Cerca nel Forum
Mostra risultati per tag 'esercizio di stile'.
Trovato 10 risultati
-
Ho scritto un racconto fantasy. Non avevo mai scritto nulla di fantasy, e mi affido al vostro giudizio. Se non fa schifo potrei spedirlo a qualche rivista. Una donna dai capelli a forma di medusa, le unghie lunghe come salici piangenti e senza apparato riproduttivo fungeva da matrona per tutta la valle. I suoi sottoposti, gli Inkanutri, si radunavano per ascoltare le Cantee, e cioè le indicazioni della matrona su quanto andasse fatto nel futuro prossimo. La Cantea dell’anno 789 parlava chiaro: era necessario razziare il villaggio oltre la grande siepe e il bosco del mirtillo, un’inestricabile boscaglia a cui occorreva appiccare fuoco se la si voleva attraversare. E così fu. Il bosco del mirtillo venne incendiato per quasi la sua interezza e, mentre le fiamme si propagavano, tutti gli animali scapparono o morirono carbonizzati. Solo gli spettri dei guerrieri morti nelle ere passate rimasero, quasi a voler indicare il cammino a quelli degli Inkanutri. E così, una volta che il bosco fu bruciato, i razziatori lo attraversarono e giunsero alla grande siepe, un muro di mattoni verde smeraldo che urlava a gran voce un indovinello a chiunque si avvicinasse. Gli Inkanutri dovevano dare la risposta esatta, affinché il muro crollasse e loro potessero passare. Ne hai due Ne hai tre Nella tana di Danae ne sono entrati cinquantadue Ma solo cinque hanno fatto ritorno Quanti bambini ha ucciso Danae e quanti si stagliano, ancora vivi, davanti a te? Gli Inkanutri più svegli si diedero da fare per cercare di sbrogliare la matassa. Alla fine, Zolof, un guerriero adepto e cioè di classe appena inferiore, diede la risposta: – Danae ne ha uccisi quarantasette e dieci, tra quelli che neanche sono entrati nella sua dimora e quelli che ne sono fuggiti, si stagliano di fronte a noi! Con un fracasso enorme la grande siepe, ovvero il muro di Danae, crollò e gli Inkanutri poterono passare. Superato l’ostacolo, si aprì una palude senza fine. Il verde del bosco del mirtillo e lo smeraldo dei mattoni luccicanti della grande siepe furono subito un ricordo lontano e grande fu la disperazione tra i guerrieri degli Inkanutri nel constatare che attraversare quello swamp avrebbe richiesto molte vite. Durante la lunga e ostica traversata dei guerrieri, che a stento riuscivano a mantenere le proprie armi fuori dalla melma, dal centro della palude emerse a un tratto una figura dall’aspetto di un eremita. Il saggio aveva la testa calva a forma di palla sferica, un folto pizzo come un ricordo di epoche antiche e le mani ossute, simili alle zampe di un grosso ragno, facevano impressione. Voi che attraversate, ditemi Se Akllah a nove anni ha preso il potere Ma a quarantotto è stato ucciso per mano di suo fratello Inari Che a sua volta aveva trentacinque anni Qual era la somma delle età di entrambi quando Akllah aveva solamente nove anni? La risposta fu corale: – Solo nove, perché Inari non era ancora nato! Allora la palude si svuotò di colpo e gli Inakutri riuscirono a liberare dalla melma le loro armi di pietra e a portarle con più fierezza che mai, ora che non erano più appesantite da quel liquido denso e maleodorante. Attraversarono lo swamp e giunsero all’estremo oriente, al di là del bosco del mirtillo e della parete di smeraldo, per scoprire che il villaggio era costituito da una serie di torri sospese, massicciamente fortificate e adornate ai merli e alle finestre. Erano le costruzioni della città dei maghi del Nali. La matrona non li aveva avvertiti della natura dei loro nemici, perché in realtà la vecchia, malvagia fino al midollo e infastidita da quel popolo così arretrato culturalmente, ne bramava la distruzione. I guerrieri si stagliarono contro le torri sospese, lanciando le loro frecce e le lance, ma senza ovviamente ottenere risultato alcuno. Vennero incendiati dalle palle di fuoco dei maghi, ben nascosti dentro le loro fortezze, e la battaglia terminò con Zolof che correva verso le paludi, prima di essere raggiunto da una freccia magica al veleno. La matrona, che li aveva preceduti e aveva soggiornato nelle roccaforti dei maghi, suoi complici, fece ritorno alla sua capanna nella valle a bordo di un grifone, libera dal giogo e dal supplizio del dover presiedere le Cantee e dare ordini a un popolo così stupido. Trasportò le ricchezze di cui era colma legate alla coda del grifone, che la lasciò proprio davanti alla capanna, prima di alzarsi nuovamente in volo. Ma nelle ere successive all’ultima Cantea, la matrona cominciò a sentire la mancanza del calore del suo popolo – a chi mai avrebbe potuto elargire ancora saggezza? – e così, afflitta da quel pensiero, preparò un infuso di veleno e lo ingoiò. Essendo di una resistenza fisica inaudita impiegò un tempo interminabile per morire, e alla fine, quando il sonno giunse, tra atroci sofferenze, il ricordo di quei piccoli guerrieri e della loro semplicità le balenò in mente e una lacrima di dolore le scese lungo la guancia.
-
Salve, sto cercando di utilizzare il pov in prima persona. Questo è un estratto di un racconto più lungo. Il mio interesse è nel sapere sia se sto utilizzato il maniera corretta il pov in prima persona focalizzato con lo stile show. Soprattutto volevo sapere se fosse chiaro o se stucca e tutto quello che non va bene. Le descrizioni scelte sono corrette? ... Concept: Carla arriva un ufficio con una scarpa rotta e si mette a lavorare. Premo i tasti della tastiera meccanica senza sosta. Nome cliente - invio. Indirizzo abitazione - invio. Cosa ha acquistato? Quanti colli servono per la spedizione? Quante scorte rimangono in magazzino?... Continuo a rispondere al questionario e scoccano le tredici. Il tempo passa veloce. Apro la borsa, mi aumenta la salivazione: i due tramezzini al salmone e Philadelphia del discount impacchettati nella plastica sono là. Dò un morso al primo. La cremosità del formaggio si impasta al pesce tiepido. Chiudo gli occhi e sono in un ristorante a cinque stelle davanti a una spiaggia. Il garrito di un gabbiano sopra la mia testa. Succhio la carne dell'ostrica spruzzata di limone. Magari! Finisco i tramezzini, butto l'incarto nel cestino sotto la scrivania e riprendo il lavoro con un sospiro. Riempio pagine di excel, sono alla numero trentasei. Mi fermo e scrocchio le dita. I numeri sullo schermo si sfocano, mi bruciano gli occhi e strofino le palpebre. Sono le diciannove e un minuto. È arrivato il momento di andarmene. Premo il bottone di spegnimento sul case e acchiappo i miei effetti personali. Stringo la scarpa rotta nella mano, apro la porta piano piano e faccio capolino con la testa: nessun altro sta uscendo dal suo ufficio; staranno ancora facendo le loro cose. Sgambetto fino alla Hall: nella stanza c'è solo la tizia con la faccia anonima dietro al bancone. Non ricordo il suo nome. Dice: «Buona serata.» Faccio un cenno con la testa, le do le spalle e vado verso l'uscita in vetro di fronte a lei. Quando la porta scorrevole inizia muoversi una voce sguaiata dietro di me fa: «Ehi, Carla! Ti va di...» Giorgia. Se sentissi di nuovo le parole 'pupa', 'anello' e 'fidanzato' nella stessa frase potrei mettermi a urlare, perciò aumento il passo e senza voltarmi supero i gradini d'ingresso. Il buio mi investe e le dita del piede si accortocciano al contatto del porfido sul marciapiede. Si vedono le stelle, un lampione rischiara la strada. Supero vetrine di negozi con luci spente, il ronzio di una mosca fa avanti e indietro vicino l'orecchio. Sventolo la mano. Arranco, i fari di una macchina sbucano da un incrocio più avanti, l'auto imbocca la strada principale e le ruote girano sull'asfalto con un fruscio costante sempre più forte via via che la figura si ingrandisce. Una specie di Caparezza giovane tira fuori la testa dal comodino. «Ah, splendida! Faccele vedere!» Alzo le sopracciglia e vado avanti. Al portone di casa mia, schiaccio la testa sul legno e inserisco la chiave nella serratura. Mi tolgo anche la scarpa intera e corro per le scale. Raggiungo il secondo piano, varco l'ingresso del monolocale con alcune giravolte, lancio la borsa sulla montagna di vestiti appoggiati alla mia personalissima sedia porta-oggetti e con l'ultimo giro mi butto sulle lenzuola disfatte. Odore di cipolla e aglio aleggia in tutto il locale. Il mio stomaco gorgoglia. Chissà cosa stanno cucinando i vicini? Combatto contro la forza di gravità e alzo il corpo con una protesta lamentosa del letto. Lancio le scarpe sotto il lavandino dell'angolo cucina. A mai più arrivederci! Mi siedo davanti al tavolo a incasso e tiro fuori il cellulare. Fisso il contatto di Thomas su WhatsApp e sospiro. Non cederò questa volta. Lo sblocco; giusto per sbirciare quando fosse stato online l'ultima volta. La sua foto profilo. Le mie pupille seguono i lineamenti della figura. Passare le dita nella capigliatura alla Johnny Depp e fargli i grattini sulla schiena. Quando gleli facevo lui diceva: «Gratta più a destra, ora a sinistra. No, un po' più giù.» «Ma dove? Non capisco!» Ci mettevamo a ridere... Carla smettila, non devi farti questi pensieri ! No! *Finestrino, non comodino
- 3 risposte
-
- 1
-
- esercizio di stile
- introspettivo
-
(and 1 più)
Taggato come:
-
Ciao ragazzi, volevo sapere il vostro parere su questo parere. Potreste dirmi se è chiaro quello che ho scritto? Si capisce tutto? Lo stile è okay? Le reazioni sono realistiche? Ecc... Eccolo: «Vi porto il solito, ragazzi?» Mary Boobs, uno spettacolo di donna. Sta in piedi dietro al bancone con quel balconcino soffocato nel reggiseno e pulisce un calice di birra con un canovaccio unto. Le montagne degli dei sballonzolano e mi chiamano in paradiso. «Allora?» «Sì Mary, portaci un paio di Heineken.» La voce sicura di Hermis spezza l’incantesimo. Da quando si è sposato è immune alla magia femminile. Mary si volta, il girasole del suo didietro mi saluta e si allontana. «Lo sai, Dan?» Cosa Hermis, che devo sapere? Ha lo sguardo perso fra le bottiglie di alcolici nella teca davanti a noi. Detesto quando lo fanno, iniziano un discorso con ‘Lo sapevi che?’ o ‘Lo sai cosa ha fatto tizio?’ come se dovessi essere nella loro testa. «No, non lo so. Dimmi.» «Corre voce che sia tornato.» Parla di Frank? Spero che sia uno scherzo. Mary ritorna e lascia sul bancone birre e calici, fa saltare i tappi con un apribottiglie e la sua scollatura si allarga. Un infarto. «Alla salute, ragazzi!» ci dice con l’ampio sorriso della sua angelica bocca dipinta di rosso. «Grazie Mary.» Versiamo le bionde nei bicchieri. «Cosa mi stavi dicendo?» porto il calice alla bocca, il liquido mi pizzica le labbra e scende ghiacciato nella gola. «Frank è tornato, lo hanno visto scendere dal treno in paese. Lo sai, le voci corrono.» Non posso crederci. Appoggio un braccio al bancone e ticchetto il quadrante dell’orologio scucito. Per colpa di quel bastardo di Frank non me ne posso permettere neanche uno nuovo. «L’ultima volta che l’ho visto scappava da casa mia.» lo ricordo come fosse ieri. Hermis spalanca la bocca, sembra abbia visto un fantasma.«E sentiamo, come avrebbe fatto a entrarci?» «Non lo so.» La schiuma scoppietta nel bicchiere, i ricordi si riavvolgono. «Era notte, mi aveva svegliato il fottuto chiwawa del piano di sopra. Vado in cucina e lì, in ombra, c’era una figura accucciata dietro al tavolo.» Faccio una lunga sorsata, le gocce scivolano sul pigmento verde del vitreo. Hermis mi fissa, ho catturato la sua attenzione. «prendo il mattarello di mia mamma, pace all’anima sua.» Hermis sputa la birra che schizza sul bancone, «È morta tua mamma?» gli occhi gli si sgranano. «Non me lo avevi detto.» «No, Hermis. È un modo di dire.» «Ah…» «Alzo il mattarello e corro, urlo per picchiare il ladro. L’uomo si mette in piedi…» La frase rimane a metà, aleggia fra i brusii degli altri avventori del bar; un uomo a un tavolo dietro di me ordina un amaro, qualcuno sbiascica parole senza senso fra i deliri dell’alcool. «E poi?» «Niente, era quel ciccione di Frank in mutande. Si è messo a urlare, sembrava un maiale al macello. Un altro po’ e gli avrei provocato un trauma cranico con il mattarello.» Hermis si mette a ridere. Il bicchiere gli trema fra le mani. «Ehi, ma che cazzo fai?» «Scusa amico, è che…» si passa una mano sugli occhi, «Non riesco a togliermi dalla mente il grassume pieno di peli di quell’orso dalla testa stempiata e te in pigiama con il mattarello.» «Già, è un vero coglione…» Finisco la birra. È piacevole stare qua, a parlare con un amico. Il nettare amaro inizia a fare il suo effetto, mi solletica i neuroni. Sfilo un filo fuoriuscito dal cinturino di pelle. «Hermis, ti ricordi di quando io e Frank lavoravamo per il fioraio e lui se n’è scappato via con tutti i soldi della cassa?» Lui fa un sogghigno divertito. «Come scordarselo, ne abbiamo parlato per tutta la sera qui al bar.» Mary porta via le bottiglie vuote. «Cara, ce ne porti altre due? Ancora gli fischieranno le orecchie per quante gliene abbiamo tirate.» Stringo il filo fra le dita e lo spezzo. «Già, il titolare alla fine mi ha dato la colpa e mi ha licenziato.» Il brusio del locale si fa intenso. Il fondo della bottiglia ha lasciato un alone umidiccio sul legno, ci immergo un dito e scarabocchio, è una bella sensazione. «Mi dispiace, amico.» All’improvviso, la porta del bar si apre con lo scampanello del contagente all’ingresso. Una sferzata di vento mi schiaffeggia il braccio. «Ehi, ragazzi, sono tornato!» No, la voce nasale di Frank. La riconoscerei ovunque. I musi dei clienti seduti di fianco a noi si voltano, alcuni si mettono una mano alla fronte, altri sbuffano. «Vi sono mancato?» I suoi passi si avvicinano, spero che non ci riconosca. «Ehi, ciao Dan. Come stai amico?» Tuffo la testa nel braccio. «Ma che fai, ti nascondi?» le sue mani grassocce mi perculano la nuca, la accarezzano. Accartoccio le dita dentro le scarpe. Vorrei averlo colpito in mezzo alla fronte quella volta. Alzo la testa: «Vattene, Frank.» gli do una gomitata, «Nessuno ti vuole qua.» Ride. Si sbraga accanto con il busto sul bancone, Mary serve un altro tipo più avanti, lo sguardo di Frank si sofferma sul suo sedere e si lecca le labbra. «Ehi Mary, portami una rossa. » Le urla, poi si volta nella mia direzione. I piccoli occhi da porco di Frank mi fissano, puzza di alcool, i peli del petto arricciati sulla camicia aperta. «Allora, Dan, mi ospiti tu stasera? Ci siamo divertiti l’ultima volta.» Hermis si gira dalla parte opposta, lo conosco. Se dovesse intervenire ne uscirebbe fuori una rissa. Non riesco a controllare la rabbia.«Lasciami in pace, Frank.» Lui alza le sopracciglia e gli si allunga un sorriso sulla faccia. «Hai una bella collezione di vinili. Adoro gli ACDC, avresti potuto prestarmene qualcuno.» Ride. Che cazzo si ride. Mary Boobs lascia una Menebrea doppio malto e le nostre birre sul bancone e ne fa saltare i tappi. Lo schifoso non la guarda in faccia. «Ehi, Mary.» le parla senza staccare gli occhi dal suo seno, «Che ne dici se stasera ti do una mano qua, eh? Posso farti da guardiano notturno.» Mary si sfiora il collo. Deve essere abituata agli sguardi bavosi, non sembra provare il minimo imbarazzo. Si mette le mani ai fianchi ed espone il petto florido sotto al grembiule: «Non se ne parla Frank.» Imbroncia il viso, passa uno straccio su una macchia incollata sul piano che non va via, «L’ultima volta mi hai scolato seicento dollari di alcolici». Frank guarda il soffitto, si porta due dita sulle labbra sottili. «Mary, non ho idea di cosa stai parlando. Stai sicuramente incolpando la persona sbagliata.» Lei sbuffa e ci mostra la schiena, fa per andarsene. «Sei una maleducata, lo sai? Non dovresti trattare così una persona in difficoltà.» Torna indietro, ha gli occhi fissi sulla faccia suina di Frank. Lo punta con un’unghia. «Tu. Ma come ti permetti? Lo sanno tutti che ti fotti l’invalidità da trent’anni e non hai un cazzo.» Una ruga di rabbia le si disegna in mezzo alla fronte. Nel suo locale lei è la regina e detta le regole. Frank si schiarisce la gola: «Non lo sai che la maggior parte della gente in America soffre di ansia?» si scola a canna la Menebrea e la sbatte sul bancone. «Ansia cronica, è questa la mia diagnosi. Mi hai veramente deluso, non pensavo fossi una come quei coglioni che giudicano senza conoscere. » Frank mi guarda, stringe gli occhi in due fessure. «Proprio dei codardi.» Sputa sul pavimento, «Gente che ti sparla dietro perché ha troppa paura di dirtele in faccia.»
-
Quando io e Laura ci lasciammo era una fiorente giornata di primavera, aspettavo da tempo quel momento e pian piano che passava il tempo la mia ansia e la mia pressione salivano, ma in quel momento ero semplicemente vestito comodo che guardavo fuori dalla finestra senza occhiali ciò che seppur vedendo in modo sfuocato era di sicuro un paio di api che svolazzavano da un fiore a un’altro; forse per agitazione o per indecisione non mi accorsi che era già ora di partire per andare da lei; quindi presi i vestiti che avevo preparato la sera prima consapevole che quelli erano i vestiti con i quali io e Laura ci saremmo lasciati. Mi misi in macchina; non sapevo che fare credevo mi avrebbe dato fastidio sentire una qualsiasi canzone, o quanto meno l’avrei percepito come un mancato rispetto alla drammaticità silenziosa della situazione, provando a capire che canzone mettere misi poi a ripetizione ininterrottamente una playlist triste di 5/6 canzoni. Passava il tempo in macchina e via via sentivo sempre meno il profumo che mi ero messo. Arrivai da lei. Un dubbio mi colpi all’istante, Come dovrei salutarla? Un bacio era ovviamente fuori discussione con tutto quello che sapevamo sarebbe successo, un sorriso forse? Non credo, avrebbe fatto intendere che ero allegro; cercai quindi di rallentare il passo per avere più tempo dal cancello dell’ingresso a quello del suo giardino. Arrivato al suo cospetto capii che tutte le mie paure e tutti i miei terrori erano da sciocchi, pensavo a lei come a un mostro potentissimo e pauroso che avrebbe sentenziato e deciso il mio destino, invece davanti a me c’era una ragazza che con un timido mezzo sorriso e un “ciao” detto a bassa voce non solo mi salutava ma affermava che mi vedeva e che dovessi entrare. Risposi anch’io con un “ciao”, non puoi sbagliare se non sei tu a prendere le decisioni. Entrati l’aria in casa faceva amplificare tutto il silenzio che esprimevano i nostri corpi; infatti a differenza del solito non ci eravamo neanche toccati, anche quando inizio a preparare un caffè muovendosi nella cucina per prendere l’occorrente e le tazzine sembravamo (io suppongo lo sembrassi di più) due stunt-man di Hollywood che cercavano di schivare dei proiettili. Quindi ci sedemmo e iniziano a guardarci. Entrambi sapevamo esattamente tutto del discorso che si sarebbe compiuto: tempo, pause e concetti; ma sopratutto sapevamo che era un qualcosa da dover affrontare per forza, non avremmo potuto fare finta di niente (e forse neanche lo volevamo) era come sentire che devi saltare del bunjijumpping perché ormai hai pagato il biglietto e hai detto a tutti che l’avresti fatto, ma nonostante tutto la tua paura lotta con la tua voglia di saltare. Ci guardammo per qualche istante e pensai che da un momento all’altro senza che io potessi sapere con precisone quale tutto sarebbe iniziato e non avrei potuto più fermarlo. Nessuno dei due voleva iniziare; come se chi parlasse per primo perdesse il diritto a essere ricordato come quello “buono”. Con astuzia (probabilmente non voluta) lei mi chiese “mi devi dire qualcosa?” Contrariato ma sopratutto stranito incalzai non facendomi fregare, “in realtà speravo che tu mi dicessi qualcosa” risposi. Lei quindi inizio; fu molto dolce seppur scontata in alcuni punti: mi ripeteva che non era una mia colpa ma un periodo che stava passando, che non era sua intenzione ferirmi e che lo avrebbe fatto con chiunque altro si sarebbe potuto trovare nella mia posizione (questa frase mi ferii ma decisi di non darlo a vedere). Mi volle rassicurare che non lo faceva per andare con qualcun altro ma appunto perché il periodo che stava passando era abbastanza stressante, forse lo disse remora di relazioni di sue amiche con ex che poi venivano pervasi da sentimenti simili alla frustrazione e all’impotenza o forse perché voleva rafforzare i punti che aveva citato prima. Spesso ripeteva che non voleva che io avessi qualche remora nei suo confronti e ripeteva che per lei andava bene anche rimanere in buoni rapporti (il che mi faceva ridere perché sembrava un permesso dato dalla sua altissima misericordia). Mi disse che avrebbe anche voluto propormi una pausa ma le sembrava una cosa ridicola da proporre a me. Ma sopratutto una cosa che mi colpi è che diceva che ogni volta che provava a cambiarmi o che quando era aggressiva con me si sentiva cattiva. Non ho ancora capito se fosse un’accusa a me o una sua ammissione di colpa in quanto non disse scusa ma solo che le dispiaceva esserlo. Finito questo discorso ritornammo al punto di partenza seppure con qualche peso in meno. Eravamo di nuovo seduti in silenzio a non saper che dire e per di più ora avevamo finito anche il caffè, non potevo più nascondere i piccoli spasmi del mio labbro appoggiandolo sulla tazzina e non potevamo neanche più trovare un espediente per parlare. Fu molto generosa e ruppe il silenzio chiedendomi di mia madre; le raccontai di come il lavoro era un po’ sospeso e di come qualcuno aveva avvelenato il suo gatto. Da li iniziammo a parlare delle nostre famiglie amici e tutto ciò che li assomigliasse; più ne parlavamo più mi sembrava che quello fosse l’ultimo bollettino di notizie che avrei avuto, le ultime notizie di persone che conoscevo, ma oltre questo credo che volessimo anche dimostrare bontà tra di noi e interesse per ciò che orbitava nella vita ormai parallela dell’altro. Era come guardare uno spioncino della vita dell’altra persona. Quindi fu un’ora circa di “quindi che scuola farà tua sorella? E invece tuo padre alla dine ha trovato una macchina che li piace? Quindi dove andrai in vacanza con gli amici?”. Passammo in elenco tutte le persone che entrambi conoscevamo per essere sicuri di lasciare un piccolo monito di quella persona all’altro, perché da li a poco sarebbero diventati soltanto conoscenti. Una volta che furono finiti i parenti amici e orami sconosciuti ex compagni di classe il silenzio esprimeva il concetto semplice e basilare (in modo altrettanto semplice e basilare) che il tempo della chiacchierata era finito e che come galeotti nella loro ora d’aria da li a poco saremmo dovuti andarcene anche se non lo volevamo. Prima di farlo però ci tenevo a chiudere il discorso oscurato da tutti quei convenevoli; quindi le dissi che ora era libera e che se avesse trovato qualcun altro la pregavo di essere felice con lui. Lei rise e mi ringrazio ridetti anch’io. Orami avevo teso i muscoli delle gambe adibiti al sedersi o all’alzarsi. Quindi il momento della fine era sempre più concreto man mano che le fibre del mio corpo si contraevano. Alzato presi il cappotto che mi porse lei gentilmente. E con disinvoltura mi accompagno alla porta continuando a ripetere che nel futuro mi avrebbe voluto rivedere, io intanto mi allacciavo le scarpe e ripetevo che di sicuro ci saremmo rivisti. Non so se lo intendesse davvero ma dalla leggera malinconia della sua voce sembrava avesse capito che sarebbe del tutto improbabile il rivederla. Finito di allacciarmi le scarpe un compito simile all’inizio si presento (in forma ben più grave ora visto che da circa mezzora non stavamo più insieme ufficialmente) come avremmo dovuto salutarci? Decisi che era troppo difficile da decidere da solo quindi lo chiesi a lei; e con disinvoltura e dolcezza sorrise come se avessi fatto una delle domande più sciocche che potessi fare ma come ad un bambino che ti fa tenerezza per questo provi solo più affetto. Quindi si avvicino e mi diede un bacio sulla guancia; fu un bacio veramente bello; sanciva tutto l’affetto che avevamo ma allo stesso tempo il fatto che non fosse sulla bocca quello era finito per sempre. Io quindi afferrai il suo bacino mostrando per la prima volta la volontà di avere qualche secondo con lei in quello che in quel momento potevo avere. Fu il primo istante che mi mostrai quanto meno debole, forse sbagliando perché sarebbe stato l’ultimo contatto con lei; quindi ci salutammo con un suo “ci vediamo” fiaccamente speranzoso. Insieme al caffè avevamo bevuto circa un litro d’acqua infatti mi scappava la pipì in modo veramente irritante, ma non potevo chiederle di andare al bagno perché anche se avesse accettato (di sicuro lo avrebbe fatto) mi sarei sentito un eterno stupido. Quindi presi la macchina e me ne andai a Treviso che era distante una decina di minuti. Parcheggiata la macchina feci una corsetta nel bar più vicino che vidi su Google Maps. E una volta fatta anche l’ultima cosa che mi distraeva da quello che era successo era scomparse, pian piano che usciva sentivo che mi rendevo sempre più conto di quello che era successo. Bevetti il mio ginseng preso un paio di minuti prima per avere il permesso ad utilizzare il bagno. E dopo un paio di chiacchiere con una sorridente barista cinese su qualche tipo di Gin e su quanto costassero in giro decisi di passeggiare per la città (il mio scopo originario). Quindi iniziai a camminare ma dopo pochi minuti si era già messo a piovere quindi andai nella prima cosa coperta che vedessi, dunque entrai in una libreria. Nella quale passai più tempo di quanto mi resi conto, osservando libri che io non avrei mai letto e che pensavo non avesse più senso leggerli perché non avrei più avuto nessuno da stupire di come un dislessico li avesse letti e volesse parlartene. Decisi di acquistarne uno per rompere questo pensiero, ma per paura di poi legarlo al ricordo della rottura ne presi più di un paio in modo quasi da frammentare la colpa o il rammentare che mi potessero dare; la commessa mi fece i complimenti perché senza accorgermene avevo speso un centinaio di euro in grandi classici; e mentre prendevo il cellulare per pagare ridendo vidi il messaggio della madre di lei che mi diceva che era dispiaciuta e che le sarei mancato visto che era molto affezionata a me. Tornato a casa cenai con un po di avanzi del girono prima e risposi con cura al messaggio della madre. Provai a leggere un paio di righe di un libro appena comprato ma mi continuava a venire in mente la stessa domanda “perché mi ha lasciato?” D’altronde sono sempre stato un fidanzato modello: mi preoccupavo del suo piacere a letto struggendomi quando non riuscivo, ai suoi compleanni facevo bellissimi regali a lei e alla madre mandavo bouquet di fiori per festeggiare la sua maternità, e quando eravamo fuori non la facevo mai pagare nulla; quindi perché? Perché mi aveva lasciato? Cosa avevo sbagliato? Non capendolo decisi di provare con un’altro libro “Storie di ordinaria follia” di Bukowski e leggendo di Coss mi sembrava ironico leggere di un’altra ragazza bellissima che stava con un ragazzo molto più brutto di lui. Ma il tempo passava e in poco tempo si fecero le ore piccole, per la precisione l’ora piccola essendo l’una. Quindi andai in salone e decisi di brindare da solo con un Jack Daniels al miele. E avendo il computer vicino al mio braccio lo presi per provare a distrarmi ma finii per scrivere ciò che mi ricordavo di come ci eravamo lasciati.
-
- autobiografia
- drammatico
-
(and 1 più)
Taggato come:
-
Ciao a tutti, Come detto nel primo post, pur mantenendo un numero di caratteri limitato, ho allungato il racconto. Non sapevo se scriverci 'prima parte' o 'seconda parte' siccome il primo post era davvero cortissimo e in un'altra sezione e la seconda parte ancora non esiste! Vorrei far sapere che utilizzo il virgolettato per il parlato perché non possiedo il PC e in altro modo sarei scomoda da telefono! Sono curiosa di sapere gli errori e le vostre opinioni su questa piccola storia, Grazie in anticipo a chi volesse rispondere,buona giornata! In paese il 'Piccolo shop del pet' vendeva animali divisi in gabbie a seconda del tipo e della quantità. Quello stesso giorno il negozio aveva aperto da poco, le bestiole si erano addossate ai cancelletti per accaparrarsi la loro razione giornaliera di cibo mentre uno dei conigli era rimasto in un angolo con gli occhi spalancati a sentire schiamazzi e clangore metallico dal suo vicino di gabbia: un cacatua che svolazzava da una parte all'altra e sbatteva sulle listelle di ferro. La notte passata aveva fatto cadere la pallina di plastica con cui aveva giocato e non aveva più smesso di starnazzare e garrire. Un commesso si era avvicinato all'uccello, si era grattato la testa, aveva preso il gioco da terra e glielo aveva riportato al becco. "Oh...Finalmente ti sei calmato! Mi spaventi tutti i clienti se fai così!" Aveva esclamato. Il coniglio si era stiracchiato, si era disteso, aveva osservato gli altri suoi simili disperdersi e la ciotola del cibo svuotata. Aveva scosso la testa, aveva sfloppato da un lato e aveva chiuso gli occhi. Dormiva quando una mano gli aveva cinto il corpo, lo aveva trascinato fuori e lo aveva sollevato da terra. Si era dimenato chiedendo aiuto ma nessuno sembrava averlo sentito. L'odore acre della mano sudata era del commesso che lo aveva appoggiato su un tavolo, lo aveva spinto dentro una scatolina aperta di cartone forata ai lati e prima che avesse potuto riprendere il controllo delle zampe tremanti gli aveva chiuso l'uscita. "Adesso avrai una vita migliore, vedrai..." gli aveva sussurrato. La scatola venne sollevata e oscillava mentre veniva spostata all'esterno del negozio, il coniglio aveva sussultato e aveva conficcato le unghie nel cartone. Non si trovava più in un luogo famigliare: sentiva passi sconosciuti di molte persone, voci di donne, uomini e bambini, odore di asfalto e il battito del cuore accelerato. I padroncini erano rientrati a casa e Totò aveva saltellato e aveva girato attorno alle loro gambe prima che si arrendesse e tornasse nella cuccia scodinzolando perché erano troppo impegnati in una fitta conversazione. "...Ti ho detto di appoggiare a terra la scatola." Disse il ragazzo buttando il cappotto sul letto. "È una cosa sbagliata, hai sentito quello che ci hanno detto al negozio." "Dai, vedrai che non accadrà niente!" La ragazza lo fece. "Ok, ma se rimangono traumatizzati è colpa tua." "Fidati." "Si ok, tu intanto puoi dare il fieno a quello scemetto che ha finito tutto così libero la piccolina?" "Sei sicura che sia femmina?" "No, ma ha un faccino troppo delicato per non esserlo, approposito come la chiamiamo?" "Calimera? È tutta nera!" "Sì ma è troppo lungo...Ci metterebbe dei mesi a capirlo!" "Che ne pensi di Nanà?" "Nanà e Totò? Suona bene! Ah, guarda! Eccolo che arriva..." Totò aveva sentito il suo nome ed era tornato indietro per sapere perché si stesse parlando di lui. Notò la scatola sul pavimento, allungò il corpo ed il muso verso la parete di cartone e arricciò il naso: odorava di pellet, aveva compreso non fosse un nuovo gioco e sgambettò via. La ragazza osservava la scatola, si grattava una mano e si mordicchiava il labbro inferiore, poi la aprì e rimase in attesa seduta sul bordo del letto. "Guarda, secondo me stiamo facendo una stupidaggine per cui ci pentiremo tutta la vita" disse al ragazzo occupato a richiudere la busta del fieno dopo che lo aveva versato nella ciotola. "Sei sempre così pesante e pessimista, sai è questo il tuo grande problema. Sei troppo negativa." "Sarò pure negativa, solo che a differenza tua io mi sono andata a studiare i comportamenti dei conigli..." Totò rosicchiava un filo di fieno, alzò le orecchie e mise il corpo in allerta bloccandolo sul posto. "...E se lo avessi fatto anche tu sapresti che un inserimento non dovrebbe essere fatto così!" Nanà aveva fatto capolino e si era avvicinata al coniglio zompettando. Il ragazzo sbuffò: "Oh ma perché devi essere sempre così pesante?" Totò si girò, sgranò gli occhi verso di lei, rizzò la coda e appiattì il corpo. La coniglietta lo superò di fianco e si buttó di faccia nel fieno, lui la seguì e le annusò coda e orecchie penzolanti, poi fuggì nell'angolo opposto del monolocale nascondendosi fra un mobiletto e il muro, in una nicchia sfruttata da tana. Il ragazzo era scoppiato a ridere: "Quel che si dice un cuor di leone!" "Tu non capisci" La giovane donna si appoggiò una mano sulla fronte scuotendo la testa. Nanà zompettava per la casa e odorava tutti gli oggetti al suo passaggio, quando stava per avvicinarsi al nascondiglio, Totò sbucò fuori con le narici allargate, corse grugnendo contro l'intrusa e la montò conficcando le unghie nel suo corpo, lei scappò alla presa con un salto, inseguita raggiunse l'angolo cucina e si mosse a zig-zag fra le gambe del tavolo, lo depistò, tornò indietro, lo montò a sua volta, gli morse il collo e poi fuggì nel bagno con il suo assalitore addietro. I padroncini avevano cercato di acchiapparli senza risultati. "Prendi un asciugamano!" Urlò la ragazza. "Per fare cosa?!" Dal bagno provenì un urlo animalesco, e poi suoni di colpi e tonfi. "Non ho tempo per spiegarti ora, muoviti!" Lo prese e glielo diede. I conigli avevano formato una palla e si arraffavano le carni con unghie e denti. "ADESSO BASTA." Urlò avvolgendo Totò con l'asciugamano mentre lui provava a mordere un orecchio di Nanà, poi lo tirò sù con una presa salda. "Sei completamente impazzito? Non ti libero se non ti calmi." Il batuffolo di pelo fra le sue braccia si dimenava fendendo l'aria con le zampe. Il ragazzo controllò la salute della coniglietta e la rinchiuse nel bagno. La ragazza liberò l'animale e lo osservò andare nella cuccia in vimini e spingere la copertina con la testa arruffata per aggiustarsela. "...E adesso come facciamo?" Disse portandosi una mano sulle labbra. "Non lo so amore... Questo è un problema." Il ragazzo si afflosciò ad una sedia e alzò gli occhi al cielo. "...E se andassimo a comprare un recinto?" Propose. "Sì, credo sia una buona idea...Dobbiamo andare prima che chiuda il negozio." "Si, andiamoci ora." I ragazzi scesero le scale e lasciarono soli i due animali.
- 2 risposte
-
Preludio alla nipotina. Estratto delle peripezie familiari di un collega. Così come udite, raccontate. Non appena i due maschietti furono cresciuti al punto da potersi allacciare le scarpe da sé, senza gli ausilî della mano materna, e della paterna talvolta; e quando furono maturati quel tanto, o quel quanto, ch'è abbastanza da consentir loro l'utilizzo autonomo delle più irrinunciabili tra le maioliche color dello champagne installate nelle stanze da bagno della casa, venne l'ora per i Bertolotti di mettere in cantiere la tanto agognata figliola, complemento alla perfezione della famiglia. Agognata si dovrebbe dire, per completezza della cronaca, innanzitutto dai nonni Bertolotti. I quali nonni eran benedetti sì di figli, e di tanti nipotini e nipotucci, appesi all'altro capo di questo o quel ramo, albero, od altro arbusto genealogico, lontani o prossimi che fossero secondo i gradi che sono il numerario delle parentele, ma sprovveduti affatto di nipotine, priva essendo la pianta familiare di tenere foglioline femminucce. Pareva ai nonni, ed alla nonna segnatamente, una mezza maledizione. Alla Ginetta del terzo piano la sua gliel'avevano scodellata bell'e subito, la figliola e quel marito secco secco, che a vederlo non sembrava neanche tutto lui. L'andavano a trovare, per abitudine, tutti i mercoledì. In ossequio alla neonata, e per riguardo alla vecchia, avevano derogato alle sedimentate consuetudini ebdomadarie, portandole la pupetta il primo lunedì ch'era venuto buono, dopo la nascita. Da quel momento la nonna era rifiorita, rivitalizzata da nuova energia. Finanche il di lei colorito, pallido per solito, ne aveva tratto giovamento. A far tempo da quel dì, la rinvigorita anziana s'era operosamente votata a rimpolpare colle smorfiette e scorreggine della piccola il macilento epos del condominio, con quanto piacere di donna Rosa in Bertolotti possiamo immaginare. Anche la Pina del secondo. A lei l'avevano recapitata dentro una carrozzina fucsia, di quelle a triciclo, cioè con tre ruote, e s'era fatta una fatica d'inferno a cavarle fuori, mamma figlia e carrozzina-triciclo, dalla stretta apertura dell'ascensore, operazione che aveva richiesto l'intervento di forze scelte da tutte le porte del pianerottolo, col piano di sotto a rincalzo. Rimane tuttora aperta, a distanza di anni e non ostante il fiorire delle congetture, la questione di come avesse fatto la puerpera ad introdursi al piano terra, con tutti gli accidenti, nell'angusto vano. Con l'aiuto dei vicini la carrozzina, terminata la visita, era poi stata ridiscesa a braccia lungo le scale, ed anche la pupa, al fine di scongiurare ulteriori contrattempi. Persino la sciura Carla che stava dirimpetto ce n'aveva avuta una: quella bisbetica che spiava tutto il giorno la strada da dietro le tende della cucina, per controllare chi va e chi viene. Sì, persino quella. Una sua figliola, raggiante d'un sorrisone steso da un'orecchia fino alla gemella, le aveva condotto in visita la neonata, e tanto se n'era intenerita da lasciare il posto di vedetta per un pomeriggio intero, negligendo la garitta ed il dovere, con ciò esponendo il quartiere ai congeniti rischi relati al rilassamento dell'attenta sorveglianza sua. Solo i nonni Bertolotti erano senza. Nastri rosa neanche a parlarne, per quanti gradi invocassero, delle cognazioni, nelle loro litanie familiari, defraudato com'era ogni arco dell'ideale grafo della gioia di terminare in una nipote. Malgrado migliaia di ave maria si fossero involate negli anni verso le superne cerchie dell'Empireo. E ceri su ceri consumati dalla fiamma, sacrificati per illuminare il volto materno della Signora dei Cieli, ritratta nelle diverse interpretazioni pittoriche che ornano, a tutt'oggi, le dedicate nicchie sui lati della navata della cattedrale. Nanca 'na tusèta! Almeno una! supplicava donna Rosa. Quattro maschi noi! Esclamava. E quelli solo maschietti anche loro, di regresso. Dava la colpa di tutto al povero marito, l'Armando, il quale replicava piagnucoloso dalla sua poltrona di velluto verde, indispensabile ausilio alla digestione domenicale, che a'hinn mia rópp de cátá föra! quel che arriva arriva. Lui non c'entrava mica niente. Ma la signora non voleva sentire ragioni: emesse in forma irrefutabile di sotto il corruccio dello sguardo accusatore le assertive proposizioni sull'incapacità maritale, del resto comprovata da ben quattro distinti, ed indipendenti, esiti sperimentali, rintuzzava didascalica il consorte, chiamando a testimonî gli studi dei dottori più studiati: l'è l'òmm, è lui il "determinativo", così argomentava, del sesso del nascituro. Sicuro. Minga ball. L'Armando, poveretto, allora taceva, ammaestrato dalla convivenza ultraquarantennale. Tirava su le gambe sul poggiapiedi di velluto, verde come la poltrona, pertinenza del solio Armandi d'altrettanta collaborazione nelle tribolate peristalsi della domenica pomeriggio. Sospirava e stava lì un momento, in uno stato temporaneo di amenza, sospeso tra la tivù e la signora. Poi, riemerso dalle profondità della meditazione, tra le due, s'abbandonava alla prima, ed al silenzio. Il giorno in cui la signora Rosa seppe dal figlio, il suo secondo, della fruttuosa iterazione della ricerca della desiderata bambina Bertolotti, ovvero che la nuora era incinta la terza volta, anche se era presto per conoscere il genere, anzi: a fortiori, si credette di dover abbandonare l'atteggiamento passivo fin lì mantenuto in relazione alla faccenda. Certo, per i rami collaterali dell'albero genealogico non stava mica bene darsi troppo da fare, ma ki l'era 'l sò fiö! e se la Provvidenza non arrivava a provvedere da sé, magari abbisognava d'essere un tantino stimolata: in aggiunta alle giaculatorie e alle candele ci volevano le opere: opere preventive: si doveva forzare un pochetto la mano alla parsimoniosa, di nipotine Bertolotti, misericordia dell'Altissimo. Agire cioè ancor prima di conoscere il sesso, perché si limitassero a prendere atto, colà dove si puote, senza pensarci tanto sopra. Trascinò perciò il rassegnato marito per tutte le ingiallite mercerie ch'erano sopravvissute alle invasioni dei centri commerciali, a cercarvi qualche gomitolo, o rocchetto, di cotone rosa da lavorare all'uncinetto, e fili di lana, stessa tinta o equipollente, da annodare coi ferri in un golfino per la presagita fortunata pupetta, oltre che scampoli bianchi di lino e di organza finissima, dei quali lavorare a ricamo gli orli e farne lenzuolini da destinare alla culla. Rifornita di materia prima avviò la produzione di maglioncini, di centrini, e di cuffiette per tener ben calda la concupita testina. Armata di aghi e ditale d'ottone ricamò gli angolucci dei lenzuoli mignon coi quali corredare il lettino. Cinque o sei, per aver lì a portata di mano qualche cambio di scorta, dato che com'è noto i neonati tendono a disperdere in abbondanza i proprî fluidi sulle delicate stoffe nelle quali si ama mantenerli avvolti. A dispetto dell'impegno profuso senza risparmio dalla nonna, per tacer pietosamente delle fatiche del nonno Armando, la morfologica del quinto mese fu inesorabile: due ovetti disegnati sullo schermo crudele dell'ecografo, proprio là dove dovrebbero stare, misero termine alle speranze. Un altro maschio! Ancamò? Fu il laconico ed interrogativo commento del futuro nonno, giubilato della passione cristica da una merceria all'altra per niente. La nonna era disperata. Ne faceva una questione personale: cosa che c'ho fatto io di male al Signore? che non le mandava la nipotina. Cominciò persino, tanto era affranta, a mettere in dubbio quell'ascesa ai Campi Elisi che aveva sempre dato per assicurata: col marito che c'ho io! Vöri propi vidèl el San Peder s'el gà cör de mandam al pürgatorî! Nei suoi progetti ultraterreni l'inferno in effetti mai era stato contemplato, nemmeno come teoretica possibilità. Delusa, regalò alle vicine, alle Ginette e alle Pinucce del condominio, i prodotti dello sferruzzare. Quelle, accettando il dono, ringraziavano, riservando alla sconsolata Rosetta la comprensione che emana da chi la nipotina ce l'ha già in casa: vedrà sciura Rosa, il prossimo. Il prossimo è una femminuccia. Ma sì! non si abbatta. Ci vuole la fede sa? anche per queste cose qui. Soprattutto queste qui vè. E la pazienza. Certo! Sigüra! Come no! Alla fine, che fosse per le consolatorie smancerie delle Mariucce, oppure per spossatezza, anche nonna Rosa dovette arrendersi, e farsene una ragione. Si dedicò quindi, tirandosi dietro il suo Armando, a rifare le dodici cappelle delle mercerie, via crucis del povero consorte, stavolta in cerca dell'azzurro, o del bleu. E poi di nuovo a risferruzzare, a far oscillare l'uncinetto, però attorno alle varie gradazioni del celeste: calzine, e braghette, quest'ultime un po' abbondanti: c'è da calcolare l'ingombro del patello. I lenzuolini, almen quèi, eran venuti buoni, il bianco ghe và ben istèss, a tutti i neonati. Quando ormai sulla faccenda della nipote la signora Rosa c'aveva quasi messo una pietra sopra, e tre anni giuppersù dopo la nascita dell'ultimo Bertolotti, la visita del figlio, con al seguito la nuora ed il nipotino sullodato, rinfocolò le di lei pie speranze di raggiungere l'apoteosi di grande-mère: era di nuovo in stato interessante, la cara mogliettina del figliolo, e già da qualche settimana. La donna, che nella gravidanza precedente s'era ingigantita sino a sfiorare, così diceva lei sottostimandosi con modestia, gli ottanta chilogrammi a forza d'ingozzarsi del commestibile e del non, tre anni dopo era stata ripristinata, dalla rigorosa applicazione di una ferrea dieta, al suo antecedente stato di acciughina di 56 chili, ben bilanciati su una lunghezza complessiva, capelli esclusi, di un metro e settanta cm, ovverosia centimetri. Principiava a nuovo ad arrotondarsi, e già non si poteva lasciare incustodito in casa un panino imbottito col prosciutto, cotto o crudo, o un avanzo di pasta al forno di ieri, per non menzionare torte e dolciumi, senza che la mano graffignona s'allungasse per ghermire ed istradare alla bocca l'alimento abbandonato: amore, diceva, ho fame per due, lo sai, all'incauto rimasto a stomaco vuoto, marito o figliolo che fosse, ch'aveva facoltà di evocare con affetto alla medesima maniera, essendo il vocativo invariabile sia declinato al modo filiale, sia al modo coniugale. Allorché l'arrotondamento del ventre raggiunse quel grado che s'associa, nei ponderosi manuali della disciplina ostetrica, al mese quinto della gestazione, moglie e marito si presentarono, come prassi richiede, dal ginecologo di fiducia, già in positivo, e più volte, sperimentato, come senz'altro fino a qui intuito. Il momento della verità: o maschio, ancora? o femmina alfine. Fu allora che l'ecografo, per bocca del medico, emise il suo verdetto inappellabile quanto il terzo grado di giudizio, che è l'ultimo e definitivo previsto dai costituenti. "... come vedete qui...", "Qui dove?", "Ma qui, qui", corroborava la parola il dottore con l'immediatezza del gesto indicatore, "dove ci sono quelle forme allungate, le vedete?". Ai genitori, perplessi davanti alla babelica trama puntinata di linee curve intersecantisi, e pulsante d'un proprio simulato organo cardiaco di concerto colla creaturina scandagliata, esitanti in presenza del groviglio filamentoso, ansimante ed indecifrabile proiettato sul monitor, venne in soccorso la scienza del medico, che insisteva "... qui, queste sono le grandi labbra, perciò…". La mamma, con tutta evidenza più edotta del marito in quanto alle nomenclature anatomiche, si mise a ridere singhiozzando: rideva cioè e piangeva al contempo; e per quanto la posizione assunta per assoggettarsi alla sonda dell'oracolo ecografico le consentisse senza inficiarne il vaticinio, sussultava, come percorsa da una corrente, scossa da un fremito convulsivo. "Vedo che la signora ha già compreso: è una bimba. Una femminuccia. L'aspettavate dopo tre maschietti, non è forse così?". I genitori, in transizione verso il quarto, definitivo e più perfetto stadio dell'evoluzione della specie, vollero baciare le mani al ginecologo, che ne fu imbarazzato alquanto, in ragione innanzitutto del rispetto dovuto alla scienza! la quale osservava severa dai papiri e pergamene incorniciati e protetti da un vetro appesi alla parete. Una Bertolotti! Una nipotina Bertolotti! Un miracolo! Spostata sapientemente la sorgente di ultrasuoni, la macchina restituì la forma, intelligibile persino ai profani, d'una testina, una capoccetta tonda. Il visetto, che s'offriva di profilo, con la fronte altissima ed il nasino arricciato, sembrava scrutarli tutti, scienziato incluso, come nobildonna domina fiera con lo sguardo la plebaglia dei servi più accattoni e cenciosi da elevata finestra di palazzo signorile; siccome fosse sua degnazione venire al mondo per il tramite dell'umile condotto uterino materno. Divinava, ancora parzialmente formata ed allo stato proto umano del feto, una capricciosa esistenza principesca, in un castello sfornito di damigelle concorrenti da viziare. Pregustava il lucrativo monopolio delle attenzioni. Ma ci pensate? Una nipotina! Nonna Rosa non sapeva più dove mettersi dalla contentezza. Non stava più nella pelle. Incapace di decidersi se stare all'impiedi o seduta, da tanto che l'agitazione la scuoteva, si persuase alfine a risolvere i suoi dubbi ribadendo al marito, ad evitare fraintendimenti ché repetita iuvant, le sue inadeguatezze di sessatore di figli, e, transitivamente, di nipoti, non mancando però di segnalare al consorte come, al contrario, il figlio, il suo di lei è ovvio, mica del marito, lui sì! l'aveva fatta la figliola, la nipotina. T'é vedü el mè fiö? Non certo come l'Armando, stravaccato in poltrona a digerire lo spezzatino tutto il pomeriggio! Eh sì! Buono proprio quello lì! Sbatacchiato per bene il consorte, bastonato coi sillogismi, benché, bisogna dirlo in tutta onestà, claudicanti con riguardo ai demeriti maritali, l'indefettibile signora lo costrinse ad abbandonare il conforto della tivù e della poltrona, con correlate propaggini, obbligandolo a nuovo ad ascendere la perigliosa versione armandesca del monte Calvario, cogl'inciampi connaturati sui gradini delle mercerie del malcapitato carico di pacchi e pacchetti, arrangiamento profano e casereccio dell'incespicare del Cristo, curvato dal peso della croce, alle stazioni.
-
Commento a Marionette - capitolo I Vagabondando. Non guardo i miei piedi che, ritmicamente, si sollevano dal suolo, compiono un lento arco nell’aria per posarsi infine circa un metro oltre la posizione originaria. Allo stesso modo lascio che siano loro a decidere non solo il come, ma anche il dove portarmi, liberando la mente dalla necessità di scegliere una meta. Lo sguardo può così vagare liberamente, soffermandosi sul volto di un vecchio, segnato dal tempo e rugoso come la corteccia di un pino, o sul sorriso indefinitamente intrigante di una ragazza, sulle linee sbilenche di un vecchio edificio, su una vetrina scintillante o sulla crepa che percorre il selciato, solcandolo come una linea di faglia. Camminando così, senza altro scopo che il guardarmi attorno, mi capita di ritrovarmi al di fuori dei percorsi abituali scoprendo ad ogni passo nuovi scorci che si nascondono capricciosamente agli sguardi affrettati, luoghi a me ignoti e inconsueti punti di vista su quelli già noti. Fu durante una di queste peregrinazioni che mi ritrovai ad assistere ad un evento peregrino. Mi trovavo ai piedi delle Alpi francesi, e più precisamente alla periferia di Dufort, nei pressi del castello da cui il paese deriva il proprio nome, in quel punto in cui la via principale curva bruscamente a sinistra e supera un ruscelletto, entrando in un boschetto di castagni e faggi. I miei piedi scelsero invece di non curvare, ma di proseguire diritto, dove l’asfalto lascia il posto al vecchio acciottolato sconnesso e consumato di una stradina stretta fra la roggia sulla sinistra e il cupo muro del castello alla sua destra. Un uomo sedeva, guardando fisso davanti a sé, sul ciglio della strada, con i piedi penzoloni che sfioravano quasi l’acqua della roggia che fluiva gorgogliando, seminascosta dalle erbacce. Improvvisamente l’uomo levò un iroso borbottio, bestemmiando panteisticamente contro ogni cosa, scagliandosi indifferentemente contro le pietre, l’acqua, le piante, gli uccelli che cantavano fra le fronde arrossate dall’autunno, dimostrando una fantasia davvero notevole, sia nella scelta degli epiteti che in quella degli obiettivi. Non sono un uomo né timido né pauroso, sono tuttavia di animo solitario specialmente quando mi coglie lo spirito errabondo, per cui mi mossi il più possibile silenziosamente nella speranza che l’uomo non si accorgesse di me. Le suole di gomma delle mie scarpe da ginnastica non producevano quasi alcun suono su quei ciottoli che in altri tempi dovevano risuonare dei colpi secchi delle suole di cuoio dei calzari; tuttavia non appena fui alle spalle dell’uomo questi si girò verso di me. «E tu? Credi forse di poter sfuggire al destino solo perché ti fai piccolo e silenzioso?» mi apostrofò. Mi bloccai, interdetto, troppo sorpreso dalla sua domanda per poter rispondere. Lo fissai scrollando le spalle e mi accinsi a riprendere il cammino. L’uomo si alzò: «Aspetta» disse. «Voglio mostrarti una cosa che mai hai veduto nei tuoi vagabondaggi e che mai vedrai nuovamente.» Come potesse sapere dei miei vagabondaggi era sicuramente un mistero, ma in qualche modo egli sembrava conoscermi molto più di quanto avesse dovuto. Raccolse da terra una sacca che prima non avevo notato, vi frugò dentro con una mano e ne trasse una sfera delle dimensioni di un pompelmo. Mi avvicinai per osservarla meglio: sembrava un mappamondo di marmo lucido, fatto per riprodurre non solo i continenti e i mari, ma anche l’atmosfera e le nuvole. Osservandolo meglio mi accorsi però che non era liscio, come mi era sembrato dapprincipio, ma era invece sovramagnificentissimamente intagliato; si scorgevano infatti i rilievi delle montagne più alte, per quanto minuscoli anch’essi, intagliati con incredibile precisione. Lo stupore mi tolse il respiro e la mia mente si rifiutò malthusianamente di generare alcuna idea, quasi che un istinto di conservazione primitivo cercasse di preservare la mia sanità psicologica togliendomi provvisoriamente la ragione. «Guarda meglio, non hai nulla da temere» disse l’uomo allungando il braccio e avvicinando la sfera ai miei occhi. Essa sembrò ingrandirsi davanti al mio sguardo e mi parve così di poter scorgere ulteriori dettagli, altre montagne, vallate, rocce che si generavano partenogeneticamente da quell’unico lievissimo corrugamento che avevo scorto dapprincipio. Vedevo boschi così finemente intagliati da scorgere perfino i più precisi dettagli degli aghi delle conifere, ruscelli, prati, baite alpine e paesi. Mi sentii inghiottire da quel mondo, volando senza controllo, guidato da qualcosa che sembrava attirarmi a sé. Sorvolai le pendici di montagne che mi ricordavano le Alpi; precipitando sempre più velocemente intravvidi un cittadina e poi un castello, identico in tutto e per tutto a quello alle mie spalle. Due uomini erano fermi, in piedi, in uno stretto viottolo accanto alle mura, uno dei due sembrava mostrare qualcosa all’altro. Convinto ormai di sfracellarmi chiusi gli occhi un istante e quando li riaprii mi ritrovai esattamente nel punto in cui ero sempre stato. L’uomo con la sfera mi guardò sorridendo, la ripose velocemente nella sacca e si avviò scuotendo la testa. «Le regressioni infinite sono pericolose.»
- 4 risposte
-
- esercizio di stile
- racconto
-
(and 1 più)
Taggato come:
-
Il mio commento LA SCORREGGIA Racconto umoristico magari mal riuscito che analizza l'impatto sociale delle scorregge È una strana sensazione essere morti. Tutti pensano che non si sia più in grado di percepire ciò che accade intorno al cadavere del povero disgraziato di turno, ma non è così: si sente tutto, si percepisce tutto. Ed è terribile per certi versi perché senti il formicolio al naso e non puoi grattarti. Io ad esempio, quando sono morto, ho emesso una rumorosissima scorreggia. Si dice che sia naturale, ma gli impresari funebri forse per trattenere il riso o forse per necessità, sono stati costretti a lasciare la stanza. Una bella sensazione: era una vita che me le tenevo. Vuoi per rispetto nei confronti di mia moglie, che le scorregge le odiava, vuoi per una questione di pudore, io non ho mai scorreggiato. Sembra incredibile, ma è vero: ho passato una vita senza scorreggiare. Ed è una sensazione terribile, lo assicuro: si ci sente sempre pesanti, sempre gonfi e un po’ malconci. Come un dolorino qui, appena sopra l’inguine. Una cosa terribile, per davvero. E invece da morto mi sono sentito per la prima volta realmente libero: quanto è bello scorreggiare. Non dimenticherò mai le facce degli impresari funebri, impettiti nei loro completi scuri. Io li odio. Li ho sempre odiati, forse anche più di quanto odi gli avvocati. E gli avvocati li odio veramente tanto! Al funerale è andato tutto bene. Mia moglie piangeva, i miei figli giocavano con quei maledetti cosi che dovrebbero essere usati per telefonare. Persino a tavola li usavano, figuriamoci al mio funerale. Che generazione di ingrate teste di cazzo: uno fa tanto per loro e poi si inculano a vicenda con quei maledetti aggeggi. Ho trattenuto le scorregge per quindici lunghissimi e dolorosissimi anni. Quindici anni di matrimonio non sono tanti, ma neppure pochi; se poi sono aggravati da quella pesantezza che mi portavano mia moglie e il suo puritanesimo sono decisamente troppi. Forse chissà, sono morto proprio perché evitavo di scorreggiare. Mia moglie, poveretta, al mio funerale piangeva. Io ero al suo fianco e contemporaneamente dentro la comoda bara, e avrei tanto voluto confortarla, ma lei non mi sentiva. Ci fu un attimo di silenzio, persino mia moglie, la poveretta, aveva smesso di singhiozzare. E proprio in quell’attimo di silenzio, dall’interno della bara, il mio corpo ha emesso un’altra scorreggia che è riecheggiata per tutta la chiesa. Sono sempre stato un fiasco nei rapporti sociali e spesso mi rendevo da solo conto di come mettessi in imbarazzo mia moglie. Ma tutto quello che ho fatto in vita non potrà mai essere paragonato a quando la scorreggia riecheggiò per tutta la chiesa. Qualcuno si mise sguaiatamente e poco educatamente a ridere, qualcun altro trattenne il riso. Mia moglie, sotto quell’ennesima umiliazione, non poté far altro che piangere ancora. Considerando che in media un essere umano emette quattordici scorregge al giorno e che io le ho trattenute tutte per quindici anni, avevo ben settantaseimilaseicentocinquanta scorregge di scarto. E devo ammettere che dopo la mia morte le ho fatte tutte! Ricordo ad esempio il giorno quando iniziarono a mangiarmi gli occhi. Io non volevo che li mangiassero, ma non potevo far nulla per evitarlo. E poi una puzza terribile e persino gli insetti se ne andarono! Benedette scorregge, mi hanno salvato gli occhi! Durante la mia vita matrimoniale mi sono spesso trovato nella condizione di dover scegliere tra il poter scorreggiare e mia moglie. Visti i risultati voi già sapete quale fu allora la mia scelta; e forse fu anche quella giusta, almeno per me. Mia moglie era incredibilmente bella e odorava sempre della campagna nella quale era cresciuta. Forse per un attaccamento all’infanzia, chissà. Quando la conobbi indossava una gonna a fiori che le sfiorava dolcemente le caviglie. Rideva educatamente sotto la mano lì messa per pudore e io ne fui attratto. Uscimmo a mangiare tre mesi dopo (ero un fiasco con le donne, timido e spesso mal curato) e la portai a mangiare pesce. Inutile dire che proprio allora emisi la mia ultima scorreggia: lei dapprima rise, poi si fece seria e mi disse che non avrei dovuto più farlo. Se qualcuno oggi mi chiedesse cosa intenda io per amore, di certo direi che l’uomo che ama la donna avita per scorreggiare per quindici lunghissimi e dolorosissimi anni. Ma adesso che sono morto e ho finito tutte le mie settantaseimilaseicentocinquanta scorregge, adesso che gli animaletti odiosi hanno iniziato di nuovo a mangiarmi, non mi resta che osservare il mio corpo che lentamente smette di essere tale. E medito sull’esistenza e sulla vita: incredibilmente da morti diventiamo tutti filosofi. L’altro giorno ho incontrato il fantasma di Moana Pozzi che mi disse di trovare la tesi Heideggeriana interessante e inconfutabile, ma che tuttavia poteva essere raggirata. Persino le pornostar diventano filosofe, e questo lascia molto pensare sull’esistenza. Oggi sono passati otto anni dalla mia morte: mia moglie si è risposata con un tipo che fa le scorregge di nascosto. Probabilmente il suo amore non è poi tanto vero come sostiene. I miei figli continuano a giocare con quegli schifosi aggeggi. La tecnologia ha fatto passi da gigante e qualche nerd ciccione ha inventato un apparecchio che maschera le scorregge non solo silenziandole ma facendole profumare i pino silvestre. A saperlo prima. E oggi, a otto anni di distanza, osservo ancora la mia vita e medito sull’esistenza. Finalmente però ho scoperto cosa sia l’esistenza, cosa sia la vita. E poi non era poi tanto difficile, ci voleva solo un po’ di impegno. La vita è Dio che, morendo, emette una terribile e puzzolentissima scorreggia.
- 8 risposte
-
commento Fu senza preavviso all'ora quinta del giorno assolato che discese le scale, e nella più perfetta solitudine la signora trasse un respiro per alzarsi poi sulle punte. Verificò la lunghezza di un passo, e piacendole quanto il gioco quanto la misura lo fece ancora. Roteò con grazia. Scoperta la libertà di cui era padrona, e quanto distanti gli estremi a parentesi, non ci fu nulla che potesse fermarla dall'espressione di quel che sentiva. Muovendosi da un attimo al successivo come le buste di plastica condotte dal vento, allo stesso modo sfiorava il pavimento della stanza sgombra in quel suo balletto immaginato. Recuperando di stanza in stanza i venti anni suoi che non aveva distrutti, soltanto conservati. Per il giorno, quello, in cui spenderli appropriatamente. Immergendosi a tratti nelle diagonali di luce concesse dalle tende, saltava di locale in locale amplificando la sua presenza nell'aria quanto più le era concesso. Nella coreografia ispirata da un sogno trattenuto troppo a lungo, non le era difficile ritrovare gli occupanti della città. Gli operai che vedeva scorrere in fila al mattino, le donne agghindate per la festa, gli strilloni dietro il banco quasi sempre ben disposti, le maestre del collegio. Quelli che l'avessero vista si sarebbero interrogati sull'epifania di una donna sola in una grande casa vuota. Ma era così che andava quando ti cade nell'anima quella stilla di soddisfazione assoluta per la riappropriazione del nome tuo proprio, dopo anni di confusione nel frastuono della vita. Sono attimi di quella natura. Così, mentre un maggiordomo immaginario arpeggiava nell'atrio, svolazzavano fuori dai cassetti le lettere profumate a reclamare ancora l'attenzione di quella ragazza bionda che osservava da un balcone molti anni prima. L'imprenditore stanco del matrimonio. Il giovane sbiancato dalla dieta di un romanziere. L'ufficiale poco attento al suo lavoro. Illudeva lo stormo di essere disposta, poi si allontanava con una mossa e le lettere volteggiavano ad inseguirla per i quartieri dell'immobile. Su per le scale, nel salone, nelle camere da letto ritrovate. Tirò via i lenzuoli dalle poltrone e dai mobili, e questi ricaddero come fantasmi impigriti che non avevano voglia di giocare. Aprì le finestre dissetando le stanze digiune di sole, che singhiozzarono polvere dalla gola dei pavimenti. Puntando a soffitti forgiati da una mano più grande di lei. Verso le acque tranquille in cui nuotava ragazza, sperando di esser veduta da quelli cui pretendeva ammirazione. Imprigionò le lettere in uno sgabuzzino, irridendole. Il moto intenso attraverso le stanze le conduceva in dono le conchiglie che battezzava in giardino, i mercanti del pane inerpicati per i carrugi, le paure di un trasvolo notturno sul mare Mediterraneo. Quell'assieme di timori inesprimibili cui conseguivano prese di posizione, quando affrontati. La gelosia dei tesori accumulati. La famiglia avuta e terminata. Protagonista ancora di ogni cosa che le concesse una parte, come le scene fossero compenetrate, distinte prima soltanto per l'ipocrisia delle età, degli abiti indossati o di una geometria universale che mutava i percorsi in distanze, quindi senza arrivi. Nella casa vuota, ballando, unificò i tempi per sentirli tutti assieme addosso. Fu la sera, gentilissima, quando poggiò il piede. Tese un orecchio nell'illusione di un applauso. Non veduta si inchinò in risposta, ringraziando sé stessa per le magnifiche esperienze.
-
Il mio commento: qui. MANI Mio padre morì nel Novembre ’89. Ricordo che, al momento dell’ultimo respiro, aveva un’espressione felice. Io gli tenevo forte la mano rattrappita, lui appena stringeva. Ricordo la pelle macchiata, la pelle di un vecchio: le mani che mi tenevano in aria da piccolo erano forti e vigorose, quelle che mi davano i ceffoni quando combinavo qualche cazzata erano enormi e dure. Quelle erano raggrinzite, macchiate, scure, mollicce, con le vene tanto gonfie da sembrare come esplodere. Quelle erano le stesse mani? Erano le stesse mani che sfioravano mia madre e mia sorella? Le stesse mani verso le quali provavo terrore e al contempo amore? Come potevano quelle mani essere così dolci e severe allo stesso tempo? E come potevano essere solo pezze di pelle gettate svogliatamente sulle ossa in quel Novembre ’89? Ricordo che ogni volta che gli facevano la flebo avevo paura che l’ago lo trapassasse da parte a parte. Vedevo già il suo corpo svuotarsi dell’aria e volare via, fuori dalla finestra, lontano dall’ospedale; lontano dalla vita. Lontano da me. Mio padre aveva degli splendidi occhi azzurri. Nel Novembre dell’89 erano grigi. Mio padre aveva i capelli neri come la pece e folti come il sottobosco. Nel Novembre ’89 erano bianchi e radi, tanto sottili che avevo paura a respirarci vicino, come se potessero volare via come facevano quei fiori bianchi. Mio padre aveva un piccolo tatuaggio sull’avambraccio: il simbolo del reggimento che aveva servito nella guerra contro il Führer. Nel Novembre ’89 aveva perso forma e colore, ed era una piccola macchia d’inchiostro sbiadita tra le pieghe della carne molliccia. Mio padre aveva una voce possente, roca, ferma; una di quelle che ti fanno trasalire se sentite nel cuore della notte. Nel Novembre 1989 era poco più che un sussurro. Poco più che un respiro grottesco. Chi era quell’uomo al quale tenevo la mano? Ricordo che lui mi guardò, forse percependo la mia espressione di disgusto nel vedere ciò che era diventato. Mi sentivo stampato in faccia lo sguardo di chi osserva qualcosa di sconosciuto e se ne rende conto solo in quel momento: chi era quell’uomo al quale tenevo la mano nel momento della morte? Chi era? Dov’era mio padre? Era già morto? Da quando? E io dov’ero? Quell’uomo cercò di parlare, cercò di stringermi la mano; ma uscì un rantolo incomprensibile e la mano ebbe solo un impercettibile sussulto. Pochi attimi dopo il rumore d’allarme dell’elettrocardiogramma piatto mi riempì le orecchie. Quell’uomo era morto; ed era morto tenendo la mano di suo figlio. Un figlio che, nel guardarlo, non lo riconosceva. E, nonostante tutto, aveva un’espressione felice. Le infermiere accorsero in massa per cercare di catturare la vita di mio padre, la stessa vita che ormai era volata via dalla finestra. Io rimasi a guardare la scena, sinceramente un po’ divertito. Sentii il peso dell’ultimo regalo di mio padre nella tasca del pantaloni; lo presi. Era un vecchio orologio da taschino dorato, lo stesso orologio che aveva mentre combatteva contro i Nazisti. Se al tempo fosse già uscito Pulp Fiction mi sarei sentito come quel bambino che riceve in regalo l’orologio del padre. Lo stesso orologio che il compagno del morto aveva nascosto nel sedere per tutti gli anni che era stato prigioniero. Che schifo. Se avessi avuto questo pensiero, allora, di certo non l’avrei accettato. Lo aprii: le lancette giravano al contrario. Sul coperchio d’oro la scritta: «Per ricordare sempre che il tuo tempo è limitato. Vivi ogni attimo come se fosse l’ultimo, vivi! E non temerai la morte». Naturalmente la scritta era molto piccola e mi sforzai parecchio per decifrarla, ma alla fine ci riuscii. Uscendo, mi guardai allo specchio: avevo gli occhi azzurri, i capelli neri e folti, le mani grandi. Guardai l’orologio. Guardai il morto. Riconobbi mio padre.
- 5 risposte
-
- introspettivo
- esercizio di stile
-
(and 2 più)
Taggato come: