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Salve, sto cercando di utilizzare il pov in prima persona. Questo è un estratto di un racconto più lungo. Il mio interesse è nel sapere sia se sto utilizzato il maniera corretta il pov in prima persona focalizzato con lo stile show. Soprattutto volevo sapere se fosse chiaro o se stucca e tutto quello che non va bene. Le descrizioni scelte sono corrette? ... Concept: Carla arriva un ufficio con una scarpa rotta e si mette a lavorare. Premo i tasti della tastiera meccanica senza sosta. Nome cliente - invio. Indirizzo abitazione - invio. Cosa ha acquistato? Quanti colli servono per la spedizione? Quante scorte rimangono in magazzino?... Continuo a rispondere al questionario e scoccano le tredici. Il tempo passa veloce. Apro la borsa, mi aumenta la salivazione: i due tramezzini al salmone e Philadelphia del discount impacchettati nella plastica sono là. Dò un morso al primo. La cremosità del formaggio si impasta al pesce tiepido. Chiudo gli occhi e sono in un ristorante a cinque stelle davanti a una spiaggia. Il garrito di un gabbiano sopra la mia testa. Succhio la carne dell'ostrica spruzzata di limone. Magari! Finisco i tramezzini, butto l'incarto nel cestino sotto la scrivania e riprendo il lavoro con un sospiro. Riempio pagine di excel, sono alla numero trentasei. Mi fermo e scrocchio le dita. I numeri sullo schermo si sfocano, mi bruciano gli occhi e strofino le palpebre. Sono le diciannove e un minuto. È arrivato il momento di andarmene. Premo il bottone di spegnimento sul case e acchiappo i miei effetti personali. Stringo la scarpa rotta nella mano, apro la porta piano piano e faccio capolino con la testa: nessun altro sta uscendo dal suo ufficio; staranno ancora facendo le loro cose. Sgambetto fino alla Hall: nella stanza c'è solo la tizia con la faccia anonima dietro al bancone. Non ricordo il suo nome. Dice: «Buona serata.» Faccio un cenno con la testa, le do le spalle e vado verso l'uscita in vetro di fronte a lei. Quando la porta scorrevole inizia muoversi una voce sguaiata dietro di me fa: «Ehi, Carla! Ti va di...» Giorgia. Se sentissi di nuovo le parole 'pupa', 'anello' e 'fidanzato' nella stessa frase potrei mettermi a urlare, perciò aumento il passo e senza voltarmi supero i gradini d'ingresso. Il buio mi investe e le dita del piede si accortocciano al contatto del porfido sul marciapiede. Si vedono le stelle, un lampione rischiara la strada. Supero vetrine di negozi con luci spente, il ronzio di una mosca fa avanti e indietro vicino l'orecchio. Sventolo la mano. Arranco, i fari di una macchina sbucano da un incrocio più avanti, l'auto imbocca la strada principale e le ruote girano sull'asfalto con un fruscio costante sempre più forte via via che la figura si ingrandisce. Una specie di Caparezza giovane tira fuori la testa dal comodino. «Ah, splendida! Faccele vedere!» Alzo le sopracciglia e vado avanti. Al portone di casa mia, schiaccio la testa sul legno e inserisco la chiave nella serratura. Mi tolgo anche la scarpa intera e corro per le scale. Raggiungo il secondo piano, varco l'ingresso del monolocale con alcune giravolte, lancio la borsa sulla montagna di vestiti appoggiati alla mia personalissima sedia porta-oggetti e con l'ultimo giro mi butto sulle lenzuola disfatte. Odore di cipolla e aglio aleggia in tutto il locale. Il mio stomaco gorgoglia. Chissà cosa stanno cucinando i vicini? Combatto contro la forza di gravità e alzo il corpo con una protesta lamentosa del letto. Lancio le scarpe sotto il lavandino dell'angolo cucina. A mai più arrivederci! Mi siedo davanti al tavolo a incasso e tiro fuori il cellulare. Fisso il contatto di Thomas su WhatsApp e sospiro. Non cederò questa volta. Lo sblocco; giusto per sbirciare quando fosse stato online l'ultima volta. La sua foto profilo. Le mie pupille seguono i lineamenti della figura. Passare le dita nella capigliatura alla Johnny Depp e fargli i grattini sulla schiena. Quando gleli facevo lui diceva: «Gratta più a destra, ora a sinistra. No, un po' più giù.» «Ma dove? Non capisco!» Ci mettevamo a ridere... Carla smettila, non devi farti questi pensieri ! No! *Finestrino, non comodino
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Si sfiorò solo il polso destro, dove le dita dell'altro avevano cercato di afferrarlo. Lo fece ripensare al quadro, agli altri sogni osceni di Rubens: le carni rosa e bianche, la loro abbondanza, il tremolio d'acqua con cui il piacere sembrava propagarsi come movimento o danza da un corpo all'altro, in un'orgia di materia sensibile e viva. Una pulsazione, greve come musica, come quel suono nella sua testa. Il brivido che ne trasse fu così discreto che poté raccontarsi di non averlo sentito. * Era un mese prima. Era pieno inverno. Erano le 10.27 del mattino e lo Sconosciuto era disteso su un letto d'ospedale assediato da un grappolo di medici. Aveva finito di prepararsi per l’esperimento di Emersione del paziente Ian Harlow, anni 43, stanza 206 del New York-Presbyterian Hospital. Era terrorizzato. “Ricordati che è solo un esperimento, ok?” James Finch, medico neurochirurgo e suo amico da quando aveva cinque anni e mangiava i pastelli a cera, lo guardò mentre controllavano le cannule e preparavano l’anestetico. Visto da quella prospettiva, sembra una qualche presenza divina. “Non fare l’eroe. Non metterti a rischio per salvarlo a tutti i costi. E’ in coma da 15 anni e non possiamo sapere se la sua mente sarà pronta a tornare o meno. Nessun coinvolgimento emotivo, te lo ricordi vero?” Lo Sconosciuto annuì. “Non c’è niente di cui aver paura. Ti sveglieremo noi. Non è compito tuo tirarlo fuori da là, raccogli solo dati su tutto ciò che vedrai e di cui avrai esperienza, nient’altro. Siamo dottori, non filantropi, ok?” Annuì di nuovo. Un’infermiera informò il dottor Finch che l’anestetico era pronto. “Non avere paura” gli ripeté posizionandogli la maschera sul viso, “ti seguiremo 24 ore su 24. Ora conta all’indietro partendo da dieci” Lo Sconosciuto sentì il cuore martellargli nel petto. La vista gli bruciò un po', si velò d'acqua. La chiazza di luci e ombre di James si chinò su di lui. Gli asciugò una lacrima con il polpastrello della mano. "Ehy - ehy. Cosa ti ho detto? Non ti perdiamo d'occhio un attimo, lo giuro. E se vedo che le cose vanno per le lunghe, ti tiro fuori io, costi quel che costi, ok?" Lo Sconosciuto prese un respiro che rimbombò e vibrò nello spazio del suo cranio. Per l'ultima volta, annuí. James sorrise dietro la mascherina. "Così mi piaci. Dentro, fuori, e poi una quantità disgustosa di soldi dall'università per il mio indebitatissimo amico, e la gloria medica per me. Andrà bene". Si rimise dritto. "E ora, conta con me" Lo Sconosciuto obbedì. Si riempì gli occhi di ciò che poteva ancora vedere del mondo - il luccichio dei vassoi di metallo nel sole pallido, le voci mormorate delle infermiere, persino la linea verde che disegnava il suo battito su uno schermo - tutto, tutto, prima del salto, prima di affondare dentro un altro. Dall'altra parte, la fine dei debiti studenteschi, un amico felice; la sua vita, migliore, più leggera. Ma in mezzo, in mezzo? Dio, non lo sapevo. Dio, come aveva fatto a credere che non avrebbe fatto paura. Prima che dovessero dirglielo di nuovo, aprì la bocca. Cominciò a contare. “Dieci… nove… otto… sette…” L’ultima cosa che vide fu il paio di occhi nocciola di James. “Niente pazzie, niente eroismi. Guida piano, Gary Miller” Gli si chiusero gli occhi. Si addormentò. Ci fu un suono che lo accompagnò giù, il suo battito tradotto nel bip dell’elettrocardiogramma. Era un suono ritmico, meccanico nel suo modo di riverberarsi, greve da tremare nello stomaco e riempire ogni interstizio della sua mente. Poi sparì nel silenzio da cui era venuto. Nelle ossa del suo cranio, nei denti, nello stesso pulsare del sangue percepiva tuttavia ancora l'eco di quel suono, come se il suo intero organismo fosse un diapason messo in vibrazione da una mano sconosciuta. Un secondo battito cardiaco, quindi - ma elettrico, ed enorme, e senza armonia. Gary Miller non era più a New York.
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Lo Sconosciuto nascose un mezzo sorriso; scrollò le spalle. Non disse mai le parole d'accordo sul non essere d'accordo, ma Ian le sentì limpide come se fossero state pronunciate ad alta voce. Non se la prese davvero. In una piega nascosta dentro di sé sapeva di amare quelle discussioni, il sottile gioco di scherma dei botta e risposta, le manipolazioni di parole con cui quello straniero cercava di scassinare i suoi segreti. Costringevano il suo cervello a lavorare; lo inducevano a muovere circonvoluzioni di esso rimaste immobili per anni, a evocare una parte maggiore delle sue forze. "Come preferisci" disse lo Sconosciuto. "Non ti importa, d'accordo. A me invece i musei piacciono parecchio. Sono luoghi riposanti, soprattutto quello della mia città - quello vicino al parco, museo di storia e arte, sono sicuro lo conoscerai. Ogni tanto ci vado in pausa pranzo, anche se spesso le mie pause sono ad orari abbastanza strani, e visito un paio di sale completamente a caso. È un gioco che mi diverte. Soprattutto quando non ne so niente" Ian non fece commenti, ma alzò le sopracciglia quando l'altro incrociò il suo sguardo. Lo Sconosciuto lo interpretò come un incoraggiamento, non del tutto a sproposito. "Beh, una delle ultime volte mi sono infilato in una sezione che non avevo mai visto. Arte Europea. Arte Europea dell'età Moderna, per essere precisi. Credo fosse specificamente - ah, sì, la sezione sul Barocco, ecco" Ian stava ancora mescolando il tè nella sua tazzina. Rallentò il movimento senza volere. "Mi è piaciuta parecchio. Mi è piaciuta la passione di quegli artisti per quei colori scuri, i volti - e per i corpi, brutti o belli che fossero. Oh, e i ritratti. Quelli sì che sono interessanti" Lo Sconosciuto si grattò una guancia. Poggiò le mani sulla chiave di volta di quell’arco austero, si preparò a far forza e a toglierlo dal centro. "C'era un quadro, poi - uno di quelli fiamminghi, se non sbaglio. Non medievale, però. Piuttosto grosso. Rappresentava una coppia - un uomo magrolino e con un grosso cappello e sua moglie, una di quelle generose signore barocche, vestita di nero. C'era anche un bambino, un povero piccolo disgraziato biondo avvolto in una di quelle terribili sottane leziose. Scelte di moda a parte era molto bello, molto vivo: credo che il pittore fosse uno di quelli famosi di quel periodo. Mi sfugge il nome. Ma comunque..." Lo Sconosciuto continuò la sua storia. Ian smise di ascoltarlo. Rimase solo l'eco delle cose dette, la forma che inevitabilmente stavano prendendo nella sua testa. Le mani gli sudarono intorno al cucchiaino da tè. Il suo campo visivo tremolò in una vertigine e fu costretto ad alzare gli occhi verso un punto impreciso davanti a sé, al di là dello straniero. Fu quello a perderlo. Se fosse stato un altro dipinto, anche di quello stesso secolo, anche della stessa meravigliosa mano, sarebbe stato in grado di controllare la propria reazione, di simulare un passeggero interesse. Invece fu quello: e quando Ian ne sentì la descrizione nelle parole secche dello Sconosciuto venne invaso da un’associazione di idee, ricordi, immagini - le immagini, la sua dannazione: la forma meno ragionevole di ricordo, quella di cui la sua anima sapeva liberarsi meno efficacemente - così veloce che non poté anche solo pensare di frenarla. Fu un puro tradimento del cuore, e più insidioso perché scaturito da una parte di cuore che avrebbe dovuto essere morta. Ritornò la memoria di quelle figure, della carta opaca e spessa del libro d'arte; rivide nel suo occhio interno l'uomo con il cappello in piedi contro il verde del giardino di piacere, la bellezza di burro della donna al suo fianco, il bimbo ai loro piedi. Arrivò la commozione. Le parole gli rotolarono fuori dalla bocca come un respiro. "Rubens" sussurrò. "L'autoritratto con Helena Fourment e Frans. 1635-40, probabilmente 1640-" Ian si zittì. Era già troppo tardi. Il viso dello Sconosciuto si illuminò, come se gli avesse appena fatto un meraviglioso regalo già mezzo atteso. Ed ecco, la chiave di volta non c’era più. Tutto iniziava a crollare. Ci mise molto a rispondere. Molto. Poi: "... Sì," disse, "sì, credo fosse proprio quello il dipinto. Te ne intendi, direi" "So qualcosa" "Questo non è saperne qualcosa" "Tutti hanno i propri passatempi," disse Ian in fretta, "anche i bibliotecari. Ho letto qualche libro" “Questo non è proprio possibile, mi dispiace. Non in una biblioteca dove la sezione di storia dell’arte è completamente assente. Solo quella. Non credo sia un caso”. Lo Sconosciuto abbozzò un mezzo sorriso. "E sinceramente dubito che chi lo fa per hobby pronunci il nome di un pittore così" "Così come-" "Come il nome di un amante" Ian lasciò andare il cucchiaino, un tintinnio di metallo contro il marmo del tavolino. Arrossì. Si odiò per quella concessione al gusto discutibile dello Sconosciuto, che gli aveva spesso detto quanto gli piacessero su di lui quei fiotti visibili di pudore. "Sei volgare" sibilò. "Non vedo perché. Non era affatto una critica, se vuoi saperlo" "Non è niente di così strano invece. Ho semplicemente un certo senso estetico" Ian sbatté le palpebre. "Ho anch'io gli occhi per vedere se qualcosa è sublime" aggiunse, ed ebbe l'impressione che anche quella risposta l'avesse compromesso in un modo che in parte gli sfuggiva. Lo Sconosciuto sorrideva ancora. "Sai, all'università ho diversi amici in quel dipartimento - professori ordinari, dottorandi in storia dell'arte. Passano buona parte delle loro giornate perdendo la vista su cose come la raccolta completa di incisioni della Malinconia di Rembrandt, o la corrispondenza di Raffaello, o le ultime emissioni di pagamento della Corte inglese a Van Dyck: sono tra le persone più felici che io conosca. Gente matta, ma molto interessante. Credo però che tu sappia come funzionano queste cose" Ian calcolò cosa dire. Si impose una certa cordialità. "Oh, no, qui ti devo fermare - qui c'è un palese errore di valutazione. Per l'ultima volta, io non so niente di dottorati o di storia dell'arte. Non ho nessun interesse a saperne altro". Sollevò lo sguardo verso il suo. "Sono un semplice bibliotecario. E non sono affatto un uomo ambizioso" Si era aspettato una protesta; al limite una battuta di dubbio gusto, un pungolamento verbale. Invece non ci fu niente del genere. Lo Sconosciuto smise di aggiungere zucchero alla sua tazza - due bustine già smembrate sull'orlo del piattino - e sgranò un poco gli occhi. Sembrò sgomento, abbastanza perché Ian ne fosse compiaciuto e allarmato allo stesso tempo. Poi scoppiò a ridere. Forte. E disse una sola parola. "Stronzate" Ian serrò la mascella. "Prego?" "Stronzate," sghignazzò quando riprese abbastanza fiato per farlo, "oh, questa è la più grande stronzata tra tutte quelle che tu mi abbia mai raccontato, cosina" Ian ricevette quella reazione e quelle parole con un momento di perfetta immobilità. Era la prima volta che sentiva ridere lo Sconosciuto: la prima risata che sentiva da un tempo che non voleva calcolare, in realtà. Gli parve molto forte, molto vicina: si aspettò di vedere crepe emergere ovunque avesse esteso la propria vibrazione sguaiata - sulla superficie del tavolino, lungo la sua spina dorsale, sulle macchie di colore che percepiva con la coda dell'occhio e che avrebbero dovuto essere altre persone. Ian ridusse gli occhi a due fessure furenti. "Come osi offendermi-" "Oso offenderti quando racconti palesi bugie. A me. A te". Ogni traccia di riso era scivolata via dal viso onesto dello Sconosciuto: aveva lasciato solo un quieto sorriso. Gli occhi, quelli che avevano tormentato le giornate di Ian da un po', erano ancora puntati su di lui. "Ascoltami bene. Tu sei la persona più maledettamente ambiziosa che conosca, Ian. È un semplice fatto" "Non è vero. Io non sento nessuna ambizione" rispose con un filo di voce. "Non senti tante cose. Non te lo permetti. Così come sei ora, sei meno di un quarto dell'uomo che potresti essere davvero" Ian trasalí un poco. "Questo è stato crudele. E superfluo" "Non hai detto che è falso" "E tu giochi con le parole". Ne aveva abbastanza. Abbandonò tovagliolo e cucchiaino, la tazza ancora intatta. "Al contrario di ciò che ti compiaci tanto di pensare, non sono costretto a stare qui a farmi insultare" Si alzò di scatto. Uno shock di contatto, a fermare l'impulso del suo movimento: le dita dello Sconosciuto gli si erano strette intorno al polso, calde, magre - gentili, che era forse la cosa più intollerabile. Così come era arrivato il tocco, arrivò anche quel suono metallico, di nuovo: gli attraversò la mente rimbombandogli nel cranio, e costrinse Ian a portarsi la mano libera alla tempia. Succhiò aria fra i denti. “Lo senti anche tu vero?” disse lo Sconosciuto con tono fermo e serio. “Quel rumore nella testa. Lo sai che cos’è, vero Ian?” “Non- lasciam-” “E’ il suono della macchina dell’ECG. E’ forse l’unica cosa vera all’interno di questa vita insieme a noi due” Ian si sottrasse con uno strattone. “Guardati intorno" continuò l'altro. "Le persone non sono nemmeno realmente persone. Non sono qui. Appena ci voltiamo siamo soli. Solo io e te Ian” Ian non si mosse. Non guardò la strada deserta, le sedie improvvisamente vuote, perché non ce n'era alcun bisogno. “Sparisci dalla mia vista” sibilò, massaggiandosi il polso. Sentì lo Sconosciuto accordargli la vittoria con grazia. Si riaccomodò sulla sedia. "Benissimo; benissimo. Libero di andare. Io sono qui". Si addossò contro lo schienale, incastrando uno scarponcino negli intrichi di ferro battuto del tavolo. "Non me ne vado, cosina. Ormai lo sai" Ian lo sapeva. Non gli concesse la soddisfazione di una conferma. Si costrinse invece a voltarsi, a incamminarsi verso la biblioteca a passo sostenuto - era infatti di nuovo mattina, di nuovo le otto in punto dell'inizio del suo turno, esattamente come desiderava - senza controllare sopra la propria spalla neanche una volta se una figurina in impermeabile chiaro fosse ancora seduta a guardarlo.
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Era una buona vita. La biblioteca dove lavorava era spaziosa, semi-deserta, precisamente ordinata; in città c'erano un paio di buoni caffè in cui si poteva andare a fare finta di leggere. Il clima e le persone si assomigliavano, entrambi miti e gradevoli abbastanza da essere dimenticati a comando. Al lavoro, Ian non doveva mai pensare a cose come il denaro, i documenti d'identità scaduti, i corsi di aggiornamento, l'iscrizione di nuovi utenti o l'acquisto di altri libri. C'era solo la sua giornata, in una ripetizione senza fine come nei labirinti di specchi. Non era interessante; non importava che lo fosse. L'unica irregolarità - ma trascurabile - era quel battito. Non era veramente un battito biologico, ma Ian non poteva pensare a una definizione più adatta per quel suono pulsante ed elettrico che ogni tanto gli capitava di sentire. Un tonfo ritmico, meccanico nel suo modo di riverberarsi; greve abbastanza da tremare nello stomaco come musica. Non poteva mai prevederlo. Semplicemente arrivava, e montava rapidamente in un crescendo fino ad assordarlo e annullare ogni altro suono nel mondo, prima di svanire nel silenzio in cui era venuto. Ian si svegliava; apriva gli occhi sulla sua camera. Ne catalogava gli elementi conosciuti e confortanti come faceva in biblioteca con i nuovi arrivi: la libreria vuota, i vetri puliti delle finestre senza tende, la scrivania di cedro perfettamente spolverata. Nessun armadio, nessun abito lasciato in giro: Ian si vestiva con gli stessi abiti ogni giorno, e quegli abiti non erano mai stati realmente comprati da qualche parte e non avevano mai bisogno di essere lavati o stirati. Ogni mattina Ian li indossava con un'attenzione che piegava gentilmente i limiti del plausibile, e che gli permetteva di non toccare mai il proprio corpo da nessuna parte dal mento in giù. Non toccare il proprio corpo più del necessario era molto importante. Nella sua stanza era tutto al proprio posto. Ian ne traeva un consueto piacere: ma nelle ossa del suo cranio, nei denti, nello stesso pulsare del sangue percepiva ancora l'eco di quel suono, come se il suo intero organismo fosse un diapason messo in vibrazione da una mano sconosciuta. Un secondo battito cardiaco, quindi - ma elettrico, ed enorme, e senza armonia. Non accadeva spesso, non troppo almeno, ma quando il pulsare si presentava tendeva a rimanergli incastrato nella testa per tutta la giornata, scandendo con il suo grave ritmo metallico le sue giornate a lavoro, il fruscio della penna sulle pagine del registro della biblioteca o i suoi passi contro il parquet del pavimento. Non c'era mai un sogno legato a quel suono, nessuna immagine o ricordo. Eppure un sogno doveva esserci, anche se non lo ricordava, come non ricordava d'altronde nessuno dei suoi sogni. Doveva essere così perché il suono si presentava quasi sempre al mattino, e di notte Ian faceva qualcosa che assomigliava al sognare. Ma il suono non era importante. Era una buona vita. Fuori dalla finestra alle volte il cielo era inondato dalla luce del mattino, altre volte la città brillava nel buio; la gente al lavoro diceva buongiorno e poi buonanotte. Nel suo attico di pareti bianche accanto alla libreria c'erano un letto singolo, un comodino con un libro e nient'altro. Era abbastanza. Non c'erano né la cucina né il bagno. Non ce n'era bisogno. Ian non ne aveva bisogno. * Lo Sconosciuto si era presentato alla biblioteca di prima mattina, come aveva preso l'abitudine di fare da quando era arrivato lì. Quando Ian emerse dalla torre libraria, in mano tre grossi volumi sulla letteratura inglese del Seicento da dare in prestito, si bloccó ingoiando un soffio. Le sue scarpe di pelle diedero uno stridio contro le assi del pavimento. "Ancora tu" "Ancora io, sì" Ian poggiò i libri sul bancone del punto prestiti. Erano gli stessi tre identici volumi presi ogni mattina da quando lo Sconosciuto era approdato in quella terra di nessuno. Gli stessi identici libri ogni mattina, lo straniero ne era sicuro anche senza averlo dovuto chiedere. "Che libri desideri?" "Non cerco libri" rispose lo Sconosciuto, "cerco altro" "Io non so chi tu sia" iniziò Ian con un filo di voce (lo straniero non seppe mai se il suo modo di parlare fosse una condizione medica o una sua scelta deliberata), "ma desidero che tu sparisca. Sei qui, ogni mattina, mi dai il tormento e non riesc-" "Ti va di fare un salto alla caffetteria qui davanti? Credo di averne vista una. Oppure, beh, ce ne sarà sicuramente una se tu la desideri, giusto?" Ian tentò di ribattere con qualcosa che fosse più efficace di un 'sei un impertinente', ma non ne uscì nulla di più significativo di un boccheggiare senza suoni. Lo Sconosciuto prese quella breve agonia per un assenso. "Molto bene. Andiamo allora" "Io qui sto lavorando" "Oh, oh certo. Giusto". Fece una pausa, si guardò nuovamente attorno con fare distratto e canzonatorio. "Beh, sbrigati, ti aspetto fuori" tagliò corto. Non gli diede tempo di ribattere. Lo Sconosciuto attraversò il salone della biblioteca con il suo solito passo disordinato e puntò verso le porte girevoli da cui era entrato. Poi, per caso, il suo sguardo cadde su delle librerie al di là di un paio di tavoli in mogano lucido. Si fermò. Osservò le sezioni di Musica, Teatro e Architettura. Nella biblioteca del suo quartiere, lo Sconosciuto era un assiduo frequentatore della sezione dedicata all'architettura e all'urbanistica, dato che nella sua vita vera - quella formata da giornate reali e tangibili e complesse tanto quanto la metropoli in cui viveva - era all'ultimo anno del suo dottorato in Architettura e design urbanistico. Sapeva bene, dunque, che secondo la catalogazione decimale Dewey storia dell'arte si collocava esattamente fra la sua amata architettura e la fotografia. Ma lì non c'era niente. Lo trovò parecchio strano. "Hey, cosina" chiamò tornando al bancone dei prestiti, "avete libri di storia dell'arte?" Ian trasalì. Per un momento pensò di iniziare una nuova discussione interamente dedicata al fatto che fosse sconveniente oltre ogni ragionevolezza chiamare un estraneo cosina, come se fosse una bambola di porcellana nel salotto di una nonna inglese. Preferì, tuttavia, far cadere la faccenda. "I volumi di architettura sono là in fondo, a destra" "Non architettura, storia dell'arte. Parlo di pittura, scultura, affreschi. Tutta quella roba lì. Avete libri delle opere di, che ne so, Hopper? Caravaggio? Raffaello?". Lo Sconosciuto fece mulinare le mani nell'aria come per afferrare qualcosa di invisibile. "...Rembrandt? Almeno lui lo conosci?" Fu quel nome, quel Rembrandt, a farlo trasalire. Qualcosa in quella sola ultima frase aveva toccato e offeso Ian molto più di quanto non avessero fatto le parole dello Sconosciuto da quando era approdato in quel mondo. Il suo viso si trasformò in una maschera di gesso. Strinse le labbra in un'unica linea rosa, i muscoli della mandibola tesi sotto la pelle chiara e i grandi occhi blu puntati dritti in quelli dell'altro. Il suo cambiamento d'espressione in qualcosa di più duro e spigoloso e, se possibile, più irraggiungibile, colpì lo Sconosciuto con la stessa rapidità di un treno in corsa. Ne fu stupito e scosso allo stesso tempo. Almeno era qualcosa di nuovo. "Non abbiamo niente del genere qui" rispose alla fine, monocorde. "Come ho detto, la sezione di architettura è là in fondo, a destra" Ian prese i libri e sparì nuovamente nel retro. Dopo un silenzio lungo minuti, lo Sconosciuto si voltò di nuovo verso le scaffalature. Ian sarebbe venuto comunque con lui: non ne dubitava. Si incamminò di nuovo verso l'uscita con le mani premute nelle tasche dei jeans. Mentre lasciava scorrere gli occhi sulle sale - deserte e popolate al tempo stesso, al modo disturbante di quella città - sui soffitti alti e le travature di pietra bianca, più quelle di un college britannico che di una biblioteca di provincia, allo Sconosciuto venne in mente il concetto di chiave di volta. Perché Ian avrebbe dovuto eliminare la sezione d'arte dalla sua biblioteca? Perché non c'è arte nella sua mente? Perché ha reagito così? Non doveva esser stata una scelta casuale: niente lo era in quel mondo adatto a tenerlo sospeso in eterno. Niente lo era se riguardava Ian. Lo Sconosciuto diede un'ultima occhiata alla sala prima di uscire nel sole. Niente storia dell'arte… come se fosse qualcosa a cui avesse voluto smettere di pensare. L'unica cosa che Ian ha avuto premura di censurare nella sua buona falsa vita sospesa. E Rembrandt? Gli sovvenne di nuovo l'immagine della chiave di volta, della pietra portante su cui tutte le forze di un arco si concentrano. Tolta quella, crolla tutto. Non era forse lo scopo della sua missione quello di trovare la chiave di volta dentro Ian Harlow, paziente della stanza 206? Immaginare l’ascetico rigore di quell’uomo che stava solo cominciando a conoscere mescolato alla calda morbidezza dei quadri fiamminghi lo fece sorridere. Sembrava un incendio dannatamente giusto. Lo Sconosciuto si mise ad aspettare Ian all'ombra di un albero accanto alla biblioteca. Prese un respiro e si preparò a togliere la chiave di volta. * Lui e lo Sconosciuto sedevano nel dehor del caffè. Avevano già ordinato senza aver dovuto pronunciare una sola parola; i tavolini intorno al loro erano occupati da un modesto numero di persone che non prestavano loro attenzione. Stavano facendo il loro solito gioco. Ian parlò guardando il bordo di porcellana della sua tazza. "Credevo non potessi dare troppi dettagli sul luogo da cui vieni" "Non ne ho dati. Il resto l'hai dedotto tu. Ho solo parlato di cose che in realtà tutte le città del mondo hanno - biblioteche, università, negozi di dischi. Musei. Hai musei, qui?" "No" rispose Ian, la voce appena percepibile sopra il mormorio degli altri clienti. "Non ne ho bisogno" "Mi sembra strano che un uomo come te non abbia bisogno di un museo" "Hai un'idea altamente sfalsata del tipo di uomo che sono"
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Un racconto ispirato a una chitarra, un dipinto di Edward hopper e ad alcune storie realmente accadute Era seduta al caffè della stazione da quasi un’ora. Sotto le falde del cappellino i suoi occhi pensosi contemplavano il fondo della tazza del tè che girava e rigirava tra le mani. Erano quasi dodici anni che non tornava nella sua città. Se n’era andata una mattina di primavera: aveva diciott’anni e una vita davanti. Disse addio a una casa e a una vita che non reggeva più. Non li avrebbe mai perdonati, soprattutto suo padre: se lo ripeteva ogni giorno mentre vagava di città in città, in cerca di quella felicità che sentiva esserle stata rubata. No: non riusciva a dimenticare. Ore e ore china su quella maledetta chitarra classica a sputarci sopra l’anima e il sangue: l’ossessione del padre per quel talento musicale fuori del comune era stato la sua condanna. Quanto lo aveva odiato quel talento! Avrebbe voluto un’altra vita, la vita di una ragazzina qualunque: invece l’avevano costretta ad essere una bimba prodigio. Al conservatorio era la migliore: i professori la esaltavano, i compagni la invidiavano. E lei era sola: Haydn, Vivaldi, Villa Lobos, Albeniz, Rodrigo, i più grandi compositori erano i suoi soli compagni. Aranjuez, il più famoso concerto per chitarra spagnola e orchestra di Joaquin Rodrigo, le ossessionava la vita: era il pezzo preferito di suo padre che le chiedeva sempre di suonarlo, in qualsiasi occasione. Francesca soffriva per tutto questo ma in silenzio: un po’ per timore di offendere il padre, un po’ per non rattristare la mamma, che era una donna dolce e cara ma viveva all’ombra del marito, sottomessa ad ogni sua decisione; fu forse per questo che alla fine arrivò a odiare anche lei. E un giorno prese il suo zaino e se ne andò via, lontano da quella casa e da quella città. Non sarebbe tornata mai più, si disse. Mai più! … Ora invece era lì, in quella stazione, in quel caffè, davanti a quella tazza di tè, cercando il coraggio di rivedere la sua famiglia. Il sole filtrava dalle grandi vetrate sudice dell’enorme stanzone: un sole tiepido, che in quegli ultimi giorni d’inverno faceva un gran piacere sentirsi addosso. Stese sul tavolino le mani scarne seguendo i giochi di luce che i raggi del sole facevano sul dorso e sulle dita. Le sollevò e ne osservò la fermezza. Sorrise: finalmente non tremavano più. Ormai le relazioni sbagliate, la solitudine, la depressione, l’alcool, la droga erano solo lontani ricordi. Era di nuovo padrona della sua vita. Adesso aveva un lavoro ed era anche fidanzata: il futuro le sorrideva. In comunità di recupero aveva avuto tutto il tempo per rientrare in se stessa e decantare la rabbia che aveva in corpo, anche contro suo padre. Piano piano aveva cominciato a vedere tutto con occhi diversi. Si: forse papà non l’aveva amata abbastanza… o forse l’aveva amata troppo, quella figlia avuta in tarda età. La figlia più piccola, la più sensibile: l’unica dotata di un vero talento musicale. Troppo amore può schiacciare. No: in fondo papà non era cattivo. Chissà: forse, solamente, non si erano capiti e lui l’amava davvero, come le aveva detto mamma sei mesi prima, durante una delle rarissime e brevissime telefonate, quando le aveva dato la notizia che papà… Una lacrima rigò il suo bel volto. I suoi occhi azzurro cielo guardarono fuori della vetrata: sospirò. Un gruppetto di ragazzini –il più vecchio avrà avuto diciott’anni- schiamazzava al bancone del bar, e qualcuno di loro, di tanto in tanto, la guardava insistentemente. “Accidenti, quant’è bella”. “Quanti anni avrà?”. “Mah. Non più di venticinque”. “Dici?”. “Certo! Di donne me ne intendo!”. Francesca sorrise tra sé, lusingata e divertita. ‘Cosa ne volete capire di donne a diciott’anni?’, pensò. Intanto un vecchio sedeva in un angolo del bar con la sua chitarra e suonava una canzone malinconica. La ragazza lo ascoltava sovrappensiero: tutto era cominciato per una chitarra. Tornò a guardare la tazza di tè. ‘Sei mesi’, pensò. Ci aveva messo sei mesi a trovare il coraggio di tornare. La verità era che ora si vergognava: negli anni il rancore si era trasformato in vergogna. In fondo al cuore sentiva di aver fatto anche lei tanto male alla sua famiglia. Anche a suo padre: e forse di più di quanto l’uomo ne avesse fatto a lei. Sentiva che la vergogna ora diventava paura. Una paura strana: quel tipo di paura inspiegabile che ti prende quando sai che c’è qualcuno che ti aspetta; che ti ama ancora. Si guardò intorno. “Bisogna andare”, si disse. Compose il numero sul cellulare, tremando di emozione. “Pronto. Sono io, mamma. Si, proprio io: Francesca. Sono…sono qua, alla stazione. Arrivo tra poco. No. non c’è bisogno: prenderò un taxi”. Si alzò, pagò il conto e uscì trascinandosi dietro il suo roller con i pochi vestiti che si era portata, inseguita dagli sguardi dei giovinastri e dalla musica malinconica del vecchio suonatore di chitarra. Fuori della stazione, alcune persone chiacchieravano di sport e politica. La guardarono distrattamente: “Mi sembra di conoscerla”, disse uno di loro. “Mmh… No. Mai vista”, rispose un altro e ricominciarono a discutere di argomenti per loro più interessanti. Più in là, due donne litigavano per l’unico posto macchina ancora libero nel parcheggio: in una di loro Francesca riconobbe la madre di una sua vecchia compagna di scuola. Ci passò accanto senza essere notata. In fondo alla piazza, un vecchio taxi. Lo raggiunse, salì, dette l’indirizzo. Dieci minuti dopo era davanti al portone di casa. Era arrivata. La paura! Di nuovo quella maledetta paura. Deglutì. Si avvicinò a passo tremante. Suonò il campanello. La porta si aprì lentamente. Francesca tremava. Quando apparve sua madre sulla porta si sentì pietrificata. La mamma la guardava sorpresa e felice, con quei suoi grandi occhi azzurro cielo, proprio come quelli di Francesca. Lo stesso volto scarno, rettangolare, lo stesso naso dritto, grande e regolare. Si guardarono in silenzio. Un silenzio lungo. Lungo. Carico di mille parole: tutte le parole mai dette in quei dodici anni. Fu mamma ad abbracciarla. Tutto si sciolse in quell’abbraccio muto. Le lacrime dell’una si mescolarono a quelle dell’altra, rigando i volti, bagnando i vestiti. I singhiozzi sommessi di Francesca si perdevano nei baci di mamma. Entrò. Volgeva lo sguardo intorno, come in trance. Non si rendeva ancora conto di essere veramente a casa, tra le braccia di sua madre. E fra pochi secondi avrebbe rivisto suo padre. ‘Povero papà’, pensò. “Ti aspetta da tanto tempo. Non fa che chiamarti”. “Com’è possibile?” si chiese la ragazza. L’alzheimer non lascia scampo. E a papà era arrivato all’improvviso: in sei mesi era progredito in modo impressionante. In breve tempo era finito a letto, bisognoso di tutto. La madre lo aveva comunque voluto tenere in casa con sé. Francesca non poteva fare a meno di ammirare il coraggio di sua madre e di sentire ancora più vergogna di sé. La madre la guardò e sorrise, come se avesse indovinato i suoi pensieri, ma non disse niente. L’accompagnò lungo il corridoio, incontro a papà. Il vecchio era in salotto: gli ultimi bagliori del tramonto ne disegnavano il profilo di fronte alla finestra. Francesca entrò piano piano. Si avvicinò alla carrozzella. Lui la guardò coi suoi occhi leggermente a mandorla, come quelli della figlia. “Quii…qqaaa…”, mugolò il vecchio padre. Chicca: era il suo soprannome! Francesca sentì il cuore balzarle in gola. Era l’unica parola che il vecchio riusciva ancora a biascicare. Per il resto erano solo mugolii simili a ululati. “Quii…qqaaa…”. Si guardarono a lungo. “Quanto tempo…”, sussurrò Francesca. “Siete soli?” chiese poi alla mamma. “C’è una badante. A ore: di più non possiamo permetterci. Poi ci sono degli infermieri che vengono regolarmente. I tuoi fratelli sono sposati: ora vivono lontani”. Francesca si accucciò davanti a suo padre, gli prese le mani, gli carezzò il volto. “Adesso ci sono io”, sussurrò, parlando più a se stessa che a sua madre. Avrebbe preso aspettativa dal lavoro, intanto: poi si sarebbe visto. Ebbe l’impressione che papà le sorridesse… Si. Le sorrideva! Ne era certa. Tra le lacrime che ora gli rigavano il volto, suo padre le sorrideva! “Papà… Eccomi qua. Ti ho fatto tanto male.” Una lacrima scese sulle guance del vecchio. Si agitò un po’: avrebbe voluto dire qualcosa, si vedeva, ma dalla sua gola uscì solo un lamento indistinto. Francesca guardò interrogativamente la madre, come per chiedere cosa volesse dire papà. Lì per lì, anche sua madre non riusciva a capire, poi si ricordò di qualcosa: le si illuminarono gli occhi e con lo sguardo indicò il tavolino dietro Francesca; lei si voltò e vide una cornice d’argento, con una foto: era il suo ritratto. L’argentatura era ossidata dal tempo e consumata dal continuo strofinio delle mani del padre, che la carezzava ogni volta che ci passava davanti, come le spiegò mamma. “Non faceva che sospirare: ti chiamava e ti chiedeva continuamente perdono. Tornava spesso a quella fotografia, anche in piena notte. Non riusciva a perdonarsi di averti fatto tanto soffrire. È stato così difficile anche per me perdonarlo, ma quando lo vedevo così distrutto dal rimorso, non potevo fare a meno di aver pietà. Ma adesso sei qui.”, concluse mamma con un singhiozzo sommesso, che le impedì di continuare. “Voleva chiedermi perdono.”, disse sorpresa Francesca. Restarono ancora a lungo in silenzio: così, uno di fronte all’altra, cercando di ritrovare un’ombra del tempo perduto, di un legame spezzato ma mai veramente distrutto. All’improvviso il vecchio cominciò ad agitarsi fortemente, emettendo dei versi simili a ruggiti. Francesca si spaventò. “Sta arrivando!” sospirò sua madre, alzando gli occhi al cielo. “Chi?” chiese Francesca. Si sentì suonare il campanello. Andò la mamma. Dal salotto, Francesca sentì sua madre dire con tono che non ammetteva replica: “È la nuova badante. Buona notte”. “Quella pettegola della vicina. – disse la madre, rientrando- Ti ha riconosciuta ed è subito venuta a curiosare! Le ho inventato qualcosa lì per lì.” “E papà l’aveva sentita arrivare...” “Già. Lui certa gente la sente da lontano.” Disse sorridendo. “Però… aveva sentito arrivare anche te. E si vedeva che era felice” “Caro papà…” Il vecchio la guardava con amore, un amore muto eppure così avvolgente. Sembrava che le leggesse dentro. No. Non è vero che i malati di Alzheimer non capiscono più niente. Capiscono. Capiscono eccome: le loro anime raggiungono vette inimmaginabili per l’uomo comune. Quella sera volle accudirlo anche lei. Gli imboccò la cena, aiutò la mamma a pulirlo e a vestirlo per la notte, poi lo misero a letto. Mentre lo vegliava, il suo sguardo cadde in un angolo della stanza. “La mia chitarra”, sussurrò sorpresa. “Si. Non se ne è mai separato. La suonava spesso, anche in piena notte. Ti abbiamo aspettato tanto…” Francesca si avvicinò allo strumento. Lo carezzò con timore. Chissà se si ricordava ancora… Prese la chitarra con mano tremante. Si sedette accanto al letto. La accordò. Cominciò a suonare. Ebbe qualche difficoltà a cominciare, ma dopo poche note le sue dita correvano agilmente lungo le corde. Non aveva mai suonato così bene: lo sentiva. Dalla morbida cassa di legno uscivano note struggenti, di una bellezza infinita. Piangeva. E sorrideva: aveva ritrovato se stessa. Nei giorni successivi, il tempo scorreva lento e sereno, tra le cure amorevoli della moglie e della figlia: solo di tanto in tanto, Francesca ebbe l’impressione che il vecchio le volesse dire qualcosa, ma non riusciva a comprendere altro che il proprio soprannome, Chicca. Si vedeva che l’uomo si sforzava, ma non riusciva a esprimersi: allora piangeva e aveva un moto di stizza che lo agitava tutto e ciò preoccupava le donne. Ma una sera mugolò qualcosa di meno indistinto. Francesca si alzò, si appoggiò alla ringhiera di sicurezza del letto, avvicinò l’orecchio alla bocca dell’uomo e dopo un paio di tentativi riuscì a udire distintamente questa parola: “Pee..do..na..mi”. Fremette di gioia e stupore. ‘Perdonami’: ecco cosa voleva dire! In tutti quei giorni di mugolii, lacrime e moti di stizza, aveva cercato di dire quella parola, quell’unica parola a cui, si capiva bene, teneva così tanto. Adesso che finalmente l’aveva detta, il vecchio si rasserenò, e sorrise. Francesca sentì il cuore sobbalzare di gioia. Andò a svegliare sua madre: “Mamma! Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta!”, diceva con la stessa gioia di una bambina che avesse risolto un indovinello difficilissimo: “Ha detto: Perdonami!”. Mamma si alzò a fatica a sedere sul letto, guardando il marito tra la sorpresa e la gioia, alla fioca luce del lume da notte, mentre Francesca, in preda alla più profonda emozione, tornava al capezzale di papà, ripetendo come un mantra: “Ce l’ha fatta! Ce l’ha fatta!”. Lo guardò a lungo, carezzandolo sulla testa, passando le mani tra i capelli bianchi e folti, un tempo scuri e mossi come i suoi. Lo carezzava e lo guardava come si fa con un bambino o con una persona infinitamente amata, mentre le lacrime non cessavano di rigarle le guance. La notte era scesa sulla città. La luna illuminava i tetti con la sua luce carezzevole. Francesca spense la luce e rimase a lungo accanto a suo padre, al buio, mentre le sue dita ricominciarono a danzare sulle corde della chitarra. Le note di Aranjuez, il pezzo preferito di papà, riempivano la stanza della loro malinconia. Mamma ascoltava piangendo anche lei di gioia, mentre si coricava e sprofondava lentamente in un sonno pacifico e ristoratore, come non era mai stato in quegli anni. Francesca e papà si sorrisero ancora, sotto i raggi della luna. Adesso aveva davvero ritrovato suo padre. Lo baciò sulla fronte. “Buona notte, papà. Sono tornata…”
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Mi sto stiracchiando e la cerco. È lì, seduta nell’angolo opposto del divano, il gomitolo di capelli mezzo sfatto che pende di lato dalla testa e il mio maglione preferito, quello da casa, bianco, di lana, un po’ sfilacciato ormai, ma ancora tanto morbidoso. La adocchio sopprimendo uno sbuffo. Non mi guarda; ha di nuovo quell’affare stupido sulle gambe. Non ho mai capito cosa ci possa essere di tanto avvincente nel riempire di nero uno schermo bianco. Almeno io lo faccio divertire quel coso: suoni, vibrazioni, colori, puro gioco. Mah, sbadiglio al solo vederla. Eppure, lei se ne sta lì tutta concentrata; sembra anche abbastanza soddisfatta mentre a me quel continuo clic clac, ora quasi frenetico, delle dita nel loro incomprensibile tamburellare sta cominciando a snervare. Sa che la notte la voglio tutta per me, sono le mie ore, è a me che deve interessarsi non a quell’insignificante giocattolo. Muto mi giro sulla schiena insistendo a fissarla. Non faccio altro, né un mugugno e tantomeno la chiamo. Non serve, so che sente il mio sguardo e basta solo contare: uno, due e… mhm, brava bambina. Lei ha sollevato il viso e mi sorride; il suo sguardo adorante sa tanto di conferma. Socchiudo gli occhi mostrando che ho apprezzato e mi allungo in attesa del suo tocco. Infatti, lei ride, scuote la testa e spostando l’aggeggio di lato, si alza. Sogghigno ancora soddisfatto, crogiolandomi sotto la sua ombra quando la perfida, ormai a una spanna da me, si volta e raggiunge il tavolo. Sento il disappunto lievitare. Non irritazione, gli eccessi sono per le razze deboli e ho comunque un aplomb da difendere, ma con tutta la dignità possibile mi sforzo di palesarle che non ho gradito, affatto. Con gli occhi ora atteggiati a due lame taglienti, sollevo il busto e toccandomi la pancia, resto seduto in posizione “jabba the Hutt”. Un nome stupido ma è così che lei la chiama. Di sicuro appartiene a qualche tizio che conosce; uno dei suoi ridicoli amici, questo però deve piacerle di più; un tipo spassoso, facile anche fico se glielo ricordo: le si illumina il viso ogni volta che lo dice e ammetto che la cosa un po’ mi disturba. Non voglio che mi paragoni ai suoi amici. Non voglio che pensi agli amici. A cosa le servono gli amici? Ha me. Comunque, non mi sono messo seduto per elemosinare un suo sorriso che puntuale è arrivato; no, lo ignoro, piuttosto sono curioso di scoprire cosa ci sia di così impellente da fare ora. Dico, ha visto che sono sveglio, perché non fa il suo dovere? Lei conosce le regole; le ho permesso di condividere la mia casa perché in fondo è una brava ragazza: pulita, tranquilla, puntuale nei suoi compiti… giusto un po’ strana a volte. Anche questa mattina l’ho sorpresa a pulirmi le orecchie mentre dormivo. Deve ringraziare il suo Dio, ossia me, che tutto sommato ho scoperto che è una cosa che mi piace, la prima volta ha rischiato seriamente che scordassi quanto odi scompormi o affaticarmi con scatti insulsi. Per non parlare di altre sue abitudini: strambe, incomprensibili, a tratti inquietanti… mah, valla a capire. Come ora che continua a darmi le spalle e a indugiare. Stringo i denti per non umiliarmi a chiamarla. L’alta spalliera della sedia in parte me la nasconde e tendo il collo sempre più disturbato. Dolcezza, non è così che funziona: qui comando io e… oh, oh, oh. Sento lo scricchiolio della carta e un attimo dopo le vedo sollevare una mano che agita il pacchetto dei biscotti. Ecco che riconosco la mia ragazza. Mi rilasso e attendo. Un secondo, due secondi… Lei si volta finalmente ma resta a fissarmi con un’espressione che in tutta onestà riconosco come imbecille, ammiccando e continuando a far suonare quel pacchetto di biscotti. Prego? No, non credo che pretenda che vada io da lei. No, no, sarebbe un’assurdità, quindi? Eppure, sotto il mio sguardo perplesso, lei aggiunge anche un cenno della mano e un… “su”. Su? Temo di avere una faccia sbalordita e questo mi sconvolge ancora di più. Mi ricompongo dietro una maschera di sufficienza. Ma per piacere! Piuttosto, “su” tu, finiscila e muoviti. Non si scherza su queste cose. Lei scoppia a ridere come se non fossi stato abbastanza eloquente e posa il sacchetto sul tavolo, lo apre, mhm, giusto, tira fuori un paio di biscotti che seguo mio malgrado con fin troppo interesse, ottimo, e… scusa? torna a farmi il gesto. Immobile. Con un esplicito: “Allora, pigrone?”. Mi rigetto tra i cuscini pregando che il mio sangue inglese prenda il sopravvento su quello scozzese. Una principiante. Mi è capitata una principiante. O è semplicemente ottusa? Fisso il soffitto pensando a come fargliela pagare mentre lei scoppia a ridere. La sento, si sta avvicinando. Ora? Non la degno di uno sguardo. Si inginocchia accanto al divano e mi tocca. Mi ritraggo fingendo di stiracchiarmi. Non può trattarmi in questo modo. Lei insiste sogghignando; l’odore dei biscotti mi punge il naso ma non è l’unico odore che sta minacciando i miei propositi. Chiudo gli occhi, perché lei non li veda. Mi impongo di resistere anche quando sento il suo alito caldo scottarmi la pancia, vi strofina il viso, arriva alla pelle. “Il mio patatone. E io ti adoro sai?”. Cedo. Il mio corpo mi tradisce: con orrore sento la stanza riempirsi di un rimbombare fragoroso. Le fusa, bastarde. Apro gli occhi e vedo un biscotto, lo tiene davanti al mio muso. Sposto lo sguardo e incrocio il suo, tanto vicino; un nocciola verde che confesso è stato capace di conquistarmi sin dal primo giorno. E già, questa stupidina sa incantare. Chiudo gli occhi e li riapro in un linguaggio che sembra solo lei capire. Poi tendo il muso e ignorando, per ora, i biscotti, le lecco il naso. Ti adoro anche io, mia tenerissima e insostituibile schiava.
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Racconto originariamente scritto per un contest su un gruppo di scrittura, molto sperimentale per vedere se riuscivo ad avere abbastanza sintesi per una volta da riuscire a rispettare i limiti di parole del contest (non ci sono riuscita comunque, ma per i miei standard mi sono molto contenuta). Si tratta di una personaggio secondario della storia a cui sto lavorando (per chi ha seguito la questione in chat e se ne ricorda, il fratello del migliore amico della protagonista che è il motivo per cui il migliore amico da del voi alla madre) con un background particolare che mi pareva interessante esplorare. Il racconto per me è un esperimento, appunto per provare a condensare in meno parole possibili la sua storia in retrospettiva, spero non sia uscito troppo pasticciato. ****************************************************************************************** Gli antichi Romani non capivano proprio niente di certe cose. Felice non riusciva a liberarsi di questo pensiero da quando una delle nipoti, ingenuamente e senza sospettare cosa avrebbe scatenato, gli aveva citato un detto in latino, chiedendogli cosa ne pensasse. Lui nemmeno aveva osato risponderle veramente quando lei aveva chiesto cosa pensasse di quel motto, perchè la sua risposta sarebbe stata troppo secca per una ragazzina completamente ignara di ciò che quel detto aveva risvegliato in lui. Ma davvero, con che coraggio e con che ingenuità potevano aver sostenuto, i Romani, che il nome può contenere il destino di una persona? Forse a nessuno di loro era mai capitato un che doveva diventare una gigantesca presa in giro rispetto alla vita che gli toccava.. Lui invece…cosa era venuto in mente ai suoi genitori di chiamarlo Felice? Di cosa avrebbe dovuto essere felice non gli era mai stato chiaro, fin da piccolo. Tornando indietro col pensiero, cosa può esserci di felice nella vita di un bambino che deve lottare con una madre che sembra essere sempre più infastidita da lui che invece fa di tutto per essere un figlio modello? L’aveva capito solo tempo dopo che la madre non gli perdonava di essere il motivo per cui lei aveva dovuto sposarsi in fretta e furia per nascondere uno scandalo che comunque tutti avevano capito e continuavano a parlarne. Era forse colpa sua essere nato così? Nessun bambino chiede di nascere, figuriamoci se poi vorrebbe nascere in quella situazione. Cosa può esserci di felice in una persona che più di ogni altra cosa amava scoprire e conoscere le cose… E invece lotta con i libri e lo studio, viene visto un po’ come un somaro. be, era anche normale a quei tempi, nessuno sapeva certe cose che invece adesso gli capitava di sentiva dire dei ragazzi a scuola. Le avessero sapute per lui, magari l’avrebbero incoraggiato a studiare, in fondo comunque a lui piaceva imparare. Cosa può avere di felice la vita di quel giovanotto che ancora vorrebbe viaggiare conoscere il mondo e invece rimane legato a quel paesino per un impegno preso col padre morente? Per mantenere quella parola, per la la famiglia che aveva bisogno di lui, Felice aveva anche rinunciato al futuro che già sognava con la ragazza di cui era innamorato, che proprio in quel periodo era rientrata al paesino di origine da cui la famiglia era stata sfollata per un disastro. Il padre della ragazza non ne voleva sapere di lasciarla lì senza il controllo dei genitori così vicina al fidanzato prima del matrimonio. Sosteneva di essere favorevole a far continuare il loro fidanzamento solo se Felice avesse accettato di seguirli, perchè se metteva qualsiasi altra priorità davanti alla figlia. non ci si poteva fidare degli impegni che aveva preso con lei. Cosa poteva esserci di felice nella rinuncia a quel matrimonio che ormai era programmato per non dover mancare agli impegni che sentiva di avere verso la famiglia? Con una madre che invece che comprenderlo gli aveva dato del matto quando si era sentita spiegare che avrebbe potuto aiutarli senza rinunciare a lei se si fossero sposati senza troppe cerimonie in breve tempo. Certo, in quel momento la sua famiglia non poteva permettersi le spese di un matrimonio, ma avrebbe potuto spiegarglielo invece che dargli del matto. Purtroppo, dalla madre col rapporto che avevano sempre avuto non poteva aspettarsi di meglio. Cosa c’è di felice in una vita di rinunce per poter aiutare la famiglia e poi ritrovarsi con due fratelli che sembrano inventarsele per farti impazzire? E non poteva nemmeno riprendere quei due disgraziati per quello che facevano, perchè dei due il trascinatore era Graziano,quello che era sempre stato il preferito della madre. Già avevano sempre avuto un brutto rapporto, se poi lui provava a dire ciò che andava detto del suo preferito, che diventava sempre più un disgraziato proprio perchè lei gli giustificava qualsiasi cosa… Cosa ci sarà mai di felice nel trovare finalmente una persona con cui sembra di poter costruire qualcosa dopo la delusione del matrimonio sfumato per poi rinunciare a rendere definitiva questa nuova storia per paura del male che potrebbe derivarne all’altra persona? In fondo, solo un povero cristo come lui con le sue sfortune avrebbe potuto trovare un nuovo amore così. Si era sentito benedetto dal cielo quando quella donna tedesca, bella, misteriosa e sola aveva dimostrato di essersi affezionata a lui e poi di provare qualcosa, Ma Lieselotte era una donna con un passato tragico di cui continuava a sentire il peso e lui tutto avrebbe accettato meno che di essere un motivo per cui qualcuno potesse dire cose cattive su di lei, dopo tutto ciò che gli aveva rivelato di aver passato. Allo stesso tempo, era più anziana di lui di alcuni anni e lui, con la storia che aveva alle spalle, in paese era piuttosto compatito. Sarebbe stato bello poter finalmente coronare con lei quel sogno a cui aveva rinunciato anni prima, ma cosa avrebbero detto di lei in paese? Già chiacchieravano di loro comunque, Felice non osava pensare a quello che avrebbe rischiato di sentire Lieselotte con le proprie orecchie se fosse diventata ai loro occhi niente più che la straniera che era riuscita a portarsi a casa il povero cristo che non aveva più speranze. Per il bene di una persona che già aveva sofferto molto più di lui aveva rinunciato una volta di più a un sogno che ormai aveva capito che non poteva essere il suo. Cosa può esserci di felice nell’aver rinunciato a ogni autorità sui fratelli proprio perchè sapeva che con la madre sarebbe stato un litigio continuo se entrambi avessero avuto voce in capitolo? Cosa ci sarebbe mai stato di felice nell’avere un fratello che aveva praticamente cresciuto lui e non avrebbe mai voluto deluderlo ma vederlo comunque a quattordici anni imbarcarsi in un’avventura pericolosa e perdipiù illegale perchè l’ultima parola l’aveva la madre e lei non ci vedeva nulla di male? Aveva maledetto quella rinuncia all’autorità sulle decisioni dei fratelli, quando si era trattato di Stefano, ma ormai gli equilibri erano stati stabiliti qualche anno prima e come si dice, cosa fatta capo ha. Altro non restava che rassegnarsi a controllargli le scarpe perchè fossero sempre in buono stato e riempirgli un po’ di più il piatto perchè si rafforzasse per portare quei sacchi che a pieno carico arrivavano a pesare anche più di un bambino robusto. E a sgranar rosari nelle notti in cui Stefano seguiva la carovana su per le montagne e verso il confine. Nè poteva esserci stato qualcosa di felice nel vedere Stefano e gli altri due fratelli diventare nemici per come gli altri due parlavano della migliore amica di Stefano e della loro amicizia. O vedere quel fratello che in fondo lui aveva cresciuto scagliarsi a testa bassa contro gli altri due quando erano diventati nemici anche della ragazza prima perchè voleva fare il loro stesso mestiere e gli uomini non la accettavano e poi perchè per reazione a questo era finita a diventare informatrice come debito di gratitudine verso un finanziere che invece le aveva dimostrato tutta l’umanità che negli uomini della carovana non era mai riuscita a vedere. O poteva esserci qualcosa di felice nel sentire la sorellina per cui lui era l’unica figura di riferimento, perchè del padre non poteva ricordare nulla, una volta cresciuta, piangere per le cattiverie sempre dei soliti due e scagliarsi a propria volta contro le recriminazioni dei fratelli dicendo loro in faccia che le facevano schifo? Come poteva esserci qualcosa di felice nel dover constatare che di uno di quei due, pur essendo suo fratello, lui stesso non riusciva a dire altro se non che ormai non gli sarebbe dispiaciuto se la Finanza l’avesse preso, perchè forse scontando quello che doveva scontare avrebbe imparato qualcosa? Come poteva dirsi felice chi finalmente trovava un accordo con la madre su come comportarsi con Graziano appena tornato dalla prigione solo perchè aveva esagerato talmente tanto che ora anche la madre conveniva che per il bene di tutti era meglio che non vivesse più con loro? Di tutto questo sua nipote non sapeva nulla, nessuno dei nipoti lo sapeva. Ed era giusto che continuassero a non sapere, ora che con la famiglia un equilibrio si era trovato, nulla doveva colpire quei ragazzi e rivelare quello che era stato un passato difficile da rievocare per tutti. E non era per nulla una cosa felice nemmeno non poter rispondere con sincerità alla nipote perchè nè lei nè i suoi fratelli o i cugini dovevano sapere ciò che si nascondeva dietro lo zio Felice, le sue raccomandazioni e la sua fissazione per i loro studi. Non c’era nulla di bello, in tutto questo, ma cosa poteva farci se lui, Felice, era sempre stato così, destinato solo a cose tutt’altro che felici? Non l’avrebbe mai detto abbastanza che qui benedetti Romani di certe cose non ne avevano mai capito nulla!
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Vi è mai capitato di stare seduti vicino a due persone che parlano ad alta voce, cercando di non ascoltare i loro discorsi, per essere discreti? È proprio quello che sto cercando di fare in questo momento. Ma chi voglio prendere in giro? Non è vero. Oggi sono tornato qui apposta, sulla mia panchina preferita, all'angolo di questo piccolo parco dai grandi alberi, nella speranza e nel timore di ritrovarli e di risentirli. E loro, come ieri, sono ancora lì, seduti su un'altra panchina, quasi di fronte a me. Ci separa solo un sentiero di terra battuta, che si snoda tortuoso tra le radici delle piante secolari, come un serpente marrone in mezzo all'erba lucente di questo inizio di primavera. A occhio e croce non devono avere più di vent'anni. Lei è quella che potremmo definire un tipo interessante, né bella né brutta, ma comunque interessante: capelli castani sciolti, che le cadono lisci sulle spalle, occhiali neri da segretaria che si fa sposare dagli avvocati, come nella canzone di Venditti, giubbotto beige con il bavero alzato e l'immancabile foulard fantasia. Anche lui lo potremmo definire nella media, né bello né brutto, ma molto più “ordinario” e molto meno “interessante”. Parla sempre lei, come ieri del resto, e come sempre accade tra uomini e donne fin dalla notte dei tempi. Lui non può far altro che stare ad ascoltare, rassegnato al ruolo più tragico a cui un esemplare maschio possa adattarsi in una relazione con un esemplare femmina: quello del confidente. Ogni tanto prova a interloquire, ma riesce solo a pronunciare solo qualche storta sillaba e secca come un ramo, prima che un nuovo turbine di parole lo travolga. Anche l'argomento, come io speravo e nel contempo temevo, è lo stesso di ieri. La ragazza gli sta spiegando le “ragioni” per le quali alla fine ha deciso di non mettersi insieme a un altro tizio, di cui non afferro il nome, ma che, a quanto pare, risulta essere un compagno di studi di entrambi: «Sai come succede, insomma: avevamo gli stessi gusti, ci piacevano gli stessi libri, gli stessi film, perfino lo stesso cibo. Potevamo parlare per ore, senza annoiarci, ma...» «Ma fisicamente non ti piaceva» interviene il ragazzo, illudendosi di completare la frase nel modo giusto. «Ma va, non è quello! Fisicamente mi piaceva e pure molto. E sono abbastanza convinta che pure io piacessi a lui.» «E allora?» «Non so come spiegarti. È che...» No, per amor del cielo, non dirlo: l'hai già detto ieri, per favore non ripeterlo! La ragazza si aggiusta i capelli, guarda in alto verso il folto delle chiome delle magnolie e poi abbassa di nuovo lo sguardo sulle sue scarpe rosa pulitissime. «Sì, insomma: lui mi piaceva e io piacevo a lui. Però...» Ecco lo sapevo, ora lo dice. Me lo sentivo che l'avrebbe detto di nuovo, me lo sentivo! «Ma dai, lo sai, te l'ho spiegato già ieri: non è scattata la scintilla.» Era inevitabile, l'ha detto: lo ha ripetuto anche oggi! D'altronde, se ne è convinta, cos'altro potrebbe fare se non ripeterlo in continuazione, agli altri, oltre che a se stessa? Chiudo il libro che avevo tra le mani e del quale non sono riuscito a leggere neppure una riga. Tiro un lungo respiro e mi preparo psicologicamente a essere mandato a quel paese in modo più o meno elegante; ma è un rischio che devo correre: la mia socratica ricerca del vero me lo impone. Mi sposto sul lato della panchina più vicino ai due giovani e, dopo essermi schiarito la voce, decido di importunarli: «Mi scusi, signorina: posso farle una domanda?» Lei mi osserva stupita, spingendosi gli occhiali più vicino alla fronte. Anche il suo interlocutore si gira verso di me e dal suo sguardo capisco che comunque non mi considera una minaccia, ma solo un tipo strano. Non aspetto la risposta e continuo. «Posso chiederle cosa ha mangiato oggi a pranzo?» «Eh? Come dice?» «Sì» insisto, «a pranzo: avrà mangiato qualcosa, no?» «Certo: un'insalata mista. Ma perché lo vuol sapere?» Scuoto la testa, sconsolato. «Mi perdoni. L'insalata non va bene: ho scelto l'esempio sbagliato. Allora facciamo a cena: cosa ha mangiato a cena ieri sera?» La ragazza si gira verso il suo compagno di panchina: ci manca solo che si picchi il dito sulla tempia per fargli capire che sono matto. Alla fine decide lo stesso di rispondermi. «A cena? Non mi ricordo... Una bistecca mi pare. Sì, una bistecca, con contorno di patate fritte.» «Oh, perfetto!» esclamo soddisfatto «Così va bene: proprio quello che mi occorreva. Bistecca con patate... roba che bisogna cuocere, insomma. E mi dica: lei, o chi cucina per lei, avrà provveduto ad accendere il fuoco sotto la padella, immagino? Oppure vi siete semplicemente seduti davanti ai fornelli, aspettando che la fiamma sgorgasse da sola come per magia?» Ormai sono piuttosto convinto che lei davvero mi consideri un pazzo; ma forse è troppo educata per dirmelo in faccia e poi i pazzi, si sa, è meglio assecondarli. «È ovvio che abbiamo acceso il fuoco, altrimenti staremmo ancora qui ad aspettare di mangiare!» Il suo confidente si lascia andare a una risatina un po' forzata: anche lui mi considera strambo, ma sempre non pericoloso. Non mi importa. Proseguo imperterrito. «Vede signorina, sia ieri sia oggi, non ho potuto fare a meno di ascoltare i suoi discorsi, e per questo le chiedo scusa. Mi creda: non sono un pettegolo e odio il pettegolezzo, ma i suoi “ragionamenti”, se così si possono definire, li ho sentiti tante di quelle volte e fatti da tante di quelle donne, che alla fine non sono riuscito a trattenermi.» «A quali ragionamenti si riferisce?» Il suo tono ora è un po' indispettito. «E cosa c'entrano con il cibo e i fornelli?» «Ci arrivo subito. Ieri ha parlato di una “scintilla” che non è scoccata tra lei e un ragazzo che comunque, a quanto pare, le piaceva. Ma perché non l'ha accesa lei questa scintilla, come ha fatto per le bistecche e le patate? » Adesso anche la ragazza mi elargisce una pietosa risatina. «Ma cosa c'entra, mi scusi? Sono due cose completamente diverse!» «Lei crede? Davvero ne è convinta? Sul serio è sicura che un sentimento non possa essere creato, preparato, acceso allo stesso modo in cui siamo in grado di accendere un fuoco?» «Ma che discorsi! Non ci si innamora a comando!» «Questo è vero. Non ci si innamora a comando, così come a comando non ci prendiamo un'influenza o un'altra malattia. Ma si può amare a comando, mi dia retta: questa è una prerogativa esclusiva di noi esseri umani, l'unica che ci distingua davvero dal regno animale.» Stavolta la ragazza attende qualche attimo prima di rispondere: «Innamoramento, amore… sono due parole per definire la stessa cosa.» «Si sbaglia di grosso e come lei si sbagliano tutti quelli che la pensano allo stesso modo. E le dirò di più: da questo errore, da questa confusione nascono la maggior parte delle incomprensioni, dei drammi e addirittura delle tragedie nei rapporti sentimentali. Perché vede, signorina, gli esseri umani da sempre hanno cercato di tenere sotto controllo la propria vita, programmando lavoro, casa, viaggi, passatempi... tutto. Tutto, tranne la cosa più importante: l'amore. Ancora oggi, che siamo in grado di spedire nello spazio un oggetto per milioni di chilometri e di farlo atterrare su un altro pianeta con l'approssimazione di pochi metri, per l'amore ci affidiamo al caso e non ci riteniamo capaci di accendere una scintilla.» Hanno smesso entrambi di ascoltarmi. Lui le ha ricordato che rischiano di perdere l'autobus. Si sono alzati e, dopo aver biascicato un “arrivederci”, che sottintende “a mai più”, se ne stanno andando verso l'antico cancello in ferro battuto che segna l'uscita dal parco. Lei, un istante prima di varcarlo, mi getta un'ultima occhiata, ma è troppo lontana perché io possa capire se si tratta di compatimento o comprensione. Ripenso a De Andrè: Da chimico un giorno avevo il potere di sposar gli elementi e di farli reagire, ma gli uomini mai mi riuscì di capire perché si combinassero attraverso l'amore, affidando ad un gioco la gioia e il dolore.
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«Sì, sì ho capito, certo che ho capito, ammiraglio: la responsabilità è mia e mia soltanto. Di chi altri dovrebbe essere? Va bene, va bene, non aggiunga altro: la terrò informato... Tra quanto? Questione di minuti, si tenga pronto.» L'uomo poggiò con un gesto secco e nervoso la cornetta del telefono sul ricevitore e si passò entrambe le mani tra i capelli castani, che cominciavano a ingrigirsi intorno alle tempie. Abbassò lo sguardo sulla scrivania, per poi rialzarlo a osservare alla sua sinistra una foto incorniciata, che lo ritraeva insieme alla moglie e ai suoi due splendidi bambini su una spiaggia della Toscana: era stata scattata l'estate precedente e alle loro spalle si poteva scorgere il sole tuffarsi nel mare al tramonto. Già, il mare... Come era possibile che qualcosa di così bello, di così puro, di così immenso potesse anche essere la causa di tanto dolore? Smise di guardare la foto e puntò gli occhi dritto davanti a sé, dove un distinto e anziano signore, in un impeccabile vestito scuro, lo fissava seduto in silenzio: aveva ascoltato tutta la telefonata senza batter ciglio e anche ora sembrava non avesse alcuna intenzione di aprir bocca. Toccava dunque a lui parlare per primo, ma proprio non sapeva da dove cominciare. Spostò all'indietro la propria sedia e con quattro passi si avvicinò alla finestra, scostando un po' le tende per guardare fuori: era già quasi buio e le prime luci iniziavano a illuminare le strade della Capitale. Il giorno dopo tutto sarebbe stato diverso, tutto sarebbe cambiato. «Me la ripeta ancora, professore: ne ho bisogno.» L'anziano signore non si era mosso, seguendolo solo con lo sguardo e continuando a tenere le mani sulla vetusta cartella di cuoio consunto che teneva appoggiata sulle ginocchia. «Che cosa le dovrei ripetere, signor primo ministro?» Il suo interlocutore smise di guardare fuori dalla finestra e si girò verso di lui con un sorriso bonario: « Primo ministro? Perché non mi chiama semplicemente Alberti, come ha sempre fatto fin dai tempi del liceo? Anzi, mi pare di ricordare che una volta si rivolse a me con il mio nome di battesimo...» «E' vero, ma accadde subito dopo che lei aveva superato l'esame di maturità: non era più un mio allievo e quindi potevo permettermi una maggiore confidenza.» «Già, mi chiamò Claudio quel giorno, ma sempre dandomi del lei, come aveva fatto fin dal primo giorno di scuola con tutti noi ragazzi del resto: non sa quanto ci pareva strano che qualcuno si rivolgesse a dei sedicenni con il lei. » «Era un modo per responsabilizzarvi, per farvi crescere più in fretta, e mi pare che almeno nel suo caso abbia funzionato. Ma ora mi dica: cosa le dovrei ripetere?» Il primo ministro lasciò la finestra e tornò a sedersi dietro la scrivania, appoggiando le spalle allo schienale e le mani sui braccioli: «Vorrei che lei mi ripetesse la questione dell'atarassia, il fulcro della filosofia stoica.» «Lei era uno dei miei allievi migliori, una delle menti più brillanti, credo che si ricordi benissimo la materia.» «Sì, ma ho bisogno di sentirla dalla sua voce, se non le spiace.» Il professore tirò un lungo respiro, guardandolo con gli occhi di un padre che vede un figlio in difficoltà e che sa di non avere i mezzi per poterlo aiutare, se non con poche parole di conforto. Tolse la borsa di cuoio dalle ginocchia, l'appoggiò ai piedi della sedia alla propria destra e intrecciò le dita delle mani sotto al mento. «L'atarassia è un termine greco, che significa distacco dai sentimenti. Non va confuso con quella che in Italiano chiamiamo apatia, termine a cui attribuiamo un significato negativo, quasi fosse una sorta di pigrizia. L'apatico insomma è un qualcuno che non è in grado di provare sensazioni. Il saggio che raggiunge l'atarassia invece è colui che per sua libera scelta, e non senza sforzo, decide di distaccarsi dai sentimenti, sia quelli positivi, sia quelli negativi.» «Ed è una buona cosa questa?» lo interruppe il primo ministro «Voglio dire il decidere di non voler provare sentimenti?» «Per gli uomini cosiddetti “comuni” forse non lo è; ma per gli uomini di potere direi non solo che lo è, ma che è addirittura un obiettivo imprescindibile da raggiungere. Perché vede, caro Alberti, per fare il bene non solo prima di tutto è necessario conoscerlo, è anche indispensabile essere del tutto razionali e calcolatori. Bisogna, per esempio, avere il sangue freddo di sacrificare una o più vite, se questo dovesse servire a salvarne molte di più. » L'allievo sapeva bene a cosa si riferisse in quel momento il maestro e lo fissò dritto nei suoi occhi azzurri, soffermandosi a osservare i suoi folti capelli bianchi, pettinati all'indietro, nemmeno uno dei quali in più di trent'anni aveva mai visto fuori posto. Provò a sorprenderlo con una domanda a bruciapelo, di quelle che da studente lui aveva dovuto più volte affrontare: «Lei ha mai raggiunto l'atarassia, professore?» L'anziano non parve affatto sorpreso, non si scompose e gli regalò uno dei suoi rari sorrisi. «Io? E perché mai avrei dovuto? Sono solo un insegnante... Anzi, lo ero: adesso, cedendo alle sue gentili insistenze, ho abbandonato la mia vita da pensionato, per farle da consigliere. Non sono un uomo di potere, come...» «Come me?» «Precisamente. Come lei.» I due uomini si guardarono a lungo in silenzio, cercando di intuire l'uno i pensieri dell'altro. Non ce n'era bisogno, in realtà: si conoscevano da troppo tempo per riuscire a nascondersi qualcosa. Il primo ministro si alzò dalla sedia e gli allungò la mano per congedarlo. «La ringrazio, professore. Ora però è meglio che lei se ne vada: la storia deve registrare che lei non era in questo ufficio, quando ho fatto la telefonata che sto per fare.» Il consigliere si alzò a sua volta, afferrando la cartella di cuoio con la sinistra, per poter stringere con la destra la mano al suo ex studente. «Sono io che ringrazio lei per questa cortesia, ma, prima che con la storia, so di dover fare i conti con la mia coscienza, e questa mi dice che qualsiasi decisione lei prenderà sarà quella giusta.» Non aggiunse altro: a una certa età, atarassia o meno, diventa difficile controllare le proprie emozioni e il vecchio sentiva che gli occhi stavano diventando umidi. Si voltò, raggiunse la porta, l'aprì con delicatezza e con lo stesso garbo la richiuse alle proprie spalle. Il primo ministro, rimasto solo, ripassò nella sua mente la situazione. Il Paese era sull'orlo della guerra civile. Attentati terroristici e atti di violenza erano all'ordine del giorno e alcune zone del territorio erano ormai del tutto fuori controllo, in mano a bande paramilitari che le gestivano a proprio piacimento. Le forze dell'ordine avevano quasi gettato la spugna e ormai anche l'esercito, pur con il rientro di tutte le missioni all'estero, non pareva in grado di fronteggiare la situazione. Non aveva scelta. Sollevò di nuovo la cornetta e ordinò alla propria segretaria di rimetterlo in contatto con il capo di stato maggiore della marina. «Pronto? Sì, ammiraglio, sono sempre io. Proceda come stabilito.» Dall'altro capo del filo arrivò una richiesta di conferma. «Sì, ammiraglio, glielo ho già detto prima e non intendo ripeterlo ancora: mi assumo tutte le responsabilità. Questa conversazione è registrata ed è agli atti.» Dopo pochi secondi, più di cinquecento miglia più a sud, appena sotto la superficie del mare due scie bianche parallele puntarono veloci verso la fiancata di un peschereccio stracolmo di esseri umani, nessuno dei quali fu in grado di capire cosa stesse per raggiungerli, finché due enormi palle di fuoco non segnarono la fine della loro disperazione. Il primo ministro rimase con il telefono in mano ad aspettare due parole, “ordine eseguito”; poi, questa volta con una calma e una lentezza surreali, appoggiò la cornetta. Guardò di nuovo la foto della moglie e dei figli e la girò a faccia in giù sul piano della scrivania, prendendosi la testa tra le mani.
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Commento a Veridad Mashup dei tre prompt: Bosco d'autunno - La chiave - La musa Chiusi gli occhi e inspirai a fondo; il profumo di terra bagnata e foglie marce permeava l’aria. Molecole di acqua si strinsero una all’altra con forza, arricchendosi di sali e tossine; strinsi con forza le palpebre per ricacciare indietro le lacrime, ma una singola goccia scese comunque lungo la guancia fino all’angolo delle labbra. Riaprii gli occhi; una lama di sole feriva la volta di foglie insanguinate conficcandosi in una pozzanghera qualche passo più avanti lungo il sentiero. Cacciai le mani in tasca rabbrividendo nonostante la temperatura mite di una giornata autunnale. Ripresi a camminare trascinando i piedi; un tronco caduto, stremato da anni di guerra, cedeva finalmente all’assalto di funghi e muschio; un uccello cantò lugubre fra i rami, planando verso una roccia lontana. Il sentiero usciva dal bosco sbucando in un prato ancora verde. Un ruscello gorgogliava precipitando in una valle ammantata di nebbia. Sedetti su un sasso scaldato dal sole e mi guardai con rabbia le mani che tremavano come quelle di un vecchio. Mi accorsi di piangere solo quando sentii il sapore salato sulla lingua. Ero finito, lei se n’era andata. Dovevo accettarlo, non sarebbe più tornata. L’avevo inseguita troppo a lungo ed ero sfinito. Dispiegai i ritagli di giornale sgualciti che tenevo in tasca: “Un esordio straordinario, un successo travolgente.”, “Un talento di prima classe.”, “Un autore geniale, mette d’accordo critici e pubblico.”. Un colpo di vento me ne strappò alcuni dalle mani, li guardai volare via, fogli ingialliti si riunivano alle loro sorelle nella danza autunnale. Le date dei giornali mi scavarono dentro l’animo. Le conoscevo a memoria, ma ogni volta acuivano la sofferenza, mi pungevano gli occhi come spilli che cercano la strada per il cervello. Tutti i ritagli risalivano a cinque anni prima. Aprii le mani e li lasciai volare via. Inspirai a fondo e guardai il cielo, limpido in quel modo particolare che solo l’autunno riesce a creare. Per troppo tempo avevo inseguito la musa che mi aveva abbandonato. Un esordio travolgente mi aveva illuso; scrivere non era affatto facile come credevo. Dapprima con entusiasmo e poi con fatica crescente avevo inseguito idee e ispirazioni, alla ricerca di un altro libro che sarebbe dovuto diventare la conferma del mio talento. Avevo viaggiato, scavato dentro storie e persone, ma non ne avevo ottenuto nulla; dentro di me era rimasto il vuoto. Ora dovevo accettare di non essere uno scrittore. Forse lo ero stato, per un breve momento, ma finalmente era finita. Sarei tornato a essere un semplice libraio. Avrei venduto con gioia i libri degli altri, senza più sentire il bruciore di rabbia e vergogna che mi assaliva ogni volta che porgevo un libro a un cliente e guardando il nome sulla copertina immaginavo le lettere scomporsi e ricombinarsi in un bizzarro anagramma per formare il mio nome. Mi alzai e ripresi a camminare con passo più leggero. Il bosco risuonava di canti che rimbalzavano fra le foglie gialle; mi parve perfino di intravvedere uno scoiattolo indaffarato fra i rami di un nocciolo. Mi chinai e raccolsi una foglia di quercia; qualche insetto o forse una lumaca ne avevano rosicchiato una parte dandole la forma di una chiave. Mi misi ad osservarla; notai le venature, il colore verde che scolorava nel bruno nelle zone già secche, i lobi tondeggianti. Avrei potuto spendere migliaia di parole per descriverne la forma lievemente arricciata, la consistenza, il profumo. Di colpo l’intera storia di quelle foglia mi investì come se una diga fosse crollata. La vidi risalire nel vento per riattaccarsi ad un ramo, vidi le migliaia di animali che su quella quercia erano passati nel corso degli anni, vidi l’albero rimpicciolire fino a tornare una ghianda. E ancora vidi i bambini e gli uomini che si erano appoggiati al suo tronco, i baci degli amanti che all’ombra delle sue fronde avevano trovato rinfresco, vidi i sorrisi, i litigi e vidi le vite di tutti loro. Compresi che le storie erano ovunque, compresi che la musa non se n’era mai andata, ma che io stesso l’avevo rinchiusa in un angolo, soffocandola e imprigionandola. E la chiave per liberarla era l’amore per il mondo, per le persone, le cose, per una piccola foglia dalla forma bizzarra.
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Fu avvolto da un boato assordante, seguito da un silenzio irreale e da un odore conosciuto. Cercò di sollevare le palpebre che si ribellarono ai suoi comandi, testardamente incollate da un mastice umidiccio e appiccicoso. Odore di plastico. Si stropicciò gli occhi che finalmente gli ubbidirono e si dischiusero, velati di caramello e investite da folate di fumo acre. Un odore sconosciuto si aggiunse a quello noto e più volte frequentato nei campi di addestramento: il fetore della morte. Chiuse gli occhi. Si svegliò di soprassalto, in un bagno di sudore. Allungò la mano a cercare il pulsante in uno spazio fluttuante: nessun abat-jour, né comodino, né letto, niente di niente, una sensazione non dissimile da quella dell'assenza di gravità. Fu trafitto da un freddo pungente che trasformò in un istante le perle di sudore in spilli di ghiaccio. Tastò il suo corpo alla ricerca di un addome scomparso e si scoprì nudo. Sclere scarlatte indagarono il luogo: solo buio. Una sensazione di vuoto gli riempì la bocca dello stomaco. Era diventato cieco? Stava sognando? Nessun indizio confortò il suo terrore crescente. Improvvisamente riaffiorarono i ricordi... la quiete prima della tempesta... gli occhi disperati di sua madre... lo sguardo muto di suo fratello... la mano infilata sotto il giubbotto... il dito sopra il pulsante... la tempesta dopo la quiete... I ricordi riaffiorarono. E lui li spense. Si assopì. Fotogrammi al ralenti gli inondarono la corteccia visiva: brandelli di carne pendula monconi anneriti fumanti arterie lacere pulsanti sangue vermiglio a fiotti occhi vitrei sbarrati gambe senza piedi piedi senza scarpe scarpe con i piedi. fuochi fatui. click click click... un silenzio ovattato e complice copriva i rantoli dei feriti l'agonia dei morenti l'incredulo stupore dei morti Chiuse gli occhi. Questa volta il risveglio fu più lento e lucido e consapevole. Freddo e buio lo incalzavano ma lui non se preoccupava, ormai conosceva il suo destino e anche il suo premio conosceva, se lo ricordava bene quel premio. Si sollevò a fatica, mosse qualche passo incerto, i suoi piedi presero confidenza con un suolo liscio come lava solida e gelido come ghiaccio urente. Si inoltrò nell'oscurità e iniziò la ricerca. Vana e infruttuosa e frustrante, come il destino che si era scelto, ma continuò a cercarle per l'eternità: non ne trovò neppure una, delle settantadue che gli erano state promesse. Solo settantadue chicchi trovò, settantadue chicchi di uva passa.
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http://ultimapagina.net/forum/topic/504-violino/?do=findComment&comment=4847 Il pensiero come vapore sospeso nell’aria; lo respiravo, giorno dopo giorno, non era nebbia, non aveva forma. Sentivo la sua presenza intorno a me, attraversava la mia mente per poi restare nella mia testa. Ero scontenta, confusa, irrequieta, disperata… Fuggì di casa, allontanandomi di questa presenza che mi rendeva oppressa. Non capivo cosa fosse, un angelo? il fantasma di un famigliare morto? dio? O semplicemente stavo impazzendo, disincantata delle mie carenze, dei vuoti di memoria, delle false promesse, delle idee scontate… Il fumo mi resse leggera, mi aprì gli occhi, un terzo occhio che mi permetteva di vedere l'invisibile. Come un pulsante per accendere la luce, ma questa luce rivelava tutto quel che era nascosto, oltrepassando le persone e gli oggetti. Tornai a casa, tollerante, cosciente dei miei sbagli, dei miei utili egoismi anche se solo a me stessa, e dopo la dolce caduta, non approfondì nell’abisso, lo guardai dritto negli occhi; con serenità mi raccontò tutto quello che da una vita mi avevo chiesto, sciogliendo le mie insicurezze, trattenni il fiato, rallentando i battiti del cuore, solo per continuare a sentire la sua voce sottile. Come non posso che essergli riconoscente? Se in ogni sua parola, sembrava materializzarsi nei libri che leggevo, come scritte dalla mia stessa mano, perché non era per capacità né talento, era perché lo capivo intensamente, ogni emozione morta nel passato, stampata nel foglio giallastro era ora mia, e la sua anima era risorta in me, mi avevano impossessato. Un’immortale legione di anime che hanno bruciato in me per sempre ogni senso di solitudine.
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Mi abbandono perduto, dentro di me, esaurito sprofondo nella dimenticanza. Accolgo stanco ogni pensare che lascio in solitudine, senza ascoltare la sua voce,né il suo eco. Di parole mi libero, come sangue che scorre, ignorando ciò che minaccia la mia fiducia in un futuro sereno. Rimango a lungo, in silenziosa monotonia, come l’influsso della pioggia, che piange per me… all’infinito… Una fitta nebbia arbustiva circonda mio cuore che dolcemente si ferma. L’Angelo della fine con la sua oscurità si confonde nelle tenebre e la notte è troppo scura per osservare il suo sguardo, la sua sagome che scorre, sparendo nel buio. Come uno spazio abbandonato dal tempo, nel dimenticatoio, la sua presenza sincera, non m’illude. Nero lucente, la sua pelle si confonde col suo mantello, allontanando ogni timido albore d’innocenza e di speranza, riempie il pensiero di vuoto, allontanando gli assurdi e ingannossi pensieri, profumando di vera bellezza, che è la sostanza che dentro il mio cuore trafigge e rinasce lentamente, un lungo battito che ha il suono agonizzante di un violoncello. Prendo tra le mani la mia penna, e inizio a scrivere una dichiarazione di amore alla Morte: Il mio animo veleggia, ed io piccolo mi sento, solitario, tra le tue mani come un sogno, come una barchetta di carta alla deriva. Come non amarti quando tutto quanto di più prezioso nella vita, te lo sei irrevocabilmente portato via, ingoiandolo interamente, senza che le tue mani tremassero e prima di mandarlo giù, al fondo del tuo gonfio ventre, più di una volta mi hai tentato, sussurrandomi parole seducenti, bisbigliandomi all’orecchio, nei miei momenti di grande debolezza, di estrema fragilità? E’ contro natura che io anziché seguire l’istinto di conservazione, di sopravvivenza innata, che ogni essere vivente porta con sé, il mio riflesso volontario, incolume, sia quello di assecondare la gravità del tuo desiderio attraente, di cui non posso più restare immune? Spettro custode del mio passato senza futuro, adesso come adesso, rimane ignoto, anzi, lo cancello. Fino alla fine tu, compagno invisibile, regni nel buio e la tua visione affonda come due grandi occhi, che attraversando come raggi, scolpendo dentro un tetro sentimento. Risanando con grazia cieca ogni onnisciente speranza senza ferita, muore, ormai inesistente, in quel marcio silenzio di dolore lasciato indietro, cui eco non si sente più. Mi sono sempre sentito attirato a te, al mistero e l’ultima verità che rappresenti, sei il centro dove ogni pensiero verrà svelato finalmente, e il mio essere sprigionato da questo corpo troverà due ali di libertà e di pace imminente. Prima di adesso avevo ancora ragioni che sostenevano quel peso che continuavo a portare in avanti con tutta la forza dell’esistenza sulle spalle. Ora che non mi resta nulla, sono portato a raggiungerti. Ho attribuito ogni singola parola sfiorita che ho raccolto nelle mie opere, alla tua Musa influenza. La fama aveva colmato il bisogno materiale e quando dall’alto mi sentivo nella cima più elevata del mondo, mi ritrovai da solo. Solo tu, non mi hai mai dimenticato, e da un angolo nascosto sempre mi osservavi. Ora apro la porta a te, sonnolento, la tua luce assorbe i miei occhi scintillanti di emozione, abbandono la tristezza che al primo sole dell’alba mi accompagnava fino all’ultima lacrima di tramonto. Le tue carezze, col aiuto della mia mano, mi fanno sanguinare delicatamente, mentre mi addormento nel tuo abbraccio immortale, che mi stringe forte, con le freddezze di un corpo che non prova più emozione alcuna. La tua voce resta in silenzio, mentre il timore recita il canto del fiume annunciando la mia fine. L’arrivo della luna in compagnia delle stelle bruciano di sogni, non sono più che polvere sparso nell’aria e l’agonia dell’assenza, un ricordo che scappa via in una lacrima. Il mio cuore è libero e pronto a partire, nell’attesa speranza che mi porti verso l’infinito, dove la poesia mi aspetta, confondendomi nel paesaggio sorvolando sul bianco delle nuvole circondate di luce albore del miracolo.
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Commento: Il Reato al Monte Decisero di muoversi col sole alto, consapevoli che, nelle ore più calde, il Padrone ha sempre troppo da fare per buttare un occhio su tutti. Si sa, ma si tace, che nemmeno Lui è ovunque, anche se di occhi sembra averne quasi infiniti (ma un quasi non è mai trascurabile, quando si parla dell'infinito o del suo contrario). Si erano da poco incamminati Ahehg, Ny'hal e Keqee. Secondo il piano originale, un quarto elemento (un tale Sef'u) avrebbe dovuto far parte del gruppo, ma - all'ora stabilita per la partenza - di lui non c'era traccia. Il giorno prima avevano concordato il luogo dell'incontro: una delle mille radure terrose perse nella foresta. Ne avevano scelta una tra tutte, senza criterio: «Vediamoci là, domani, all'ora che sapete.» Sef'u tardava, insomma, e gli altri non potevano attendere oltre: il rischio di essere scoperti sarebbe stato esagerato. Frettolosamente gettarono sguardi tra le fronde, per sopire il timore di essere spiati; poi partirono, senza nulla a fargli pesante la schiena. Avevano già camminato, piuttosto svelti e sempre muti (per non attirare con la voce i curiosi), poco meno di dieci chilometri, quando il silenzio si fece tanto solido da assumere l'inquietante forma di un'assenza, e i tre pensarono subito a quella dell'amico Sef'u. Le prime parole furono di Ahehg: «Forse non se l'è sentita di rischiare.» «Eppure ieri sembrava entusiasta di questa nostra breve evasione.» «Hai ragione, Kequee, ma magari la notte gli ha regalato incubi. Il sole non scaccia certi sogni neri.» «Non vorrei - chiuse il triangolo Ny'hal - che i fedelissimi del Padrone l'avessero scoperto e arrestato.» Dei tre, Ahehg era il più vecchio, Kequee il più giovane, mentre la nascita di Ny'hal era caduta puntuale a metà strada, tra quelle dei compagni: aveva due anni in meno del maggiore e due in più del minore. Questo suo trovarsi nel punto equidistante dagli estremi gli aveva sempre ispirato l'idea che a lui toccasse il ruolo dell'asse di simmetria: dove s'incontrano le immagini identiche e opposte. Credeva fosse suo, in breve, il compito di stemperare da una parte il carattere autoritario e facilmente irritabile di Ahehg, dall'altra quello impulsivo, spesso aggressivo, di Kequee. Lo spirito violento di questi due non sorprende. Nella bellicosa comunità di cui facevano parte, strideva invece la mitezza di Ny'hal. Tutti e tre, comunque (anno più, anno meno), vivevano l'età più invidiata, ovvero la giovinezza: con le gambe solide e instancabili, non a caso, impiegarono poche ore a valicare i confini della foresta, dove un deserto di pietra ospita il Monte, la cui vetta era appunto la destinazione degli evasi. Una voce: «Saliamo?» Le altre due: «Saliamo.» Ma prima pregarono, affinché tutto si concludesse per il meglio e senza punizioni. Le mani tremavano e la fronte sudava: li animava un terrore evidente. Non gli era permesso arrivare neppure fin lì, così distanti dal cuore della foresta, ma il Monte (e in particolare la vetta) è da sempre sul gradino più alto nella scala delle mete proibite. Cominciarono a salire il fianco, inventando, un passo alla volta, un sentiero mai esistito. Nessuno aveva osato scalare il monte, fino a quel giorno: qualche angelo, al limite, ci si era avvitato intorno volando. Ma i piedi dei giovani erano i primi a calpestare quella roccia, e le loro menti le prime a capirne davvero le forme, senza il soccorso della fantasia. Presto si fermarono, ché il buio grigio della sera mutò in tenebra cieca: per i tre non c'era modo di proseguire su quelle strade appuntite e illogiche, fino a quando la mattina non avesse restituito loro gli occhi. In una grotta sognarono, coi corpi vicini, realtà distanti: Kequee si vide nella foresta, di notte, che fuggiva da bastoni in fiamme e urla diaboliche. Inciampò e lo raggiunse un colosso tatuato, seduto sul dorso di un cinghiale. Non tardarono gli altri inseguitori: chi cavalcava lupi enormi, chi orsi rabbiosi, chi cinghiali dalle fattezze leonine, chi invece uomini, robusti e dalla pelle sudicia di sangue, riconoscibili tra le bestie solo perché più stanchi e dotati di zampe deboli. Proprio un domatore di uomini, in sella a un esemplare ormai esausto, urlò qualcosa a Kequee in una lingua sconosciuta; ma il ragazzo capì: lo avrebbero cavalcato fino a ucciderlo. Difatti, l'uomo che gli aveva urlato scese dal suo animale (non si può chiamarlo in altro modo), sgozzò questo con una piccola lama rovinata da decenni di utilizzo, e montò sulle spalle del giovane Kequee, cavalcandolo nella foresta, durante l'intero giorno e l'intera notte. L'incubo di Ahehg, invece, lo privò di un corpo: egli era il suo paio di occhi e guardava un mare cordiale, riflesso di un cielo non meno pacato. Dominava la scena l'azzurro dello specchio e dello specchiato, il bianco di alcune nuvole e di pochi gabbiani, infine il grigio del cadavere di un vecchio, che al cielo offriva la schiena e il volto al mare. Ahehg riconobbe subito la postura e la tinta di un corpo che la vita ha già fuggito. Trascorso qualche momento, il morto cominciò a ruotare su stesso, rivelando il volto. E questo sorrideva. Le braccia si agitavano rapide, movendo miniature di onde; la bocca articolava parole mai sentite, ma ad Ahehg bastò per capire che l'uomo era, indubbiamente, vivo e contento. Pochi secondi e il corpo si capovolse ancora, tornando cadavere: immobile, senza respiro, grigio come non può esserlo nulla di vivo. Più volte il corpo passò dalla vita alla morte, mostrando e celando il viso. Il cielo e il suo riflesso acquoso restarono azzurri e in pace per tutto il tempo. Intanto, in un altro sogno, Ny'hal moriva in croce. I tre evasi tornarono alla realtà nello stesso momento, ed era quasi l'alba; nessuno fu capace di rammentare le immagini del proprio incubo, ma ognuno sapeva - glielo suggeriva la testa pesante - che qualcosa aveva tormentato quella notte. Ripresero la marcia, Ahehg in testa e Ny'hal a chiudere la fila, inciampando spesso e imprecando, non sempre a bassa voce. Finalmente raggiunsero la vetta. Ahehg e Kequee chiusero gli occhi: «Perdonaci, Padrone, se abbiamo peccato.» «Guardate.» disse composto Ny'hal, ma i compagni non gli davano retta, accecati dalla paura. «Guardate.» ripeté senza alterarsi. Allora gli occhi di tutti si aprirono finalmente allo stesso paradiso. Col capo chinato, videro laggiù la foresta e tutti i suoi confini: capirono che non era sterminata quanto si insegnava e che il mondo possedeva molto di più. Là, per esempio, correva un fiume, che lo sguardo dei tre accompagnò fino all'orizzonte. Non potevano seguirlo oltre, ma quell'acqua, pensarono, doveva scorrere all'infinito. Una valle verdissima reggeva una foresta bianca di pietra: riconobbero strade, piazze, case, un piccolo villaggio che forse la vita abitava dall'inizio dei tempi. Un lago, poco lontano, era senz'altro la dimora del silenzio e della pace. «Ci chiedevamo come fosse la vita di Dio. Ecco: è di infiniti attimi come questi. Il mondo intero nello spazio di uno sguardo.» Parlò così Ahehg e Kequee aggiunse «È straordinario.» e Ny'hal concluse «È un sogno.» In quel momento tremò la terra, si arrestò il vento, s'infiammò l'aria, si spense il sole. Ai giovani bastò il tempo per voltarsi e osservare il Padrone apparire, uscendo da un vortice di fiamme. Il loro amico Sef'u, vennero a scoprire, li aveva venduti. Il Padrone domandò: «Chi ha avuto l'idea?» Ny'hal avanzò di un passo. Lo crocifissero la mattina dopo, nella radura dove l'evasione era partita. A Kequee toccò portare in spalla la pesantissima croce, per lunghe ore, fino al luogo dell'esecuzione. Ahehg non poté sfuggire alla visione di quel corpo appeso che ora moriva, ora sembrava rinascere; ora insanguinava la terra, ora balbettava al cielo. Nel pomeriggio vennero lapidati tutti e tre: uno ancora in croce, gli altri ai suoi piedi. Nessuno pensò mai che la punizione fu eccessiva. In fondo erano colpevoli di tradimento, che è certo il peggiore tra i reati: se ne macchia chi è nato nella foresta del Diavolo e vuole indossare gli occhi di Dio.
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Pablo aspirò con avidità il fumo dalla pipa in legno. Chiuse gli occhi e per un attimo la sua mente giacque in un mondo lontano e perfetto, privo di dolore e di rammarico. Pensò a Carlos, delineò il suo ritratto, desiderò che fosse ancora vivo, e l'immagine dell'amico era nitida e presente. Ricordava con mestizia Carlos, con cui fino a poco tempo prima aveva riso e scherzato e che infine aveva scelto il peggiore dei modi per morire. Il suicidio. Aveva rinnegato l'anima e il corpo, preferendo la morte alla vita, e lasciando Pablo in balia della disperazione. Tutto per colpa di una donna. Pablo espirò il fumo e l'illusione della quiete si dissolse in una nube scura e densa. Poggiò la pipa sul tavolo e afferrò il pennello. Trasse un respiro profondo e permise alle emozioni di assumere il controllo della mente. Intinse il pennello nel ciano e tracciò sulla tela le prime linee. L'ennesimo quadro dedicato a Carlos. La piazza del mercato gremita di gente è una macchia di persone azzurra e uniforme. Il sole blu, alto nel cielo, rischiara debolmente il cielo tetro e scuro; i suoi raggi gelati raggiungono la terra in uno zufolo di rammarico e desolazione, fredda angoscia. Soledad cammina a testa bassa, le buste della spesa pesanti la fanno barcollare ora a destra ora a sinistra. Sta attenta a dove mette i piedi. Le gambe le fanno male perché si è alzata presto e ha camminato tutta la mattina per procurarsi tutto il necessario per preparare il pranzo di Lucas, suo marito. Guarda l'orologio e capisce che è meglio sbrigarsi, se non vuole che si arrabbi. Le buste della spesa lasciano dei solchi violacei sulle mani azzurrognole. Le poggia a terra e cerca di procurarsi sollievo sfregando tra di loro i palmi, aprendo e chiudendo le dita, invano. Cerca di risollevare le buste quando, sotto il peso di una forte spinta alle sue spalle, crolla a terra con il viso rivolto verso lo scuro terriccio del suolo. Un omone alto torreggia su di lei, copre il sole con la sua ombra. Stai bloccando tutto il passaggio, ringhia. Non fermarti in mezzo alla strada! Le rivolge una smorfia di disprezzo e passa avanti, quasi calpestandola. Soledad si sente osservata, tutti la stanno fissando. Nessuno è intervenuto, nessuno oserebbe mai. Si rialza sotto gli sguardi diffidenti della folla e cerca di ricomporsi. Dove sono finite le buste? sbotta allarmata. Si guarda attorno ma non vede nulla. Qualcuno deve averle rubate, pensa, mentre sente la gente bisbigliare che è giusto così, che le sta bene. Avverte le lacrime, la vista si annebbia, mentre il blu della piazza sbiadisce. Vorrebbe piangere, ma si trattiene. Deve tornare a casa, deve affrontare Lucas. Piangere non serve a nulla, pensa. Suo marito non si intenerirà solo per qualche lacrima versata o qualche segno sulle guance cerulee. A testa bassa si fa strada fino a casa, commiserando se stessa e la sua vita. Bussa timidamente alla porta e in un attimo sulla soglia compare suo marito. Allora? chiede. La squadra dall'alto in basso, con odio e disprezzo. Soledad non osa fiatare, cerca solo di trattenere le lacrime, ma un singhiozzo disperato fugge dalla sua gola e in breve la finta compostezza di Soledad si infrange in un pianto patetico. Mi dispiace, mormora. Non riesce a dire altro. Ti dispiace? Lucas la afferra per un braccio con forza fino a lasciarle un profondo segno viola e la trascina in casa. La spinge a terra e Soledad batte la testa, ancora in lacrime. Davvero ti dispiace? mormora a denti stretti e con i pugni serrati per la rabbia. La afferra per i capelli, provocandole un dolore lancinante, insopportabile. Solleva i pugni, pronto a colpirla, ma un boato di incredibile intensità, proveniente dall'esterno, lo distoglie. Sei fortunata, bisbiglia, e si allontana per uscire. Un altro boato risuona minaccioso fuori. Soledad trascina il corpo dolorante fino alla porta d'ingresso e assiste allibita allo spettacolo che si presenta ai suoi occhi. Il cielo è scosso da un violento terremoto di tonalità a lei sconosciute. Ci sono toni caldi, confortevoli e accoglienti, e toni freddi, desolanti e sconcertanti. Non riconosce il giallo, il rosso, il verde, né altri colori, ma le sembrano familiari. Una strana sensazione agita le sue membra ora e, quasi dimentica delle violenze appena subite, sorride. Per la prima volta nella sua vita, sorride. E pensa di aver trovato una parte di sé che non conosceva. Mentre i colori continuano a inondare il cielo, la terra inizia a tremare. Strida di terrore si sollevano alte, in cerca di una disperata via di salvezza. Soledad vede Lucas urlare e corre via, come tutti gli altri. Lei invece è tranquilla. Guarda la terra, osserva il cielo, contempla i colori ridefinire il suo mondo mentre il blu si dirada. E sorride. In un attimo è tutto finito. Pablo in un accesso d'ira riversò tutti i colori sulla tela, come a voler gettare via tutte le sue emozioni, per poter ricominciare una nuova vita. Il verde per la speranza, il rosso per la rabbia, il blu dell'amarezza. Si accasciò a terra e pianse. Per se stesso, per i suoi quadri, per Carlos. Non voleva dimenticare il suo amico, non voleva lasciare andare il suo passato, ma non voleva nemmeno soffrire. Distrusse la tela, la sua ultima opera blu. Il dolere lo attanagliava ma il desiderio di vita lo chiamava a sé. Si accasciò su una sedia, lasciando cadere il corpo come fosse un cadavere, e pianse fino a esaurire le lacrime. Il viso di Carlos si affacciò alla sua mente, talmente vivo e vicino che Pablo credette di poterlo sfiorare con le dita. I colori sono la chiave, sussurrò Carlos. Basta scegliere quello giusto. Il suo viso sfumò in una leggera nebbia fino a scomparire, lasciando dietro di sé l'ombra di un sorriso. Pablo prese a fissare uno a uno i colori sulla tavolozza, pensando al dolore provato per la perdita di un'amicizia importante, alla desolazione di una vita difficile, alla mestizia della sua solitudine. E infine capì. Rosa! esclamò. Raccolse nuovamente la concentrazione, si lasciò trasportare dall'emozione e dall'ispirazione e inaugurò una nuova tela. L'inizio di un nuovo periodo.
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commento Attimi. Flash, sprazzi di lucidità tra un incubo e l'altro, tra l'oblio e la coscienza. Tra il bianco e il nero. Tra il sonno e la veglia. Giorni. Sono tutti uguali. Piatti, infiniti e scoloriti. Non sono sola, siamo in tanti. Tutti urlano, tutti piangono. C'è una tale concentrazione di sofferenza qua dentro... non c'è mai pace in questa specie di limbo in cui ci troviamo. Non so nemmeno più come mai sono qui, so a malapena il mio nome, mi stordiscono con le pillole e con le gocce, ma più me ne danno e più ne ho bisogno. Dopo le gocce mi sento bene, tutto si attenua: il male che ho dentro, le voci che mi urlano in testa, ma la pace dura troppo poco. Settimane. Si susseguono con una lentezza feroce. Le solite cose, le solite facce, la solita puzza di chiuso e di escrementi. Urlo. Almeno mi vedono, si curano di me. Tanti hanno paura di me quando urlo, glielo leggo negli occhi. Quando lo faccio finisce che qualche piccola concessione poi me la concedono, ma non oggi. Oggi c'è il turno di merda... quella maledetta infermiera non mi dà mai nulla, né una sigaretta, né qualcosa in più da mangiare, niente strappi alle regole quando c'è in turno la stronza. Mesi. Il tempo si dilata, perdo il conto, le uniche cose a identificarlo sono le ricorrenze ufficiali: il Natale, l'Epifania, il carnevale, la Pasqua, il mio compleanno, il Ferragosto, Halloween. Poi, in un attimo o in un tempo che sembra non voler finire mai, arriva di nuovo il Natale. Anni. Da quanti anni sono qui? Se me lo chiedono non so rispondere. Mi ricordo solo che mia madre era ancora viva, sempre allegra e giovane. Veniva spesso a trovarmi e mi regalava degli abiti bellissimi... Dio quanto ero bella con quei vestiti. Poi non è più venuta a trovarmi, mi hanno spiegato solo dopo molto tempo che era perché era morta... quella volta la rabbia che avevo dentro non sono riuscita a trattenerla. Piangere non mi bastava, ho spaccato la mia camera, ho urlato per giorni e ho colpito con pugni e calci chiunque si avvicinasse o volesse toccarmi e qualunque cosa mi capitasse a tiro. È stata dura, ma ho superato anche quel dolore... non so sinceramente dove ho trovato la forza per tenere in piedi quel castello di sabbia di cui è fatta la mia vita. Ho superato indenne un dolore grande come la perdita dell'unica persona alla quale importasse qualcosa di me. Mesi. Non resisto più. Fa male vederli passare. Inesorabili, senza una meta o uno scopo. Non so più nemmeno io che cosa voglio da questo schifo di vita. Settimane. Sento sempre lo stesso dolore che mi trafigge il petto, un peso che mi schiaccia sempre di più. Quasi mi manca il respiro. Alcune volte mi illudo che sarò felice di nuovo, come prima di impazzire... ma sarà poi vero che sono impazzita? Non è che è il mondo a essere più folle di me? Chi è che a questo mondo può definirsi sano di mente? Giorni. Non ne posso più. La noia mi annienta, il dolore ormai è quasi insopportabile. Voglio andare a casa... ma quale casa? Non ho più una casa, non ho più nessuno al mondo. Dove potrei mai andare? Attimi. Me ne basta uno. Uno spiraglio di luce nel buio. Mi incanto a guardare il panorama, ringraziando la sbadataggine della donna delle pulizie che ha lasciato la finestra socchiusa. Il mare oltre gli scogli è in burrasca, ne sento l'odore, mi arriva alle orecchie il rumore della risacca. Inspiro forte, l'odore di salsedine mi penetra e mi calma i sensi. Respiro ancora a fondo, mi disconnetto dal mondo, una sensazione di benessere mi pervade. Sono già fuori, sono felice, libera: ho imparato a volare.
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Commento Siamo fermi qui, aspettando il tramonto. La brezza marina che accompagna il volo dei gabbiani in fuga dall'orizzonte porta con sé un sapore dolciastro che sa di malinconia e che lascia in bocca un retrogusto amaro. Il mare respira quando le sue onde si infrangono sulla riva dissolvendosi in una schiuma bianca e fumosa. La natura vive e parla. Noi tratteniamo il fiato, seduti sulla sabbia, in un insolito silenzio religioso. Non ho mai visto così tante persone assorte nella contemplazione, nemmeno in chiesa durante la preghiera. I bambini sono stanchi, dormono. È un peccato che debbano perdersi un tale momento. Ma forse è meglio così, forse è meglio che non provino questa spiacevole sensazione di sconforto, forse è meglio che nella loro memoria il ricordo rimanga incontaminato. Il cielo arrossisce, mentre la luce del mondo si concentra verso l'orizzonte, al di là del mare. Che spettacolo, sospiro. Ci hanno detto di aspettare il tramonto e noi aspettiamo. Ci hanno detto che domani il Sole non sorgerà, che non potremo vederlo mai più. Ci hanno detto che si spegnerà, lasciandoci al buio del cosmo per l'eternità. Non so come sia possibile, ma è questo che ci hanno detto. Il Sole si spegnerà. Dopo averci illuminato per miliardi di anni, dopo averci regalato la vita, senza mai volere nulla in cambio, alla fine anche Lui ha perso la fiducia nel genere umano. Ci abbandona, per sempre. È una sentenza definitiva, da cui non si torna indietro. Credevamo di avere tutto il tempo del mondo, ma avevamo torto. Il nostro tempo finisce qui e adesso, senza concederci alcuna possibilità di riscatto. Alla fine siamo stati sconfitti. Dall'ingenuità, dall'ignoranza, dalla cattiveria. Abbiamo combattuto una guerra contro noi stessi, ci siamo uccisi a vicenda, abbiamo raso al suolo questa terra che è dimora di tutti, e ne siamo usciti sconfitti. Il mare placa le sue onde e stende onorato il suo tappeto trasparente e uniforme. Il Sole cala alle sue spalle ma continua a irradiare il cielo con il suo caldo rossore. Una sensazione piacevole e familiare si affaccia in me e la accolgo con gioia. In un attimo mi sento come uno di quei bambini che continuano a dormire tra le braccia dei genitori: insignificante di fronte all'immensità di questo mondo, ma protetto da una mano amorevole e confortante. Non so come faremo domani, quando il Sole si sarà spento. Quando la Guida che ci ha tenuto per mano sin dalle origini, insegnandoci a orientarci seguendo il suo movimento e il suo esempio, non sarà più qui ad aiutarci. Quando la fonte di energia e vita si sarà esaurita e ci avrà abbandonati al nostro destino, senza lasciare nemmeno una spiegazione. In qualche modo dovremo fare, anche se non so come. Adesso il Sole è solo una semisfera lontana ma avverto con certezza il suo calore. So che continuerà a guidarci finché la sua luce potrà raggiungerci, fino all'ultimo momento. So che il tramonto sarà lento, perché Lui vorrebbe rimanere. So che ha fatto una scelta difficile, ma è l'unica opzione possibile. Una lacrima mi riga le guance, mentre osservo attento il declino. L'ultimo raggio di luce mi accarezza il volto. Il Sole svanisce all'orizzonte. Non ci incontreremo un'altra volta. In breve anche la fascia dei crepuscoli si estingue e le tenebre si impossessano del mondo. Ora vedo il buio, nient'altro che il buio. Addio, Sole.
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Breve delirio insensato di un uomo sugli uomini, sul deserto, sulla vita, sulle stelle, sulle cose aliene, sul senso, sui sensi, sulle cose senza senso e su una cosa chiamata "codardia" che è, invero, l'unica cosa degna della medaglia per il coraggio
Ospite ha pubblicato una discussione in Narrativa
Commento (Sfida 2 "viaggiatore nel deserto") BREVE DELIRIO INSENSATO DI UN UOMO SUGLI UOMINI, SUL DESERTO, SULLA VITA, SULLE STELLE, SULLE COSE ALIENE, SUL SENSO, SUI SENSI, SULLE COSE SENZA SENSO E SU UNA COSA CHIAMATA “CODARDIA” CHE È, INVERO, L’UNICA COSA CHE MERITA LA MEDAGLIA AL VALORE PER IL CORAGGIO. Scappare, da sempre, è considerata la “virtù” dei codardi. Scappare da tutto e da tutti, anche da se stessi è, per quanto assurdo possa sembrare, la scelta più coraggiosa che un uomo possa fare nell’arco di una intera esistenza. Perché la scelta di lasciare tutto e fuggire lontano, alla disperata ricerca di un attimo di libertà, di un brivido mai provato, di una serenità che si ha solo sognata durante quelle rare notti di piacevole sonno non interrotte da atroci incubi. E spaccare quello specchio, illudendosi di poter fare del male a quell’immagine riflessa; illudendosi di poter cambiare qualcosa nella misera esistenza nella quale siamo stati gettati come pedine di un sadico gioco; con l’angoscia perenne, la malinconia incalzante, l’insolito mal di vivere che, in genere, viene scambiato per mal di morire. La routine quotidiana diventa una dolorosa agonia: svegliarsi al mattino, consumare una misera colazione, buttarsi sotto la doccia, uscirne, asciugarsi, spazzolare una, due, tre, quattro, cinque volte i denti; vestirsi, uscire di casa, andare a lasciare i figli a scuola, andare nel misero ufficio, lottare con i clienti. Uscire, prendere i bambini, tornare a casa, cucinare, mangiare, riposare, spazzolare una, due, tre, quattro, cinque volte i denti; mettersi le scarpe, uscire. Tornare in ufficio, lottare con i clienti, prendersi una pausa. Tornare a casa, cucinare, accendere la televisione, ignorare i bambini che giocano; metterli a letto, tornare davanti la televisione; addormentarsi sul divano. E ricominciare daccapo. Giorno e notte diventano relativi, niente più giorni festivi, niente più giorni lavorativi, niente più sole, niente più luna: quando a stento si ha la forza di aprire gli occhi non si fa più caso a queste cose. In breve è la vita stessa ad alienarsi e noi stessi ci alieniamo, seguendo la sua scia. Di colpo “abbasso il potente” e “proletariato” divengono: “abbasso la vita” e “vivente”. Il comunismo diviene da utopia a realtà, ma in un modo diverso: diventa un comunismo vitale, per così dire. La stanchezza si trasforma in malattia, la malattia in morbo mortale, incurabile, virale. E non rimane altro da fare se non scappare, per evitare di morire. O forse per evitare di vivere. Perché sì: per quanto possa sembrare assurdo, l’unico modo per continuare a vivere è lasciarsi la vita alle spalle. E, bisogna ammetterlo, ci vuole coraggio. E di colpo la routine cambia radicalmente. Svegliarsi la mattina, procurarsi del cibo, camminare. Sprofondare nella sabbia, combattere contro il caldo e la sete, lottare per la sopravvivenza. Cercare un’oasi verdeggiante, sognare l’acqua; guardarsi intorno: non vedere nulla. I palazzi adesso sono fatti di sabbia: enormi dune candide, che si formano e si sformano come nulla fosse; e di colpo ti rendi conto che non sono i Romeni o gli Armeni o gli Italiani o gli Americani la migliore mano d’opera: è il vento. E costa pure di meno, anche se è un po’ più rompicoglioni. Trovare della legna, accendere un fuoco, rannicchiarsi lì vicino per sopportare il freddo. Riflettere su come sia volubile la vita: un giorno vedi solo palazzi di cemento, un altro solo di sabbia. Di giorno il sangue ti bolle nelle vene, di notte rischi di morire assiderato. E pensare che non ti è mai piaciuto il caldo. Sperare che non arrivi qualche animale a mangiarti vivo, pregare un Dio al quale non hai mai creduto, addormentarti nel silenzio della notte, guardando le stelle. Non avresti mai pensato che ce ne fossero così tante. In città se ne vedono poche, giusto uno o due miliardi; adesso ne vedi così tante da immaginare che sia giorno. Centinaia e centinaia di miliardi di piccole lucette in lontananza che ti fissano avidamente. Perché sì: le stelle sono come miliardi di occhi che ti fissano, supplici del perdono per azioni compiute da uomini innocenti. E il tuo ultimo pensiero, prima d’addormentarti, va proprio a quelle stelle: cosa avranno mai fatto per fissarti in quel modo? Costrette nel gelo dello spazio, immobili e immutabili. E pensare che non sai nemmeno se tutte quelle stelle ci sono ancora. La solitudine ti spaventava, ma ormai non ci fai più caso: non ti mancano le persone né le loro voci e, a dire il vero, hai quasi dimenticato che suono ha una voce. E che calore ha un abbraccio. Continuare a camminare diventa vitale: spostarsi di giorno in giorno, sprofondare nella sabbia, sudare, cercare dell’acqua. Non si ci fa nemmeno più caso dopo un po’, diventa normale, naturale. E si ci rende conto che si è di nuovo piombati in quella stessa routine, in quella stessa agonia, in quella stessa malinconia, in quella stesa lenta, triste, misera, dolorosa vita di sempre. E l’alienazione ha un nuovo significato. Eppure questa volta non ti pesa e a stento riesci a pensare: non sei più un uomo, ma un camminatore: uno che cammina per vivere e vive per camminare. Il deserto diventa il tuo mondo e il mondo il tuo deserto, l’acqua diventa la tua sete, la sete la tua unica fonte d’energia. E hai dimenticato tutto, di nuovo. Il comunismo vitale diventa comunismo mortale e “abbasso il potente” e “proletariato” – che erano diventati “abbasso la vita” e “vivente” – diventano: “abbasso la morte” e “morente”. Eppure, nonostante tutto, non stai male. Si ci sente diversi quando non si ha più la possibilità di sentire. Si ci sente vivi solo quando non si ha più vita. Si ci sente liberi solo quando non si ha più un motivo per volere la libertà. E, intanto, ogni notte, prima di addormentarti, fissi quei piccoli puntini di luce in lontananza che ti fissano a loro volta: come occhi supplici del perdono per azioni compiute da uomini innocenti. -
Il mio commento: qui. MANI Mio padre morì nel Novembre ’89. Ricordo che, al momento dell’ultimo respiro, aveva un’espressione felice. Io gli tenevo forte la mano rattrappita, lui appena stringeva. Ricordo la pelle macchiata, la pelle di un vecchio: le mani che mi tenevano in aria da piccolo erano forti e vigorose, quelle che mi davano i ceffoni quando combinavo qualche cazzata erano enormi e dure. Quelle erano raggrinzite, macchiate, scure, mollicce, con le vene tanto gonfie da sembrare come esplodere. Quelle erano le stesse mani? Erano le stesse mani che sfioravano mia madre e mia sorella? Le stesse mani verso le quali provavo terrore e al contempo amore? Come potevano quelle mani essere così dolci e severe allo stesso tempo? E come potevano essere solo pezze di pelle gettate svogliatamente sulle ossa in quel Novembre ’89? Ricordo che ogni volta che gli facevano la flebo avevo paura che l’ago lo trapassasse da parte a parte. Vedevo già il suo corpo svuotarsi dell’aria e volare via, fuori dalla finestra, lontano dall’ospedale; lontano dalla vita. Lontano da me. Mio padre aveva degli splendidi occhi azzurri. Nel Novembre dell’89 erano grigi. Mio padre aveva i capelli neri come la pece e folti come il sottobosco. Nel Novembre ’89 erano bianchi e radi, tanto sottili che avevo paura a respirarci vicino, come se potessero volare via come facevano quei fiori bianchi. Mio padre aveva un piccolo tatuaggio sull’avambraccio: il simbolo del reggimento che aveva servito nella guerra contro il Führer. Nel Novembre ’89 aveva perso forma e colore, ed era una piccola macchia d’inchiostro sbiadita tra le pieghe della carne molliccia. Mio padre aveva una voce possente, roca, ferma; una di quelle che ti fanno trasalire se sentite nel cuore della notte. Nel Novembre 1989 era poco più che un sussurro. Poco più che un respiro grottesco. Chi era quell’uomo al quale tenevo la mano? Ricordo che lui mi guardò, forse percependo la mia espressione di disgusto nel vedere ciò che era diventato. Mi sentivo stampato in faccia lo sguardo di chi osserva qualcosa di sconosciuto e se ne rende conto solo in quel momento: chi era quell’uomo al quale tenevo la mano nel momento della morte? Chi era? Dov’era mio padre? Era già morto? Da quando? E io dov’ero? Quell’uomo cercò di parlare, cercò di stringermi la mano; ma uscì un rantolo incomprensibile e la mano ebbe solo un impercettibile sussulto. Pochi attimi dopo il rumore d’allarme dell’elettrocardiogramma piatto mi riempì le orecchie. Quell’uomo era morto; ed era morto tenendo la mano di suo figlio. Un figlio che, nel guardarlo, non lo riconosceva. E, nonostante tutto, aveva un’espressione felice. Le infermiere accorsero in massa per cercare di catturare la vita di mio padre, la stessa vita che ormai era volata via dalla finestra. Io rimasi a guardare la scena, sinceramente un po’ divertito. Sentii il peso dell’ultimo regalo di mio padre nella tasca del pantaloni; lo presi. Era un vecchio orologio da taschino dorato, lo stesso orologio che aveva mentre combatteva contro i Nazisti. Se al tempo fosse già uscito Pulp Fiction mi sarei sentito come quel bambino che riceve in regalo l’orologio del padre. Lo stesso orologio che il compagno del morto aveva nascosto nel sedere per tutti gli anni che era stato prigioniero. Che schifo. Se avessi avuto questo pensiero, allora, di certo non l’avrei accettato. Lo aprii: le lancette giravano al contrario. Sul coperchio d’oro la scritta: «Per ricordare sempre che il tuo tempo è limitato. Vivi ogni attimo come se fosse l’ultimo, vivi! E non temerai la morte». Naturalmente la scritta era molto piccola e mi sforzai parecchio per decifrarla, ma alla fine ci riuscii. Uscendo, mi guardai allo specchio: avevo gli occhi azzurri, i capelli neri e folti, le mani grandi. Guardai l’orologio. Guardai il morto. Riconobbi mio padre.
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http://bookinprogress.net/forum/index.php?/topic/92-scrivi-un-racconto-partendo-da-un-immagine/#comment-1427 (SFIDA 1) Dal mio ufficio nel grattacielo, quel giorno, stavo guardando il mare, mosso dalla brezza autunnale. Fu allora che un puntino nero che si muoveva su e giù per la spiaggia attirò la mia attenzione. Guardai l'orologio, le 17.15 di un pomeriggio di ottobre. Caso strano, anche per questa stagione, non si vedeva nessuno. Era tutto deserto, eccetto quello che pensai fosse un cane. Forse era scappato a qualche padrone poco attento, forse era di qualcuno che non riuscivo a vedere dalla mia posizione. Tenevo un binocolo nell'armadietto, reduce dai tempi delle mie escursioni in montagna, di cui ora rimaneva soltanto attrezzatura impolverata in un garage. Mi serviva da promemoria, ricordando un tempo di buio, da cui mai avrei pensato di uscire e stava lì nell'improbabile caso mi dimenticassi che avevo imparato una lezione importante: osservare sempre le cose, anche le più banali, cercarne il significato.Aprii le ante del vecchio mobile, lo presi e volsi ancora lo sguardo alla spiaggia. Era un cane, non mi intendo di razze ma notai che si trattava di un esemplare di grossa taglia a pelo corto. Correva in qua e in la, apparentemente senza una meta. Andava avanti e tornava indietro. In quel momento una strana sensazione mi pervase. Ci misi un po' a ricordare. Era come un vecchio amico che torna a farti visita dopo tanto tempo, e intanto gli è cresciuta la barba, si è abbronzato, ha comprato un cappello e una sciarpa e tu lo vedi dalla finestra e pensi “ma chi diavolo è questo?” Fino al momento in cui ti saluta e torna nella tua vita con tutti i ricordi di un passato di cui forse, avresti fatto a meno. Di nuovo, quel giorno, sentii la stanza rimpicciolirsi, il cuore accelerare i battiti. Mi accorsi che respiravo troppo velocemente. Tuttavia riconobbi il mio amico e gli dissi “fermati pure se vuoi, mi casa es tu casa, ma devo finire di fare una cosa fondamentale”, infatti non mi smisi di osservare la scena, la spiaggia. Intanto il cane si fermò. Girò la testa verso di me. Nonostante la distanza incrociammo i nostri sguardi per pochi intensi secondi e fui assolutamente certo che lui sapesse cosa stava accadendo. Lo riconobbi, come il mio vecchio amico, come se ci fossimo visti ieri. Eppure non comprendevo perché, che motivo avevano queste visite? Perchè ora? Feci mentalmente il riassunto delle ultime settimane. C'erano impegni, lavoro, la casa da pagare e mantenere... In fondo ero un sessantenne. Si apparivo più giovane e esuberante, continuavo a lavorare anche se non ne avevo la necessità, eppure l'età iniziava a farsi sentire. Come diceva sempre mia nipote, vedendomi con la classica bombetta all'inglese con la quale mi presentavo ai rari ritrovi di famiglia “ho studiato un tizio a scuola che ti somiglia tantissimo”. Come cresceva. Una volta giocava con le bambole e ora leggeva della seconda guerra mondiale sui banchi di scuola. Insomma non ero insoddisfatto, eppure... avevo forse trascurato qualcosa? Il contatto visivo finì e il cane rivolse la sua attenzione a qualcos'altro. In quel momento sentii che dovevo staccare lo sguardo. Feci per posare il binocolo ma mi fermai, qualcuno stava passeggiando sulla spiaggia a pochi metri dall'animale. Di nuovo puntai lo strumento. Era una donna, sola. Camminava in fretta, con la testa bassa. Passò affianco al cane senza nemmeno accorgersene. Così capii... Due cose feci quel giorno. Scesi velocemente in spiaggia, fermai la donna con una scusa, chiedendole se avesse visto il mio cane. Riuscii a farla parlare un po', ci prendemmo un caffè e chissà, forse diventeremo amici. La seconda, una volta tornato a casa, fu riaprire l'armadio e spolverare l'attrezzatura. Era proprio ora di godersi un fine settimana in montagna. In realtà ce ne fu una terza, tornai al mio ufficio, sbrigai le ultime pratiche e, nonostante fosse ormai calato il buio, osservai ancora il mare e sorrisi.
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Il mio commento: Qui NOTA: è da un sacco di tempo che non scrivo un racconto; spero sia decente. SETTANTADUE MILIONI DI ANIME Come avrei potuto sparare a un uomo ferito? Era così indifeso, gettato lì per terra, con la gamba piena del sangue provocato da una granata esplosagli accanto; ed io gli puntavo il fucile dritto sulla testa, preso com’ero dalla foga della battaglia. Non ricordo se piovesse o ci fosse il sole; è un dettaglio indifferente. Nelle trincee c’era sempre fanghiglia, tanto era il sangue che si mischiava alla terra in quei giorni. Eppure... non avrei dovuto avere pietà per quell’uomo; non se la sarebbe meritata. No. Non avrei dovuto. Tutto quel sangue; e tutta quella sofferenza... solo colpa mia. Tutto per merito mio. L’uomo posò il bicchiere di vetro sul bancone del bar. Era vuoto ormai, e il soldato non poté fare a meno che rivedersi nel bicchiere: così inutile, così colpevole, così crudelmente segnato da un destino scritto in un giorno come tanti; durante una delle mille battaglie da lui combattute. Ne aveva uccisi tanti, di uomini, ma i sensi di colpa venivano subito repressi dalla convinzione che quello che faceva lo faceva perché doveva essere fatto, per il bene del suo paese. Per difendere gli innocenti e vendicare i giusti caduti; sanare i torti commessi e combattere per un sogno chiamato “pace”. Eppure... Già: eppure... Chiamò il barista con voce spezzata e chiese un altro bicchiere. «Lascia la bottiglia» disse mentre l’altro s’accingeva a riposarla in uno degli scaffali dietro il bancone. «Non crede di aver bevuto troppo, per stasera?», ma l’altro non rispose; nemmeno lo aveva sentito. In un sorso solo il bicchiere era già vuoto, e un attimo dopo era di nuovo pieno. Lo lasciò lì sul bancone, il soldato Tandey, mentre guardava la tempesta che infuriava fuori dalla finestra. Ammirò le persone che camminavano per strada, protette da grandi ombrelli d’indefinibile colore; e immaginò di essere come loro: libero da una così grande colpa. Accese una sigaretta e continuò a fissare il liquido ambrato mentre il fumo bluastro lo avvolgeva e le terribili immagini degli anni precedenti gli balenavano davanti agli occhi. Si era sentito subito in colpa, non appena seppe l’identità di quell’uomo, ma solo dopo anni il peso della sua azione si era manifestato in tutto il suo terribile splendore. Un peso sicuramente troppo gravoso per una persona sola. Quasi settantadue milioni di anime gli toglievano il sonno e la voglia di vivere. Aveva risparmiato una vita; ma a quale prezzo. A quale prezzo... non avevo mai immaginato che una buona azione potesse avere simili conseguenze: decine di milioni di vittime; e quanti feriti e morti di fame, e dispersi, e famiglie distrutte. Tutto per un unico gesto magnanimo che non avrei dovuto concedermi. Tutto per un attimo di debolezza che non doveva esserci. Sono stato decorato decine di volte, porto sul petto le più importanti medaglie Inglesi; e sono stato io la causa di tutto. Io, ed io soltanto. Ricordo ancora quando il primo ministro mi disse che lui mi portava i suoi più sentiti saluti. Lui. L’essere più spregevole della storia; vivo grazie a me. Ha persino appeso un quadro in memoria di quel giorno. Perché non mi aveva dimenticato. Come avrebbe potuto farlo? Ha detto che mentre gli puntavo il fucile pensava di non poter rivedere mai più la Germania; la sua Germania. Avrei dovuto sparargli senza pensarci, e se potessi tornare indietro lo farei senza la minima esitazione. La bottiglia ormai era vuota e della sigaretta rimaneva solo la cenere. Le persone erano andate via quasi tutte e il barista s’accingeva a chiudere per la notte. D’un tratto un pensiero scoppiò nella mente del soldato: e se in quei momenti di terrore, mentre lui stava per morire, avesse deciso di fare ciò per il quale è passato alla storia? Dio, abbi pietà di me! Allontana questa colpa dal mio buon cuore; permettimi di sognare, o di morire se preferisci. Ma ti prego, signore, allevia la mia pena! È colpa mia! Sono stato io a insediare il seme malato nella mente di quell’essere! Io ho la colpa e io sono l’unico responsabile! Ti prego, Dio, cancellami dalla faccia della terra, e cancella il ricordo di me! Non posso più vivere con questo peso sul petto! Li rivedo tutti, ogni notte. Anche se non li ho mai conosciuti. E vedo le loro famiglie distrutte dal dolore; e la sofferenza provata dagli innocenti che io avevo giurato di proteggere! Io, che merito oggi tutte le pene che sono state inflitte a loro. Ma Dio non rispose, né l’ascoltò. Settantadue milioni di anime erano troppe persino per lui. Il barista osservò il soldato da lontano, e notò una lacrima farsi strada attraverso le rughe. Non l’aveva mai visto piangere, anche se veniva nel suo bar da quasi tre anni. Da quando era finita la guerra, per la precisione. Non avevano mai parlato di se stessi, né si salutavano se s’incrociavano per le strade; e non c’era nulla di particolarmente strano in questo. Soprattutto per quei tempi. Eppure non aveva mai immaginato che quell’uomo potesse piangere: l’aveva sempre visto forte, come una roccia; e si meravigliava del fatto che bevesse così tanto. Evidentemente aveva qualcosa da dimenticare; motivo per il quale non gli aveva mai chiesto niente. Era andato a caccia di informazioni su di lui in giro per la città, anni prima; ma nessuno era in grado di darne d'interessanti: si era trasferito dopo la guerra e non parlava con nessuno; né aveva amici. Era sempre solo e tanto malinconico da incutere uno strano senso d’angoscia nell’animo del barista il quale, senza volerlo, si rendeva conto di evitare sempre il suo sguardo. Eppure quella volta non ci riuscì: il soldato si voltò di scatto e i loro occhi s’incrociarono per un solo istante; uno solo, ma il barista si sentì mancare e s’appoggiò al bancone. Era come se avesse visto la sofferenza di settantadue milioni di anime.
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Il mio commento lo trovate cliccando qui IL PIANTO DI UN BAMBINO La pioggia era fine e rada; faceva freddo e la strada era deserta. Roma, in quelle condizioni, di certo era una delle città più malinconiche del modo. Il rumore delle gocce di pioggia sulle pozzanghere era ritmico e cadenzato; in lontananza si sentiva il fruscio di un lampione che stava per fulminarsi e l’aria era impregnata di una tristezza palpabile; quasi fisica. La stessa tristezza che era chiaramente leggibile negli occhi dell’uomo seduto sulla panchina di piazza Vittorio Emanuele secondo. Era grottescamente accasciato lungo lo schienale; il bastone gettato di lato e le scarpe sporche di fango. Boccheggiava sommessamente e si premeva con la poca forza rimasta una mano contro lo stomaco. Tra le mille gocce di pioggia che gli scendevano lungo il volto era impossibile riconoscere l’unica lacrima che aveva avuto il coraggio di uscire, ma l’uomo la sentiva bruciare come fosse fuoco liquido e la percepiva distintamente. Non pensava di poter piangere ancora, non dopo tutte le lacrime che aveva versato dopo la morte della moglie; e si sorprese nel constatare il contrario. I ricordi erano confusi e gli passavano davanti agli occhi in modo indistinguibile, come fossero tutti uniti dal peggior direttore della fotografia della storia del cinema. D’un tratto sentì l’odore di quel prato appena tagliato sul quale giocava da bambino, percepì il calore dell’abbraccio di quella madre morta prematuramente, provò la gioia di quella volta che gli regalarono il modellino di un treno di latta; e la tristezza il giorno che lo perse. La gioia della prima volta che aveva visto la moglie; quella del matrimonio e dell’angelica visione di lei con il lungo abito da sposa che camminava, sinuosa, lungo la navata della piccola chiesa medievale nel piccolo paesino appena fuori Roma. La sensazione di tenere in braccio la figlia appena nata; e quelle lacrime di gioia alla sua prima carezza. E l’oblio nel constatarne la morte a causa di un problema respiratorio, la depressione nella quale era caduta la moglie; il silenzio, gli sguardi evitati, le bottiglie sempre più vuote e gli occhi sempre più velati. E lei che mangia sempre di meno, lei che non si alza più dal letto, lei che non parla più. Lei che esce dalla finestra e si mette in bilico sul parapetto; lei che si butta pronunciando il nome della figlia che mai aveva sentito parlare. Perché il problema degli affetti è il momento in cui li si perde; e se li si ama così incondizionatamente come una madre fa con il proprio figlio, la perdita è troppo forte per essere superata. E l’uomo aveva provato a seguire la moglie, ma non aveva mai avuto il coraggio di farlo. Iniziò a voler morire, pregando Dio ogni giorno e ogni notte affinché gli togliesse la vita, ma Lui si faceva sordo e non l’accontentava mai. A quanto pare Dio si diverte a vedere la sofferenza, pensava. In quei momenti, lì seduto, morente, sulla panchina; l’uomo si sentiva come subito prima di un orgasmo: stava per stare bene, ma mancava ancora poco. Lo avevano accoltellato dopo essere uscito dal bar: volevano dei soldi, ma se li era già bevuti tutti. Il ladro era scappato a mani vuote e l’uomo si era diretto verso casa, ubriaco e sanguinante; ma aveva preferito fermarsi lì, al centro esatto del parco, dove aveva visto, anni prima, la moglie per la prima volta. Con immane sforzo riuscì ad alzare la testa e osservò i sentieri artificiali mentre la pioggia aumentava d’intensità. Poi la forza venne a mancare, la pressione della mano sulla ferita scemò, la testa cadde all’indietro, le gambe si lasciarono andare e l’uomo spirò; in silenzio. In lontananza, il pianto di un bambino.