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  1. 26) Dammi il tuo cuore di Joyce Caol Oates , La na di Teseo Sconsigliato a lettori sensibili È la prima volta che leggo la Oates e ho voluto incominciare da questa raccolta di dieci racconti che il sottotitolo dichiara essere “di mistero e suspense”; sarà che forse gli ho letti male ma di mistero e di suspense proprio non ne ho trovati. Ho trovato invece situazioni angoscianti molto spesso incentrate su figure di adolescenti o poco meno — quasi tutti “ragazzine” — che vogliono dimostrare (e dimostrarsi) di essere ormai emancipate, “grandi”, frequentando, magari all’insaputa dei loro genitori, ragazzi di qualche anno più di loro con i quali si ubriacano nei bar e, in qualche caso poi seguono nelle loro case temendo segretamente il peggio ma senza mai mostrare visibilmente questo loro timore; oppure odii irrecuperabili tra figlie e madri, dove le madri non capiscono il notivo di quest’odio così forte; e poi racconti ei quali viene mostrato come delle persone come tante, felici e buone nell’animo, vengano trasformate dalle circostanze — inaspettatamente anche per loro — in assassini. Apparirà subito chiaro che per trattare questi temi bisogna avere una padronanza della scrittura e dello stile che vanno oltre un generico “buoni” e che senz’altro Joyce Carol Oates ha. Lo stile è tutto se non ricordo male diceva Celine, e in questi racconti ne possimo vedere la dimostazione pratica. In pagine fitte fitte con pochissimi “a capo”(il che mi ricorda altri gandi autori come Rachel Cusk) dei personaggi abbiamo l’ambintazione (un’America sovente di provincia), il presente e il passato raccontato o tramite il flusso di coscienza o con interventi esterni dell’autore. Le situazioni descritte si tolgono dalle solite che più o meno ci si può aspettare da ul libro di racconti e, anche per questa ragione, fanno del libro della Oates un libro veramente originale. E bello. Ma sconsigliato a lettori paricolarmente sensibili.
  2. 25) Dalla parte sbagliata della Storia E l’ultima parola si può scrivere anche con la ‘s’ minuscola a seconda di come si intenda l’intera faccenda. Da più di un decennio, da parte di una Casa Editrice - salvo le solite immancabili eccezioni - il criterio di giudizio e di scelta di un testo da pubblicare è di natura prettamente commerciale, non artistica. La qual cosa ha come significato implicito che uno scrittore non vale per quello che scrive (come magari gli viene fatto credere) ma per quello che vende. Le sue opere possono certamente avere anche un valore artistico ma questo, rispetto a quello commerciale, per un Editore è del tutto secondario se non puramente e piacevolmente casuale. Una prova più o meno indiretta di quanto anzidetto è che, una volta accettato un dattiloscritto da destinare alla pubblicazione, la prima cosa che si pensa in Casa Editrice è il probabile prezzo che avrà il libro e la copertina. Un altro piccolo indizio di questo modo di considerare il testo e chi l’ha scritto lo si vede nelle brevi note biografiche dell’Autore che si trovano nei risvolti o nelle quarte di copertina: nato a… il… ha scritto questo e quest’altro romanzo (o libro di racconti o silloge di poesie)… nel 19*/20* è stato finalista al/ha vinto il Premio…, non vi è scritto perché il libro che si ha tra le mani vale la pena comprarlo e leggerlo poiché quanto proposto dall’Autore apporta (per lo meno con ogni probabilità) qualcosa di nuovo, originale e, perciò, valido alla Letteratura del Paese; non occorre sia chissà che cosa, chissà quale profonda novità o verità! Lo spirito e l’atteggiamento dovrebbe essere lo stesso che spinge e guida la ricerca scientifica: tutti sono ricercatori, pochi vinceranno il Nobel, ma tutti con umiltà apportano qualcosa (o qualcosina) di nuovo alla conoscenza di un determinato fenomeno in un determinato campo a conferma o smentita di un’ipotesi. È chiaro che un simile approccio – benché in maniera circoscritta in certa misura lo sia – non è solitamente applicabile alla letteratura di consumo (si legga di genere, se si vuole). A questo punto si ribadirà che l’Editore “è un imprenditore" che produce un Bene dal quale deve ricavare degli utili – o, per lo meno, cercare di ridurre, meglio evitare, le perdite – e questo giustifica il criterio commerciale (e non o ben poco artistico) delle sue scelte sui manoscritti da pubblicare (molti, tutto sommato) o da rifiutare (molti di più). Nulla da eccepire. Ma ogni imprenditore, visto che i soldi ce li mette lui, nelle scelte che fa sa perfettamente che un certo fattore e margine di rischio ci son sempre e deve per forza accollarseli: che sia Editore, o produttore di automobili, calzature o di formaggi & salumi, il rischio di una possibile scelta sbagliata rimane per tutti. Già, è innegabile e un Editore può optare di essere puramente commerciale, pubblicare libri che, lo sa, non faranno mai Storia ma che vendono: pensiamo ai libri da edicola: compra leggi & getta… o regala o lascia sul sedile del treno o della corriera. Ma il fatto è che un Editore il più delle volte vorrebbe (anche) far cultura (o Cultura), nel qual caso il puro e semplice criterio commerciale di scelta di un dattiloscritto è senz'altro poco sicuro, aleatorio se non proprio fuori luogo. Il suo sforzo è il tentare ogni volta di trovare un punto di equilibrio tra i due: la vendibilità e la Cultura. D'altronde si sa che successo Letterario e fortuna editoriale non sono sempre andati a braccetto. Si dirà: ma come, da cosa, può un Editore capire che il dattiloscritto che ha davanti è artisticamente valido, che apporta qualcosa di nuovo al progresso della Letteratura, che è un testo che rimarrà e lascerà traccia nel tempo? Del doman non v’è certezza, è vero; e, nel momento cruciale della scelta, non può esserci nemmeno una prospettiva storica. Ma una persona che vuol fare l’Editore si presume non nasca o decida di essere tale dall'oggi al domani (come dire: visto che mi piace cucinare – e mi riesce pure bene – quasi quasi apro un ristorante o una cicchetteria); decidere di fare o, meglio, essere Editore non vuol dire (soltanto) partecipare con i propri libri a Fiere, Festival, Premi e quant'altro giusto per non far mai mancare la propria presenza nel panorama mondano degli eventi letterari; e, suonerà come un paradosso, nemmeno vuol dire amare i libri puramente come oggetti… Essere Editore vuol dire innanzitutto averne letti molti fin da quando ne ha scoperto l’esistenza; e non soltanto, appunto, per com'erano fatti (formati, grandezza, copertine, illustrazioni, o altro), ma, soprattutto per quello che vi era scritto… e quello che vi era scritto è di natura letteraria, non commerciale e, senz'altro, è presumibile, commerciale non era stato l’approccio, il suo modo di accostarsi alla loro lettura. Poi la decisione di passare da lettore a uno che i libri li fa e li divulga, facendo conoscere chi li ha scritti. Ma è impensabile che in lui/lei le sue molte, ampie e svariate letture non abbiano sviluppato nel tempo una sensibilità tale da permettergli/le, coadiuvata dall'esperienza, si “sentire” se quel dattiloscritto che ha tra le mani non dice banalità o cose legate all'attualità (destinate, in quanto tali a non esserlo più, visto che il Tempo fa sempre il suo dovere senza imbrogliare mai: passa), ma affronta e tratta temi perenni, e lo fa o in maniera nuova, originale o apportando scorci, visuali, ottiche, tematiche che finora non si erano mai viste, o diverse da altri Autori… e per questo (forse) resterà. E pensare che magari, nell'arco della sua esistenza, quell'Autore non vincerà mai Premi più o meno prestigiosi e non sarà neanche mai finalista agli stessi. E, magari - lui probabilmente mai lo verrà a sapere - il suo nome verrà menzionato nella parte giusta della Storia, quella letteraria. E, chissà, a molti anni dalla sua morte qualche altro Editore ristamperà i suoi scritti… E questo significa vincere davvero il Tempo. Ed essere scrittore. Il criterio di scelta di un dattiloscritto, se è puramente commerciale ha degli inconvenienti, degli effetti collaterali non certo auspicabili. Il primo dei quali è quello di creare candidati per il dimenticatoio. In un primo tempo – grazie la “promozione” (anche questa, dichiaratamente, commerciale non certo letteraria; anche le recensioni possono obbedire all’esigenza di vendita ed non essere perciò del tutto indipendenti nella presentazione e nel giudizio del libro: le cosiddette “stroncature” di papiniana memoria sembrano essersi estinte), una certa visibilità mediatica – rampa di lancio per il successo – contribuiscono sicuramente a far conoscere il testo/libro e chi l’ha scritto… se è finalista a o vince qualche Premio, tanto meglio… Ma poi? Chi si ricorda il nome del vincitore (o della vincitrice) del tal Premio del 2014 (per non dire nel 1998 o ‘99 o ancor più indietro)? Eppure son solo otto anni or sono. Non molti, a conti fatti. Eppure se anche l’abbiamo apprezzato/a, ne abbiamo parlato con amici che come noi amano leggere, la nostra memoria non ci rimanda nulla. Che i loro nomi siano stati messi nella parte sbagliata della Storia? Il dubbio è quanto mai ragionevole. A quest’effetto “dimenticatoio” gli Autori cercano di ovviare in due modi: essendo molto prolifici, non lasciando, cioè, che tra la loro ultima opera e un’altra nuova trascorra molto tempo, così da non venir cancellati nella memoria dei lettori dalle opere e dai nomi di altri colleghi (più o meno nuovi), col rischio pressoché certo di uscire dal “giro” del Bel Mondo Letterario. A ben pensare, questo assomiglia molto al concetto di concorrenza che – guarda caso – è un concetto nato nel e dal commercio, non dalla Letteratura a cui meglio si confà quello di partecipazione, di cooperazione, nel dare un proprio contributo da parte del singolo Autore o singola Autrice; a maggior ragione se si è (o vuol essere) un Autore o un’Autrice impegnati; riciclandosi. Magari cimentandosi in altri più leggeri e remunerativi generi per i quali, si è visto, i lettori sono più disponibili. Ecco allora Autori e/o Autrici che partono con proposte di loro scritti da natura letteraria ma che parallelamente o successivamente (e magari dopo parecchi anni) o col loro nome o usando uno pseudonimo propongono romanzi polizieschi, in molti casi con personaggi seriali per di più. Va tuttavia notato che molti scrittori hanno una visibilità costante e persistente in quanto sono (e sono stati prima) giornalisti; persone che, negli anni, si son già guadagnate un certo parco di lettori affezionati i quali, con ogni probabilità, uno o due dei loro libri li compreranno (o regaleranno). I più fortunati sono gli editorialisti che son anche opinionisti. Va però tenuto presente in questo caso che i loro testi sono spesso saggi su eventi di attualità che han suscitato (o loro stessi han saputo suscitare) curiosità e interesse nel pubblico dei lettori o dei telespettatori. Un secondo effetto è l’indistinguibilità; può capitare che anche seguendo un criterio commerciale nella scelta di un dattiloscritto da pubblicare proprio quel dattiloscritto diventi quel libro valido e resti. Il lettore destinatario, inondato dalle variegate quanto amplissime proposte che trova in libreria, non è in grado di accorgersi, di “sentire” come con ogni probabilità l’Editore aveva già fatto, che quel libro, quell'Autore ha veramente qualcosa da dirgli offrendogli un tassello in più per comprendere la condizione umana in generale e (anche) sua in particolare. Non aiuta certo ma ne diventa la parziale spiegazione di questo effetto l’assenza di prospettiva storica.
  3. 24) Da un altro punto di vista: i mestieri del libro, Oliviero Ponte di Pino È raro che il lettore si domandi quali e quanti passaggi siano stati necessari e quante persone (a quale titolo e con quale specifica competenza e professionalità) siano state coinvolte per arrivare al risultato che ha tra tra le mani: il libro appena acquistato. È il lungo viaggio di un'idea. È per questo lungo viaggio – dal testo dell'autore al lettore – che ci accompagna passo passo Oliviero Ponte di Pino, direttore editoriale della Garzanti (una volta: non so adesso), facendoci virtualmente entrare e spiegandocene la funzione in quegli uffici di una Casa Editrice che, c'è da scommetterci, nemmeno lo scrittore, specie se esordiente, sa esistano: redazione, ufficio tecnico,, ufficio grafico, ufficio stampa, uffici commerciali: tutto e tutti contribuiscono alla confezione del “prodotto” libro. E non è finita qui: si è solo a circa metà del viaggio. Una volta che il libro è fisicamente pronto, “fatto”, bisogna lanciarlo sul mercato, farlo conoscere ai librai e al pubblico, distribuirlo, reclamizzarlo e non è affatto una cosa semplice! Grazie a questo saggio ci si rende anche conto del modo assai differente in cui il libro può essere ed è visto. Per noi lettori è qualcosa che ci interessa più che altro per il contenuto, per ciò che l'autore vuole dirci; tutto il resto (colori, copertina, risvolti ecc.) ha per noi un'importanza relativa o, comunque, secondaria. Per l'editore, per chi “fabbrica” il libro invece no: tutto deve tendere alla comunicazione, alla vendibilità dell'oggetto: va da sé che il contenuto dello stesso assuma un'importanza non relativa ma considerata da un punto di vista differente - e può suonare un paradosso - da quello del destinatario ultimo del prodotto. Di qui le soventi e ben note incomprensioni tra Autori e Editori ma, anche, a ben guardare, il difficile equilibrio tra testi validi e, appunto, mercato che gli editori devono costantemente cercare e obbligatoriamente trovare. Per l'Autore il proprio scritto può essere un'espressione più o meno artistica, per l'Editore può eventualmente diventare un progetto, in ogni caso un investimento. A meno che non sia collettiva, la scrittura è sempre un'attività solitaria, molto solitaria (scrittori come Hemingway e filosofi come il rumeno Emile Cioran l'han testimoniato). Ma dal momento che il solitario frutto di quella scrittura è destinato alla pubblicazione, attorno a esso si affolla un'incredibile moltitudine di persone. E verrà pure il giorno in cui anche lo scrittore dovrà uscire dalla sua stanza silenziosa e venir a parlare del proprio libro a un potenziale pubblico di acquirenti. A parte la pubblicazione, Oliviero Ponte di Pino, parla anche di altre vie che un libro può prendere: i diritti di traduzione, i premi letterari, i diritti per una trasposizione cinematografica. Se si è arrivati a questo punto, quel fascio di fogli o quel file di testo da cui tutto era nato molto tempo prima, di strada ne ha fatta davvero tanta. E i best seller si possono costruire, prevedere? Fino ad un certo punto: certi libri sono poi, come i terremoti: il loro grande e inaspettato successo è imprevedibile: il caso ci mette sempre lo zampino. Quel che è e rimarrà sempre certo è che: «quando in biblioteca o in libreria prendiamo un libro a caso, lo apriamo e iniziamo a leggere, cominciando a intessere un dialogo muto con l'autore, viviamo un momento di straordinaria libertà.» E si sa quale incommensurabile bene la libertà sia.
  4. 23) Libro (di fantasmi) per Natale La tradizione è più anglsassone che italiana ma ma di case con inquilini non di questo mondo ce ne sono anche qui da noi e Andrea Morstabilini col suo inequivocabile Aldilà (Il Saggiatore 2020) ce lo dimostra parlandoci di una villa che pare abitata da esseri oprannaturali: una vera... Casa, dolce casa La tematica è nota: le case infestate che, in quanto tali, sembrano condurre una vita propria silenziosa ma percettibile (a chi ha una sensibilità o una suggestionabilità particolari). Tematica difficile da trattare non foss’altro perché – a situazione data – è molto impegnativo da parte di chi scrive manipolare i cliché in maniera non ripetitiva e originale. In questo secondo romanzo di A. Morstabilini – redattore (editor) della Casa Editrice che ha pubblicato i suoi scritti – l'occasione che dà il via alla vicenda è il desiderio di un giovane Autore d’isolarsi in un luogo per scrivere in tutta tranquillità e concentrazione – guarda caso – una storia horror e, a tal fine e proposito, quale ambiente migliore di una vecchia villa che sorge in una tutt’altro che ridente pianura la quale, al pari della casa, ad un certo punto sembrerà anch’essa vivere una segreta e sotterranea vita propria? Inoltre, alla casa si aggiunga: un oscuro passato di sfortuna e malasorte (non a caso la villa porta il significativo nome di Malnati) nonché di morte presunta (da intendersi come sospetto e probabile delitto: avrebbe potuto essere altrimenti?) e un presente che definire “ambiguo” è dir poco: attualmente Villa Malnati appartiene ad un Istituto per lo studio dei fenomeni paranormali che, pure affittando la casa al giovane scrittore, si riserva alcune stanze per effettuare i propri esperimenti di “psicolalia”: in parole povere sedute spiritiche (chi l’avrebbe mai detto?); la villa è tenuta (per modo di dire) da un custode e da un’anziana domestica entrambi non molto portati alla socialità e alla socievolezza. Non manca di un luogo misterioso, chiuso e inaccessibile che lascio indovinare al lettore quale possa essere, se la cantina, la soffitta, la lavanderia nel seminterrato (non credo sia il bagno!), sul quale si focalizza tutta l’ardente curiosità del neo inquilino. Non mancano altresì fatti strani – musiche, luci che sembrano scaturire dal nulla – che potrebbero essere razionalmente spiegabili oppure no (il che rimanda a La letteratura fantastica – 1970 – di Tzvetan Todorov, 1939-2017): dipende dalla sensibilità di chi di quei fatti strani è testimone o li vive. E qui si pone una questione antica sull’oggettività degli eventi narrati. Perché tale oggettività può essere reale – naturalistica, direi quasi – oppure inficiata dall’emotività e dallo stato mentale di chi li riporta, al punto – è legittimo sospettarlo – da crearli. Non si dimentichi che tutto il romanzo, poi, è scritto in prima persona e si sa che questo implica parecchie cose per quanto riguarda la tecnica narrativa. Dei personaggi, soltanto uno ha un nome (ma non un cognome), Emiliano, l’amico dello scrittore che lo viene a trovare verso la fine della storia; un altro, un nome (e un cognome, presumibilmente) l’avrebbe ma vuol rimanere nell’anonimato. Perciò – come nella Commedia dell’Arte – si hanno tipi: il Direttore dell’Istituto che è anche medium i cui accoliti si nascondono dietro nomi pittoreschi di Oriente, Occidente e così via: neanche la domestica e il custode hanno un’identità: sono e rimangono la domestica e il custode e basta. Personaggi siffatti non hanno bisogno di essere psicologicamente ed esistenzialmente caratterizzati (si veda ancora l’opera di Todorov precedentemente citata): non hanno vita, affetti, pensieri (con una minima eccezione del custode che sul soprannaturale si limita ad esprimere un robusto scetticismo), né passati, né presenti. Lo stile vuole essere sofisticato e raffinato e Morstabilini sembra raggiungere lo scopo mettendo talvolta parole “difficili”, poco usate (anche se indubbiamente precise) che costringono il lettore ad alzarsi e ad andarle a cercare nel vocabolario. Anche Landolfi (il quale, pure lui, descrive una casa alquanto piena di misteri nel suo Racconto d’autunno, 1947) aveva una prosa raffinata e, in alcuni suoi scritti, costringe il lettore alla consultazione del dizionario (si veda La passeggiata qui e qui la traduzione della prima pagina)… non è sempre così e lo stile risulta persistente e omogeneo. Cosa che non si può dire per Morstabilini il cui stile appare, al contrario, disomogeneo: a tratti è limpido e scorrevolissimo, in altri punti ingarbugliato pieno di incisi che se da un lato sembrano avere la funzione di aumentare l’informazione, dall’altro, ostacolano la lettura e, anche, talvolta, la comprensione del testo; dà in più la sensazione di essere poco distaccato dal materiale narrativo: sarà un’inevitabile conseguenza del raccontare in prima persona… coinvolta nella vicenda. A pag.23, poi, nel descrivere le cucine della casa, il cui soffitto a volta “dava all’ambiente un’aria quasi monacale.” avrei preferito avesse usato il termine “monastica” che mi pare più esatto parlando di ambienti (tagliando la testa al toro: “dava all’ambiente un aspetto che mi ricordava le ampie stanze dei monasteri”). Ciò detto, un esempio di stile raffinato ma, al contempo, semplice e coinvolgente, lo si ha nel capitoletto monologico “La confessione”: si badi: non si è ai livelli del Monologue della de Beauvoir (1908-1986 – in La femme rompue – 1967 – Una donna spezzata, Einaudi ‘69), però si fa notare. Se la tematica è nota, la fine (del romanzo) lo è altrettanto? Sì e no: può essere bremondianamente binaria: l’anonimo scrittore questi fantasmi o li trova inequivocabilmente (per il lettore) oppure no, con tutte le conseguenze – anche narrative – del caso; più che altro, la fine è in qualche misura prevedibile: il protagonista – considerato il senso di ostilità nei suoi confronti che il luogo – interno (la villa) ed esterno (la pianura) – a suo dire gli fa sentire (vista la sua ostinata quanto sconsiderata smania di scoprirne e svelarne i misteri: passati e presenti), se ne va insieme all’amico Emiliano. Ma il romanzo horror che si era prefisso di scrivere in tutta tranquillità e concentrazione in un ambiente rivelatosi così funzionale, favorevole e stimolante allo scopo, alla fin fine l’ha poi scritto? Neanche incominciato. Incredibile! Ma vero.
  5. 22) il gioco delle emozioni Chi l'avrebbe mai detto? un accostamento, direi, per similitudine ribaltata, tra il noto romanzo Il talento di Mr. Ripley (1955 e, presumibilmente, anche tutti gli altri aventi il medesimo protagonista) di Patricia Highsmith (1921-1995) e l'altrettanto nota serie televisiva del tenente Colombo (1968-1978 serie cosiddetta "classica" e poi quella cosiddetta "moderna dal 1989 al 2003). Cosa mi ha portato a notare questa , probabilmente casuale, similitudine tra le vicentde narrate nel romanzo e negli episodi della serie televisiva? Perché questa similitudine la definisco "ribaltata? Be' sia il romanzo che gli episodi sono cotruiti con uno schema aperto se si pensa al giallo classico a enigma. Sia nel Talento di Mr. Ripley, che negli episodi del tenente Colombo, il lettore e il telespettatore sanno gia chi sia la vittima e chi l'abbia uccisa; i brividi corrono lungo le loro schiene, nel libro ogni qual volta Ripley rischia e sembra sul punto di veder scoperto il suo inganno identitario, in Colombo ogni qual volta il tenente, senza saperlo, mette pian piano con le spalle al muro l'assassino tenendolo aggiornato - col suo fare educato, gentile, buffo e ingenuo - dei suoi ragionamenti e delle sue ipotesi in maniera tale che il colpevole sente tessere attorno a sé e al suo alibi una fine ragnatela di domande, risposte e deduzioni che, ad un certo momento non può fare a meno di rendersi conto, lo smaschrereranno inchiodandolo alle sue responsabilità e alla sua colpa. È un gioco di emozioni sul quale fan leva sia la Highsmith che gli autori della serie televisiva, per la cronaca Richard Levinson e William Link. Naturalmente, visto che, nella serie, i delinquenti si scoprono, beccano e arrestano mentre il Ripley, lo scopo e il far perdure l'inganno senza che si scopra, la similitudine c'è ma, come ho detto, nella serie televisiva del tenente Colombo è ribaltata per far vincere la verità e la giustizia.
  6. Sfranz

    Porto Seguro Editore

    Come potrebbero aver dimenticato o perduto il messaggio se una certa Lucrezia Neri mi ha gentilmente risposto, appunto, che il dattiloscritto sarebbe stato preso in esame dagli editor e che mi avrebbero fatto sapere? Tanto che io le risposi ringraziandola per l'immediato riscontro dopo il mio invio: tutto il medesimo giorno 18/8. Penso che, dopo tutto questo tempo la mia raccolta di racconti "non rientri nelle loro linee editoriali"; altro non riesco a immaginare.
  7. Sfranz

    Porto Seguro Editore

    Mandai, ancora nell'agosto del '20, un mio dattiloscritto di una raccolta di racconti, corredato da sinossi, presentazione dell'opera e brevi note biografiche. Mi risposero subito che il manoscritto sarebbe stato valutato dagli editor e che mi avrebbero poi fatto sapere. Invece, da quel messaggio, da questa CE non ricevetti più nulla.
  8. Sfranz

    Italo Svevo Edizioni

    E' una Casa Editrice che fa capo all'altra quella di Alberto Gaffi il quale ne ha in pratica 2 la sua e questa.
  9. 21) L'impronta dell'Editore Era da tanto che volevo leggere questo libretto del 2013 di Roberto Calasso (1941-2021) e, finalmente, tra i tanti a mia disposizione, l’ho preso in mano e l’ho fatto. E ho pure fatto bene. C’è stato sempre qualcosa che mi ha continuamente attratto verso la Casa Editrice Adelphi: saranno state un po’ le copertine così poco appariscenti ma di colori diversi… Senz’altro lo è stato in primo luogo per i titoli. Titoli di libri unici molto diversi da quelli che si possono trovare negli espositori delle edicole nelle stazioni o negli autogrill. Libri di autori che han fatto la cultura del loro e – tale è la loro grandezza magari anche se non molto noti– del nostro tempo. Ma in questa raccolta di saggi e interventi sull’editoria ed editori, Calasso puntualizza che non basta aver cultura e “naso” per la scelta di cosa pubblicare: un Editore non si ferma lì; il testo scelto dev’essere attorniato da altre pratiche affinché, appunto da testo prenda forma e diventi libro, oggetto anche estetico, fruibile, da distribuire e vendere. Per trasformare il testo in volume devono essergli affiancati una copertina, primo biglietto da visita per il potenziale quanto sconosciuto lettore, e poi i brevi scritti che lo presentano e illustrano (risvolto interno e quarta di copertina). Per un editore o aspirante tale il libri che pubblica sono soltanto anelli di una catena che costituisce per lui un unico lungo libro. Non ultimo, bisogna saperli distribuire e vendere ma questa è la risultanza del saper instaurare con le proprie scelte un misterioso, tacito rapporto con i lettori. In questi suoi interventi, non sono molti i colleghi italiani che Calasso nomina e su cui si sofferma: soltanto due: il primo, Aldo Manuzio (1449 o ’52-1515) e Giulio Einaudi (1912-1999). Altri sono stranieri. Mi giudicherei banale se dicessi che la lettura de L'impronta dell'Editore è un libro “illuminante”. Certo sarebbe quanto mai falso il contrario. Di sicuro è molto più che “illuminante” perché mostra come sia nata un’idea culturale considerata da una particolare angolazione quella di un Editore e di una Casa Editrice entrambi i quali un’”impronta” l’hanno senza dubbio lasciata.
  10. 20) Vite straordinarie di gente qualunque Dopo aver provato i racconti di Amy Hempel e Richard Ford che non mi hanno convinto molto, se devo esser sincero (e perché mai dovrei raccontare balle?), ho optato per le Last Stories (La ragazza sconosciuta, Guanda, 2019) del mio prediletto William Trevor: più sotto alcuni appunti che mi auguro siano di vostro gradimento. Sono anime fragili, perse, sole quelle che popolano questi ultimi racconti dello scrittore irlandese William Trevor (1928-2016) e che, in maniera talvolta timida e sommessa, quasi temessero di essere di troppo nella vita propria e altrui, ne sono i protagonisti. Hanno tentato di viverla la loro esistenza e, in qualche misura anche accettarla per un certo periodo, ma poi, delusi, feriti, ne han desiderato un’altra e, nuovamente delusi e feriti o resisi conto che questo desiderio, nonostante i loro sforzi, non si sarebbe potuto realizzare son spariti. Letteralmente. Morti? Alcuni. Suicidati? Forse. Ritorna in queste ultime storie la già ben nota capacità dell’autore di entrare e descrivere i moti più intimi e reconditi dell’animo di individui che, se li vedessimo per strada o anche conoscessimo di persona, ci apparirebbero come tanti: Gente qualunque. Ma non lo sono e l’ormai matura maestria narrativa di Trevor ce lo dimostra. Ecco Miss Nightingale, maestra di pianoforte che, dopo tanti anni di esperienza di docente, scopre un allievo dal talento geniale che la ripaga di tutta una vita poco entusiasmante, piena di compromessi se non inganni; e questo anche se avrà il non tanto vago sospetto che il suo allievo di genio sia anche una manolesta che, non sa nemmeno come, la deruba di alcuni oggetti. Oppure Anita e Claire, ex appartenenti a un corpo di ballo che fu famoso un tempo anche in TV ma che poi la vita ha reso nemiche essendo state le donne di uno stesso uomo superficiale e fatuo che ora, dopo la malattia, è morto e gli oneri più gravosi anche sotto il profilo esistenziale spettano all’ultima: Claire “la bellissima”, oneri che a un certo punto si rende conto di non saper sopportare e perciò… sparisce. Per non dire di Emily Vance, anonima Colf che dal nulla viene e al nulla ritorna, alla quale solo la (dubbia) morte in un incidente stradale dà il classico quarto d'ora di celebrità. Discreta, la Morte ha sempre un ruolo più o meno marcato nelle esistenze di questi personaggi; o come straziante, incolmabile assenza o come non poi tanto dolorosa liberazione che può spingere chi resta a una vita migliore. E per narrare queste situazioni, Trevor usa uno stile che più piano e semplice di così non si può. Pur famigliare non rinuncia mai alla sua eleganza rendendo la lettura– sia nella traduzione italiana che nell’originale – piacevole e partecipata. Trevor morì nel 2016: meno male che ha lasciato parecchi testi che non mi pare siano stati ancora tradotti e pubblicati (da Guanda che è il suo editore italiano). Trevor_last_Stories.webp
  11. Sfranz

    IN REVERSE

    Non mi permetto di dire come - fosse il caso - lo cambierei o scriverei io: tu sei tu e scrivi come vuoi, lasciandolo così com'è o modificandolo. Tutt'al più, ciò che posso fare io è smettere di leggerlo se non mi piace. Ma, ti assicuro, ho terminato la lettura e pure messo un cuoricino di approvazione.
  12. 19) Ringraziamenti Però! Più di 200 son già passati dal mio salotto! Non posso che ringraziarli... e invitarli a continuare, naturalmente.
  13. Sfranz

    Le Mezzelane

    Qui si riportano esperienze fatte negative e positive che siano. Saranno i lettori che, individualmente, si faranno poi le loro idee che per alcuni saranno giuste, per altri al contrario saranno parziali, imprecise se non proprio sbagliate. Va da sé.
  14. 18) A Sua immagine e somiglianza Cos'è uno scrittore? Domanda assai semplice ma, come si suol dire, da un milione di dollari. Perché la risposta non è (né può essere) precisa e univoca. E rispondere che è uno/a che scrive e riesce a far leggere ciò che scrive a parecchia gente, suona un tantino superficiale... si potrebbe obiettare che anche i giornalisti fan leggere per mestiere ciò che scrivono a molte persone. Non per questo sono (sempre e automaticamente) scritt/ori/rici. Le risposte a questa domanda possono essere (e di fatto sono), perciò, molteplici. Per alcuni uno scrittore è colui che. sapendo usare la propria arte, crea e narra storie che mettono in evidenza - con scopo di denuncia - contraddizioni, manchevolezze, drammi sociali: sono i cosiddetti scrittori intellettuali impegnati di sartriana memoria, se non ricordo male: per alcuni gli scrittori dovrebbero essere solo di questo tipo, gli altri son - se ben va loro - soltanto intrattenitori a vario titolo o genere, se si vuole. Per altri, gli scrittori sono comunque delle persone che offrono un'interpretazione del reale: si veda, per esempio quanto citato da me di Simone Weil al mio intervento n° 7: per il compianto Sepulveda "La letteratura che vale è quella che riesce a dar voce a chi non ha voce."; mentre per François Mauriac "Lo scrittore è essenzialmente un uomo che non si rassegna alla solitudine", un romanziere, poi "è quello che assomiglia di più a Dio: è la scimmia di Dio". Be' l'aveva più o meno già detto qualche secolo prima il nostro Tasso: "Nessuno merita il nome di Creatore, tranne Dio e il poeta" e in quel poeta mettiamoci pure lo scrittore o, allargando il concetto, l'artista tout court. Nella mia più che modesta opinione, uno scrittore è colui (o colei) che sa rendere significativamente eccezionale la banalità del quotidiano.
  15. Grazie! So che c'è un forum dedicato alle recensioni ma non sapevo dove metterla né come allora l'ho inserita qui da me oltre che su anobii.com. Grazie ancora.
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