatamente nei posti in fondo, sono incuranti di tutti e di tutto, non è un bello spettacolo da dare in pubblico. Poco più in là c'è una vecchietta che ha fatto fatica persino a salire sulla carrozza, è piena di borse della spesa e occupa due sedili. Gli altri sono tutti più o meno persi nel loro smartphone: io non ci penso nemmeno a tirare fuori dalla borsa il mio, in un posto tanto insidioso. Di fronte c'è una donna più o meno della mia età, mio Dio che taglio di capelli orribile, dovrebbero arrestare il suo parrucchiere per lesioni personali. Non si può vedere nemmeno il suo abbigliamento, roba dozzinale, però almeno ha accostato i colori con gusto. Quelle scarpe sono logore e fuori moda almeno da cinque anni: cielo, che orrore. Mi sta fissando un po' troppo intensamente, meglio che finga di leggere le mie riviste, non vorrei le venisse in mente di rivolgermi la parola: ho già visto troppe brutture oggi. Ecco il treno, faccio passare per prima una signora anziana piena di borse della spesa, almeno potrà sedersi, poi entro e mi siedo nel primo posto che trovo libero. Le porte fischiano chiudendosi e il treno riparte. Mi guardo intorno, la signora anziana ha trovato posto sia per lei che per la spesa, meno male. Poco più in là ci sono due ragazzini innamorati che si baciano. Che bella età la loro: si amano e non si preoccupano di altro che di dimostrarselo a vicenda. Godetevela finché potete! tutti gli altri sono presi con le loro cose, ognuno pensa ai fatti propri. Davanti a me c'è un uomo distinto e una donna bellissima: chissà se sono insieme, sarebbero una bella coppia, ma non si guardano nemmeno, mi sa che sono io che vedo coppie dappertutto. Lei ha una chioma bellissima, sembra uscita adesso dal parrucchiere, io non mi ricordo nemmeno l'ultima volta che ci sono andata dal parrucchiere... credo almeno sei mesi fa. Ha un vestito bellissimo, chiaro, molto attillato, le sta d'incanto, mette in risalto la sua figura senza renderla volgare. e quelle scarpe poi... credo costino più di quanto abbia speso io in scarpe da quando sono nata. Mamma mia quanto mi piacerebbe provare la sensazione di indossarne un paio del genere, almeno una volta nella vita, ma non mi capiterà mai. Vorrei sapere cosa si provi a vivere come quella gente, quella ricca intendo. Non vorrei avere chissà cosa, ma semplicemente non sentire più l'angoscia di non saper come fare la spesa e non avere più nel cassetto le bollette scadute da pagare, il patema di sapere che, se capitasse qualcosa di imprevisto, sarei con il culo per terra senza nessuno che mi possa aiutare. Ma Dio vede e provvede, sicuramente non vorrà che il mio piccolo Matteo patisca per colpa mia. Cazzo, mi sono incantata a guardare la signora e lei se ne è accorta, meglio che guardi altrove. Un’altra stazione e miei pensieri vagano. Non potrei mai fare la vita di quella poveraccia, sicuramente avrà difficoltà economiche e magari è pure sola come un cane, senza affetti, senza soddisfazioni, senza svaghi: mio Dio che vita vuota. La mia sì che è una vita come si deve. Posso permettermi quello che voglio, mio marito è un importante uomo d'affari che mi ricopre di regali: cosa desiderare di più dalla vita? Non ho mai dovuto lavorare in vita mia. Un’altra stazione e miei pensieri vagano. Come vorrei essere al suo posto. Bei vestiti, belle scarpe, niente preoccupazioni per l’avvenire. Credo che potrei abituarmi facilmente a vivere così, tra i negozi di lusso e i saloni di bellezza, tra le cene fuori e le serate con gli amici. No, ma chi voglio prendere in giro? Non riuscirei mai, mi basterebbe trovare un lavoro che mi garantisca un minimo di sicurezza, non chiederei di più, mi piace lavorare, darei qualunque cosa per un lavoro qualsiasi. Manca una stazione sola e potrò scendere da questo ricettacolo di infezioni. Sento prurito dappertutto, sa Dio cosa mi sono presa! Mi conviene avvicinarmi alla porta, non voglio rischiare di restare sulla carrozza un minuto di più, appena fuori chiamerò mio marito, spero possa venire a prendermi alla stazione, ho più di un chilometro da fare a piedi e non voglio rovinarmi le scarpe. Ho bisogno di una doccia, ma non sono l'unica a giudicare dall'odore che emana questa gente. Appena le porte si aprono mi proietto fuori, cammino sul lungo marciapiede che costeggia i binari cercando di non farmi urtare da nessuno, mi accodo sulla scala mobile: ancora pochi metri e sarò all'aria aperta. Verso metà scala vedo di nuovo la ragazza del metrò, sta salendo di buon passo la scalinata accanto, mi guarda ancora e sembra mi stia sorridendo. D'istinto le restituisco il sorriso, ma me ne pento subito, potrebbe aspettarmi in cima alla scala, con tutte le storie che si sentono. L'istinto me la fa sembrare buona e simpatica, ma le fregature si prendono dalle persone meno sospettabili, dopotutto. La testa riprende a martellarmi. Arrivo in cima e lei è già scomparsa, mi sfugge un sospiro di sollievo. Finalmente sono all'aria aperta. Manca una stazione sola. Penso alle parole da usare per dire a mio marito che non ho novità, mi pesa dover dipendere da lui in tutto, da lui che non ha un lavoro fisso e sicuro, che si arrangia a fare qualunque cosa gli capiti, che fa di tutto per mantenere decorosamente nostro figlio e me. Mi sento inutile e di peso per la famiglia. Scendo alla mia fermata, mi incammino veloce verso l'uscita. Faccio le scale quasi di corsa, ormai non vedo l'ora di andare a casa, di riprendere il mio piccolo Matteo che è dalla mia vicina di casa. A metà scala supero la signora distinta di poco fa, mi sembra una persona tanto buona e gentile, nonostante la sua aria di superiorità. Mi sembra quasi che mi stia sorridendo, chissà cosa penserà di una stracciona come me. Ma adesso corro verso l'uscita, respiro l'aria aperta e mi incammino verso il quartiere delle case popolari. Mi volto solo un istante e la vedo prendere la via opposta, certo, lei starà nei quartieri alti.
-
Commento Ora mi sento più al sicuro e posso chiamare mio marito. - Ciao Lorenzo, sei ancora al lavoro? - Sì, ne avrò ancora per un bel po' - Ah accidenti! - Che succede, Rosa? - Nulla, speravo avessi finito. Sono fuori dalla metropolitana, speravo in tuo passaggio. - Perché non hai preso un taxi? - Lascia perdere, è una storia lunga. Non importa, andrò a casa a piedi. - Aspetta lì, ti mando un autista. Dammi dieci minuti per organizzare la cosa. - Grazie Lorenzo, ma stasera ceni a casa? L'ho sentito chiaramente sbuffare, non sopporta proprio quando sono insistente, ma mangiamo insieme così raramente che avevo sperato... - No, Rosa. Ho una riunione di lavoro molto importante con Daniele, non ti conviene aspettarmi alzata, ci vediamo domani. - Va bene, mangerò da sola anche stasera... - Non fare la lagna adesso, cazzo possibile che ogni volta mi fai le stesse menate... devo andare adesso. Aspetta all'incrocio dell'ufficio postale, che mando qualcuno a prenderti. Il click della chiusura mi impedisce di replicare e soprattutto di salutare. Mi irrita quando mi tratta con sufficienza, ma non posso certo fargliene una colpa, lavora sempre così tanto per darmi una vita agiata, dovrei essere più comprensiva; invece finisco sempre per irritarlo. Mi sposto verso l'incrocio indicato da Lorenzo e aspetto l'auto della ditta, un'altra cena in quella casa enorme, da sola. Vorrei avere qualcuno con cui parlare, quasi quasi chiamo la moglie di Daniele, sarà sola anche lei, potremmo andare a cena fuori. Almeno ci faremo compagnia. Sì, dopo la doccia la chiamerò senz'altro. Mi incammino verso casa, ho un bel pezzo di strada fare e sono anche un po' stanca, ma l'idea di andare a prendere Matteo mi dà energia. Sono solo due chilometri, ma i piedi mi fanno male, ci metto una buona mezz'ora ad arrivare a casa, ma finalmente eccomi. Entro dal portone e faccio i due piani di scala quasi di corsa: mi manca il mio piccolino, non lo vedo da stamattina quando l'ho lasciato all'asilo. Suono alla porta della mia vicina sperando che Matteo sia contento di vedermi e non sia arrabbiato con me per averlo lasciato da solo. Mi apre Sonia, sorridendo, mi dice: - Ciao Viola. Com'è andata? - Malissimo, grazie - le dico sconsolata. - Mi dispiace, ma vedrai che troverai qualcosa presto. - Speriamo! Matteo? Dov'è il mio brigante? - L'ha già preso Valerio mezz'ora fa. - È già tornato? Bene, allora credo sia meglio che vada anch'io. - Aspetta. Mia zia mi ha portato troppe uova e se ne vuoi qualcuna te le darei volentieri, altrimenti mi andranno a male. Ma non farci una torta per me come hai fatto l'ultima volta! - Ah grazie, accetto volentieri le tue uova. Non ho fatto in tempo a fare la spesa... - Bene, allora tieni cara. Domani devo tenerti ancora Matteo? È talmente carino che lo terrei sempre con me e va molto d'accordo con il mio Luca. - Sì, lo so, sono molto legati, domani sono a casa anch’io. Non so come ringraziarti, Sonia. - Ma scherzi? Tutte le volte che mi hai tenuto Luca... ci mancherebbe anche che tu mi ringrazi. Per me è un piacere averlo qui con noi. - Allora vado a casa a fare la cena. Grazie di tutto. Scendo al mio piano ed entro in casa. Il consueto e rassicurante disordine fatto di una miriade di pezzi di lego, palline e pupazzi di peluche in terra mi dà il benvenuto insieme a quel rassicurante profumo di casa che senti solo se stai via per un po’. Appena varco la soglia Matteo mi corre incontro e mi abbraccia urlando: - Mamma, finalmente, ma dove sei stata? Lo sai che ho giocato tutto il giolno con Luca a un gioco diveltentissimo? E la maestla oggi mi ha detto che ho fatto un disegno bellissimo, lo vuoi vedele? Domani posso andale ancola da Luca? Salta urla, non mi dà il tempo di rispondere. Lo guardo: è tutto accaldato con i capelli arruffati ed è scalzo, come al solito - Quante domande amore! Anche tu mi sei mancato tanto. Dove sono i calzini? Lui mi guarda con i suoi occhioni supplichevole mi dice: - Non lo so, ma plima c'elano, davvelo mamma! - Dai corri a metterteli, dov'è papà? - Ti sta facendo una solplesa, ma zitta che è un segleto – mi bisbiglia strizzando gli occhietti nel suo buffissimo modo per fare l’occhilino. - Uhm andiamo a vedere che combina papà, vieni! Allargo le braccia e con un salto mi si avvinghia con le gambette sottili alla vita: che sensazione di pace infinita! Vado verso la cucina mentre faccio il solletico a Matteo che urla e ride come un pazzo. Eccolo lì, il mio fantastico maritino alle prese con pentole e fornelli. - Che cosa cucini? - Amore! Bentornata. Com'è andata? - Fammi un'altra domanda, per favore. - Ah capito. Hai fame? - mi chiede con un sorriso enorme che mi lascia sempre senza respiro nonostante stiamo insieme da otto anni. - Un po', ma che cucini? In casa non c'era più nulla. - Ho lavorato ai mercati generali e mi hanno dato delle cassette di verdura che non sono riusciti a vendere e con quello che mi hanno pagato, ho comprato una bella bistecca per Matteo. - Dio che maritino d'oro che ho. - Ma non è finita. Siediti. Mi metto seduta con Matteo sulle ginocchia e lo guardo piena di speranza. - Allora: un mio amico mi ha detto che cercavano dei giardinieri al vivaio vicino ai mercati generali e... - E... - Sono passato da loro tornando a casa e mi hanno detto che mi prenderanno per un mese di prova! - Dio mio che bella notizia! Quando cominci? - Domani! Finalmente una bella notizia, mi ci voleva proprio oggi, dopo tutte le umiliazioni. Aiuto Valerio ad apparecchiare e taglio la carne al piccolo Mattia. Mangiamo e scherziamo tutta la sera: forse qualcosa comincia ad andare per il verso giusto. Dopo cena crolliamo tutti e tre sul divano. L'autista mi ha appena lasciata a casa, entro e butto le chiavi nel portaoggetti del tavolino di cristallo dell'ingresso. accendo la luce, e guardo la sterile e immacolata pulizia del salone. È una bella sensazione entrare in una casa pulita e ordinata. Certo, la donna di servizio è molto brava, è una casa molto grande, ma è sempre in ordine. C'è da dire che a parte qualche cena con gli amici, non ci stiamo quasi mai nemmeno a mangiare. Lorenzo c'è raramente e quando c'è di solito mangiamo fuori. Niente figli che sporcano e mettono in disordine tutto, niente rumori, niente di niente. Vado di sopra a fare una doccia, ho bisogno di levarmi quel senso di sporcizia che ho addosso. Appena fuori dalla doccia chiamo Matilde per invitarla a mangiare fuori mentre gli uomini lavorano e lì ricevo una bella batosta. Mi sta dicendo che suo marito è già a casa da un'ora e che non è a conoscenza di nessuna riunione importante. Chiudo la telefonata salutandola sbrigativamente. Un sospetto terrificante si affaccia nella mente: Lorenzo ha un'altra. Di nuovo. Mi aveva giurato che non sarebbe più successo, non avrei mai dovuto credergli. Non mi vesto nemmeno: ho bisogno di bere qualcosa: Cerco sul ripiano del carrello degli alcolici qualcosa di abbastanza forte per stordirmi un po'. Opto per la vodka. Uno, due, tre bicchierini... mi brucia la gola e lo stomaco: non mi sento affatto meglio. Dannazione quanto sei idiota Rosa: hai rinunciato a tutto e ti ripaga così, solo pensare a lui mi dà la nausea, ma forse è la vodka. Corro in bagno, per il nervoso e l'alcool ingerito a digiuno, vomito tutto, i drink, la mia rabbia e la mia vita. Mi accascio sul pavimento del bagno. Mi vortica tutto, credo che potrei morire per come mi sento: sono a pezzi moralmente e fisicamente. Vorrei alzarmi per stendermi sul divano, ma le gambe non mi reggerebbero. Come tutte le mattine mi sveglio presto, preparo la colazione a Valerio e Matteo e sveglio il piccolino con mille baci, lui protesta nel suo lettino. - Dai, pigrone! Vieni a fare la pipì e a lavarti. - Ma mamma, ho ancola sonno... - Lo so, ma dobbiamo andare all'asilo a fare un altro bellissimo disegno per la maestra. È letteralmente innamorato della sua maestra e solo l'idea di andare all'asilo lo sveglia del tutto. - Andiamo a salutare il papà che oggi comincia un nuovo lavoro? Lui è già pronto nell'ingresso, lo vedo che è un po' agitato: non è facile cominciare un lavoro nuovo tutte le volte, a forza di assunzioni e licenziamenti comincia a dubitare di essere valido per qualcosa. Speriamo che questo duri un po', solo Dio sa quanto abbiamo bisogno di uno stipendio fisso. Valerio prende in braccio il piccolo e lo sbaciucchia sul collo facendolo ridere e protestare e poi lo mette a terra - Svelto, fila a fare colazione, birbante. Ci vediamo stasera. Lui corre via e io posso salutare mio marito con calma. - In bocca al lupo, tesoro. - Ciao piccola. Mi bacia dolcemente e io lo stringo forte - Tu vedi di riposarti che ieri sera eri troppo stanca, ma avrei tanto voluto... - Zitto! Matteo ci sente - ridacchio come una scema, quando mi parla così mi fa ancora arrossire. - pensa al nuovo lavoro, adesso. - Ringrazia il cielo che c'è Matteo di là, altrimenti ti farei vedere io. Il suo sorriso disarmante mi stende, le gambe faticano a reggermi. Lo bacio mordicchiandogli il labbro, lui grugnisce e mi allontana. - Viola, vai via o al lavoro non ci vado più. Ti amo. - Anch'io ti amo. Esce e mi lascia lì, un po' eccitata e con un sorriso ebete in faccia.
-
Commento Carissimo, ci ho riflettuto molto, talmente tanto che ho consumato scarpe e pavimento camminando su e giù per il salotto, ma eccomi qui a mettere da parte l'orgoglio e a scriverti. Ne abbiamo passate tante noi due. Eravamo piccoli e spauriti, siamo cresciuti insieme, sembravamo fatti l'uno per l'altra. Poi, col passare del tempo, ti ho dato per scontato e ho sciupato tutto. A un certo punto non mi sei più bastato e ho cercato altrove quello che tu non mi davi. In realtà avevo tutto ciò che mi serviva, ma no: io volevo di più. Non ho saputo trattenerti. È andata come ben sai ed è inutile rivangare. Quindi basta parlare del passato, sappi solo che mi manchi: mi sono resa conto di non poter vivere senza di te. Dico sul serio, da quando non ci sei più mi è successo di tutto, ho litigato con i miei che mi hanno incolpata del tuo abbandono e il proprietario del nostro appartamento mi ha inviato l'ingiunzione di sfratto: ha detto che non gli sembro affidabile. Mi si è pure rotta la macchina... mi va tutto storto. È come se la fortuna mi avesse voltato la spalle. Non esco più, a malapena mi lavo e mangio pochissimo: sono in pigiama da tre giorni, ma soprattutto, non ho più voglia di vivere. Sento il peso del fallimento sulle mie spalle e non ce la faccio più a reggerlo. Ora ti chiedo di colmare l'enorme abisso di solitudine e tristezza, di privazioni morali e materiali che si è creato tra di noi. Appianiamo le nostre divergenze e superiamo anche questo ostacolo. Ti prego, torna da me, sarà tutto diverso. Solo tu puoi impedire che io precipiti in questo abisso che tu hai creato. Tutti mi hanno detto: "Cercatene un altro". Come se fosse facile, di questi tempi. Ci ho provato, lo ammetto, e per brevi periodi l'ho anche trovato, ma tutte cose saltuarie, poco durature e soprattutto di poca sostanza. Così ho capito quanto eri importante per me: triste come ci si renda conto di quanto valga una presenza come la tua solo dopo averla persa, non ti pare? Prometto che mi impegnerò come non ho mai fatto finora. Ce la metterò tutta per far funzionare le cose. Ti giuro che non farò più la difficile, non mi inventerò più le mille scuse e il solito mal di testa per sfuggire ai miei doveri, non parlerò più male di te con gli amici e soprattutto non ti sminuirò più dicendo che non vali nulla. Quindi ti scongiuro, colma il solco che ci divide e torna da me, caro stipendio. Senza di te non ce la faccio a sopravvivere un giorno di più. Angelica
-
La dichiarazione d'amore Mia cara Mari, ti scrivo perché finalmente ho deciso di aprire il mio cuore e parlarti sinceramente: io ti amo. So che la cosa ti sembrerà strana, so che ti sarà difficile credermi ma è così. Io ti amo. Anche se siamo così lontani e così diversi. Anche se tra noi c'è sempre stato quel maledetto solco! Quello che tu tracciasti con un bastoncino quando da bambini un giorno ti proposi di giocare a marito e moglie: ricordo come se fosse ieri che la prima cosa che mi dicesti da moglie fu: “Ho il mal di testa”. Mari io ti amo, ti ho sempre amata anche se tu ti sei sempre barricata dietro a quel solco. Quando da compagni di classe alle medie ci trovavamo a casa mia o tua per studiare e tu volevi sempre e solo studiare. I miei amici mi tolsero il saluto perché avevo voti troppo alti. Anche volendo non sarei riuscito a prendere un'insufficienza. Anche mio padre si era preoccupato e pensava che non fossi suo figlio! Per non parlare di come la cosa sia degenerata alle superiori. Mi sono iscritto a Ragioneria solo per stare con te, e ancora abbiamo studiato assieme e Dio solo sa cosa non ti avrei fatto ma tu niente! Sempre solo studiare. Se solo sapessi dove avrei voluto mettere la mia lingua ma non ho mai potuto; eppure a scuola mi davano del “lecchino” perché avevo voti troppo alti. Quel solco! Tutto è nato da lì! Mi dicesti: “Non oltrepassarlo”. Infatti non ci sono mai riuscito. È stata dura restarti accanto tutti questi anni, vederti amare altri uomini e soffrire per loro mentre io soffrivo per te. Tante volte avrei voluto pronunciarmi ma c'era sempre qualcosa che me lo impediva. La prima volta fu al cinema, andammo a vedere un film di produzione polacca in lingua originale con i sottotitoli in tedesco. Poco dopo l'inizio del film misi il mio braccio attorno alla tua spalla pensando che di lì a poco mi sarei dichiarato. Verso la metà del primo tempo mi sentivo come se il mio braccio fosse diventato un formicaio gigante. Dovetti usare l'altra mano per recuperarlo. Più volte cercai di parlare ma venivo sempre interrotto da qualche tua recensione sulle qualità artistiche degli attori o del regista. Non che non le apprezzassi, però. Quando il film stava per finire capii che non mi restava molto tempo. Presi un lungo respiro e feci per parlare ma tu… tu scoppiasti a piangere come una bambina dicendo che non avevi mai visto una storia così commovente. Non riuscii a proferire parola. Era il solco che tornava. Un'altra volta fu quando decidesti di correre una Maratona. Ed io fui così folle da seguirti in quell'impresa. E chi lo sapeva che una Maratona è lunga quarantadue chilometri? Ci provai alla partenza a dirti che ti amo ma tu mi interrompesti dicendomi che era meglio risparmiare fiato; mi ripromisi di parlarti alla fine ma, ad essere sincero, su quello che successe dal settimo chilometro fino alla fine ho un vuoto di memoria. Ricordo solo che mi ci volle una settimana prima di riuscire a camminare normalmente senza sembrare Frankenstein Jr. Mari perché hai tracciato quel solco? Ogni volta che provo ad avvicinarmi a te succede qualcosa che mi impedisce di parlare e dichiararti apertamente il mio amore. Come quella volta in cui andammo a fare una passeggiata in campagna e tu ti spaventasti nel vedere un calabrone che ti ronzava attorno. Capii che era il momento di dimostrarti quanto ti volevo bene e cercai di allontanare quella bestia da te. A ripensarci mi sembra di sentire ancora la sirena dell'ambulanza che mi portava all'ospedale in preda ad uno shock anafilattico. Mari, io morirei per te. Farei di tutto per averti ma come posso fare per dirtelo? Le ho provate tutte. Ho provato a cantare al Karaoke “Ti amo” di Umberto Tozzi ma tu, anziché ascoltare la mia esibizione, uscisti a fumare con Enrico. Tornaste dopo quasi un'ora e tu avevi ancora la sigaretta in mano. E quando una notte d'estate provai a scrivere “Ti amo” sulla sabbia, proprio davanti alla tenda in cui dormivi tu. Ma la sfortuna volle che proprio quella notte al posto tuo si fosse messa tale Adriana,noto trans palestrato della zona. Molti lo trovavano invadente, io direi “invasivo”. Mari io non sapevo più cosa inventarmi. Per questo ti ho scritto. Come vedi, così facendo, ci sono riuscito ad aprirmi e confessarti i miei sentimenti. Se solo avessi il tuo indirizzo.
-
Titolo: Foglie Autore: Francesco Mastinu Editore: Amarganta Genere: LGBT/Romantico Collana: Narrativa Italiana Pagine: 344 ISBN Ebook 978-88-99344-26-9 nei maggiori store online ISBN Cartaceo 978-88-99344-25-2 acquistabile ne sito dell'editore e su Amazon Anteprima: Allegata PDF, (Abbiate pazienza, l'ho realizzata io) Quarta di copertina: L’arrivo della piccola Ginevra nella vita di Mirna non compensa completamente il vuoto lasciato dalla partenza di Manlio, padre della bambina, suo grande e impossibile amore. La vita di tutti i giorni, la solitudine e la stanchezza, conducono la protagonista a un baratro dalla disperazione appena alleviata dai progressi della piccola e dalla vicinanza di Alba, sua amica da sempre. È questo lo scenario di destini incrociati e di fatalità che sull’onda della passione, del dolore e del rimpianto condurranno Mirna a comprendere il significato vero del trascorrere del tempo. Sospinti dal vento come foglie, i protagonisti della saga Emozioni del nostro tempo cresceranno a dispetto del gioco di emozioni circolari che sembrava aver monopolizzato la loro esistenza. Perché poi le cose non potranno più essere le stesse. Foglie anteprima.pdf