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zio rubone

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  1. zio rubone

    Fantasmi a Serralta

    Congratulazioni per questo bel racconto gotico ambientato in un paesino italiano. La tensione e il brivido per il mistero sono ben amministrati ed il racconto si fa leggere tutto d'un fiato. Aspetto di leggerti nuovamente.
  2. ÈDILE O EDÌLE ?
    Un aneddoto raccontato da un'amica meridionale che insegna italiano e storia in un istituto superiore veneto. Corregge un alunno che pronuncia scorrettamente "èdile" e si ritrova al centro di una contestazione da parte dei genitori, in massima parte leghisti. L'insegnante "terrona" viene accusata di essere ignorante e di non conoscere la corretta pronuncia, di proporre ai suoi alunni una "forma dialettale meridionale". La prova sarebbe lampante: la pronuncia "èdile" si sente in TV (ed io personalmente l'ho sentito un po' di volte da Giletti)...
    https://www.instagram.com/p/C1cXDHVti2fH3KuGxRVHCV2CYV8jBONj1oVQcw0/

  3. zio rubone

    Salve a tutti

    Benvenuta, @Igel_Vik. Spero che ti possa trovare bene qui. Io non amo i contest, ma comunque qui c'è tanto spazio per confrontarsi. Ti segnalo le sezioni di Narrativa e Poesia, dove puoi postare i tuoi scritti e commentare quelli di altri autori. A presto.
  4. Grazie @Gabry Gabry per avermi letto e commentato. Sto scrivendo queste storie che mescolano miti e scienza e mi fa piacere sapere che trovano qualche lettore. Dalle nostre parti "show don't tell" impera e la narratologia uccide le narrazioni.
  5. zio rubone

    In principio era il Caos

    La nebulosa si era formata dall’esplosione della supernova. I caldi gas che la costituivano erano tanto finemente mescolati che, dall’interno, essa appariva omogenea. Non vi erano né cielo né terra né acqua, soltanto una mescolanza quasi uniforme di tutti gli elementi, un fango primordiale nel quale non era possibile distinguere alcun movimento né quindi parlare di tempo. Il tempo scorreva tuttavia fuori dalla nebulosa, là dove esistevano soli che definissero sistemi di riferimento. In realtà le cose erano di poco ma significativamente differenti da come le abbiamo raccontate. La nebulosa primordiale possedeva un confine e quel bordo costituiva una rottura dell’omogeneità. E altre piccole disomogeneità erano a malapena apprezzabili: qui un piccolo eccesso, lì un minuscolo difetto di massa. Nel corso di svariati eoni percepibili soltanto dall’esterno, il lavoro incessante della gravità approfondiva e amplificava queste piccole disomogeneità. Dal Caos primigenio segregarono vuoti e pieni, il Cielo e la Terra o Urano e Gea furono chiamati. E questa fu la prima generazione degli Dèi, Quando iniziarono a guardarsi, Urano e Gea si resero conto di essere i soli abitatori della nostra porzione di universo. Non sappiamo se si piacessero o no, ma in ogni caso furono attratti l’uno dall’altra. Questo moto reciproco diede vita a Crono, il Tempo, che iniziò a scorrere più o meno come noi sappiamo. Si dice che un’incudine impiegasse nove giorni per coprire la distanza tra Cielo e Terra. Non sappiamo di quale velocità fosse capace Urano ma, secondo Esiodo, Urano e Gea si congiunsero spesso. Dapprima generarono i sei figli che furono poi noti come i Titàni, Oceano, Iperione, Ceo, Crio, Giapeto e Crono, e le sei figlie dette Titànidi, Teia, Rea, Mnemosine, Febe, Temi e Teti. I Titani e le Titanidi erano giganteschi, ma in tutto e per tutto simili a noi. Urano considerava la sua prole una spiacevole conseguenza della sua libido e impose a Gea di occultare alla sua vista i figli che pur gli aveva generato. Seppur malvolentieri, ella acconsentì. Le cose peggiorarono quando Gea diede alla luce i Ciclòpi, possenti creature con un solo occhio al centro della fronte. Bronte, dal fragore del tuono, Sterope, come il lampo abbagliante che accompagna i fulmini, e Arge, questi i loro nomi. Per volere di Urano furono relegati dentro il vulcano Etna dove impararono a fondere e lavorare i metalli. Infine Gea partorì gli Ecatonchiri o Centimani, Briareo, Cotto e Gige. Alla vista dei cinquanta colli e delle cento braccia di Briareo e dei suoi fratelli, Urano provò sgomento: cosa sarebbe potuto accadere se ognuna di quelle mostruosità avesse brandito cinquanta spade e cinquanta scudi? Gea fu costretta a relegare gli Ecatonchiri nel suo andito più recondito, in quello che fu poi chiamato Tartaro, tanto profondo che un’incudine lasciata precipitare dalla superficie di Gea impiegherebbe nove giorni a raggiungerlo. La madre Terra non era disposta ad accettare il destino dei suoi figli. Così, in gran segreto, chiese ai Ciclòpi di forgiare una grande falce per sé e armi di ferro crudele per i suoi Centimani. Nascose Crono nella sua vagina in modo che questi, alla vista del padre che tornava per accoppiarsi, potesse evirarlo. Dopo il delitto, Crono lanciò lontano la falce con cui aveva mutilato il tristo genitore. Si formò così quello che sarebbe stato poi il porto di Zancle, o Messana. I genitali di Urano cadendo, si unirono all’acqua del mare in prossimità dell’isola di Cipro. Da quella spuma ebbe i natali Afrodite, la dea bella e terribile. Il sangue del Cielo, ricadendo su Gea, ancora generò i Giganti e le leggiadre ninfe Meliadi. Ultime a nascere dal sangue e dal desiderio di vendetta di Urano furono le venerabili Erinni, Aletto, Megera e Tisifone, la cui chioma è costituita da serpenti e la cui furia perseguita urlante quanti compiono crimini efferati. Questa fu la seconda generazione degli Dèi. I Titani e le Titanidi elessero il divo Crono loro re. Egli fu misericordioso con i Ciclòpi che furono liberi di allontanarsi dalle fiamme dell’Etna e tuttavia preferirono rimanere nei paraggi, dove il fuoco del vulcano alimentava le fucine. Non fu altrettanto liberale con gli Ecatonchiri, che invece lasciò nel Tartaro, là dove Urano li aveva confinati. Persino il re degli Dèi temeva quei mostri. La sorte del Cielo non ci è nota, talune fonti asseriscono che molto tempo dopo la castrazione egli si aggirava vagolando per la Terra e insegnava agli Uomini come coltivare i campi e allevare gli animali.
  6. @Gabry Gabry il tuo racconto mi è piaciuto, anche se non so bene il perché, e ho anche imparato un nuovo verbo, "chicchiriare". Sicuramente sai scrivere, ma vorrei saperne di più di questa maledizione.
  7. Potrebbe essere anche una favoletta carina, una rivisitazione del mito di Prometeo, ma consiglio fortemente una revisione. Anzitutto occorre riguardare la punteggiatura. Un esempio: Le virgole dopo "lì" e dopo "lance" non servono, la virgola dopo "sonno" andrebbe invece sostituita da un punto fermo o da due punti, magari togliendo la congiunzione "e". Nello stesso periodo qui citato non mi piace il passaggio dalla terza persona singolare, "colsero i predatori" alla prima, "fummo noi". In molti punti, la scelta delle parole non mi sembra appropriata: Si dice "maggiore di" non "maggiore a". Perché "microscopiche"? Stai parlando di uomini, buche microscopiche non basterebbero a nascondersi. Il passato remoto del verbo smettere in italiano è "smettemmo". L'avverbio "totalmente" mi sembra inutile e lo toglierei.
  8. Grazie @Miki Panc
  9. zio rubone

    Cola Pesce

    https://ultimapagina.net/forum/topic/2641-i-maghi-del-nali/#comment-22261 Nell’estrema punta settentrionale della Sicilia, là dove le acque del Mar Tirreno incontrano quelle dello Ionio, sorge l’antica Lanterna cui si affida chi attraversa le acque malsicure dello Stretto di Messina. La nostra storia si svolge ai piedi di quel Faro, nel mare e tra le povere case dei pescatori del luogo. Ah, quant’è bedda Nunziatina! Nessuna fìmmina del Faro è bella come lei. Don Giovannino la voleva, ma le pettegole dicevano che era mavàra e non se n’era fatto niente. Pure Ntoni, Bastianeddu e Ninài volevano Nunziatina. Lei li guardava dritto negli occhi e diceva «Hai la roba? No? Che ci faccio con un pezzente come te ? Iitinni! [1]». “Ma che mavara e mavara!” pensava Ninài, “Nunziatina cogghi u malocchiu [2] come tutte le altre in paese, lei è fìmmina timorata di Dio, la domenica va a messa e canta nel coro. Ah, l’aveste sentita! La voce di un angelo del paradiso!”. Ostinato come un mulo, Ninài non si era rassegnato al rifiuto di Nunziatina. Con le sue mani costruì un luntru, la barca con la torretta per per avvistare i pesci spada e la passerella a prua per fiocinarli. Mastru Masi gli forgiò u ferru, la fiocina. Il tempo della caccia inizia d’aprile e dura fino a settembre. Cinque vogatori, due a poppa e tre a prora, manovrano i lunghi remi. Arrampicato in cima alla torretta un picciriddu fa’ da vedetta e Bastianeddu tiene il timone. Quando, tra il luccichio del sole e delle acque, distingue il dorso argentato del pesce, u picciriddu fa’ un grido e indica la posizione. Guidati da Ninài e Bastianeddu, i pescatori manovrano veloci e in men che non si dica sono di sopra al pesce. Ninài si sporge sulla passerella e lanza u ferru. Il pesce tira come un dannato, la sagola corre, brucia le mani. La barca rischia di affondare se il pesce si inabissa, o di sfasciarsi se è colpita dalla lunga spada. Ma i pescatori non mollano. Alla fine il pesce si sfianca, lo uccidono a colpi di remo, lo issano sulla barca e gridano “San Marcu è binidittu”. Poi lo segnano, tracciando con le unghie quattro cruci sulle branchie, perché nessuno spirito maligno del mare possa entrare nelle case. Il pescato va spartito tra la barca, l’equipaggio e u mastru ferraru, ma il pescespada si vende bene. Nella cattiva stagione Ninài smonta torretta e passerella e porta a Bagnara il sale di contrabbando. U luntru è leggero e veloce. Due anni di lavoro duro, tanto ci volle a Ninài per comprare gli occhi neri di Nunziatina. Quando escono dalla chiesa, Nunziatina con la mano si ripara i begli occhi abbagliati dalla luce del sole. Ninài è abbagliato dalla luce della sua bella, non vede altro che lei. La porta a casa, fanno l’amore fino a mattina. Sette mesi dopo nasce Cola. Ninài è l’uomo più felice del mondo. «Sulu setti misi, non parirìa», «Tuttu so’ matri. Nenti ni pigghiau du patri», dicono le pettegole in paese. Il piccolo Cola ha gli occhi della madre, neri come tizzoni. I piedi sono strani, con le dita unite da membrane, come quelli delle anatre. «Comu me nonnu», dice Nunziatina. «Non ti preoccupare, Ninài. Terrà sempre le calze ai piedi. Accussì i cristiani non mummurìanu [3]». Ninài è sempre felice, suo figlio è il bimbo più bello di Faro e cresce sano. Tre mesi dopo, Nunziatina dice: «Portiamo a mare u picciriddu». Ninài protesta: «Ma ancora non cammina…» «Il mare gli piacerà, come a suo padre». In acqua il bambino mostra tutta la sua gioia, ride, strilla, spruzza… Cola impara a nuotare prima ancora che a camminare. «Pari un pisci», dice orgoglioso Ninài. «Vedrai», fa’ Nunziatina, «sarà un lanzatùri bravo come suo padre». Passa il tempo e Cola ha dodici anni. In barca con Ninài, sta sulla torretta, nessuno come lui avvista tanti pesci spada. Ninài è felice e compra a Nunziatina quell’anello d’oro che lei desidera tanto. Quando non è sul luntru, Cola gioca con gli altri picciotti del Faro: Turiddu, Pascalinu e Ntonieddu. Nelle gare di nuoto è imbattibile, nelle corse a terra è impacciato da quegli strani piedi che tiene sempre coperti, come vuole sua madre. Sott’acqua Cola è insuperabile: prende il fiato e scende giù verso il fondo. Pesca a mani nude polpi e ostriche, tiene con sé un coltello legato a un ramo di pino e con quello infilza ricciòle e cernie. Cola non soltanto è bravo: è pure buono e generoso, tutti gli sono amici. È inverno, il maestrale soffia freddo e impetuoso. Ninài è partito per portare il sale a Bagnara. Sa che i gendarmi non potranno mai raggiungere il suo luntru. Con quel vento, sicuramente finirebbero contro gli scogli. Cola è al Faro, gioca con gli altri picciotti. Nunziatina, sola in casa, ricama. All’ora di cena, quando torna a casa, Cola sente odore di mare, vede piccole pozze di acqua salmastra. «Mammà, di unni vinni tutta st’acqua?», domanda. Mentre pronuncia queste parole intravede un uomo alto e robusto, con le dita dei piedi palmate e strani segni sul collo. «Cola, chistu è to patri!». Cola, sorpreso, fugge, si tuffa nel mare in tempesta. «Cola!, Cola!», chiama Nunziatina. «Cola!, Cola!». Cola continua a nuotare, sempre più al largo. «Cola!, Chi mi hai malanova! Se non veni, ha essiri pisci, comu to patri!». Solo dopo molti giorni Cola torna alla Lanterna, nello specchio d’acqua sotto il Faro per incontrare i picciotti. Turiddu, Pascalinu e Ntonieddu gli dicono: «Cola! Un pisci diventasti, ti crisceru li branchi!». Cola non vuole più vedere Ninài né Nunziatina. Spesso però torna alla Lanterna, per i suoi amici. “Cola Pisci” lo chiamavano al Faro, sempre sottovoce, sempre lontano dalla chiesa e dai parrìni, quasi si vergognassero di conoscere quel ragazzo che ha branchie non segnate. Quando Pascalinu eredita la barchetta di suo padre, Cola lo segue nuotando veloce come un siluro. Con le mani e con il coltello cattura pesci e li dona all’amico: «Mi raccomando, porticcilli puru a Ntonieddu e a Turiddu!». Un giorno, la barchetta di Pascalinu inizia a roteare in uno di quei mulinelli che spesso si formano presso al Faro, anche quando è sereno. Gli antichi dicevano che fossero Scilla e Cariddi, i due mostri immani che sputavano acqua dalle fauci spalancate. Pascalinu, incapace di governare, chiama: «Cola! Cola Pisci! Aiuto!». Cola arriva subito, afferra la chiglia con le mani e trae l’amico e la sua barca fuori da quella danza mortale. Le voci corrono. Ormai sulle due rive dello Stretto non si parla d’altro che di quel ragazzo, mezzo uomo e mezzo pesce, che nuota più veloce dei pesci spada e si immerge più profondamente dei pesci San Pietro. Ai tempi della nostra storia, ogni primavera il Re di Sicilia si reca in nave da Palermo a Messina con tutta la sua Corte. Passa dal Faro e viene a sapere di Cola Pesce. Lo fa chiamare e salire sulla nave. Salpano e raggiungono il mare aperto. Il Re prende un anello di grande valore, tutto d’oro, tempestato di rubini e diamanti, e lo getta in acqua: «Prendilo e sarà tuo». Cola si tuffa. Troppo tempo è passato. Nelle barchette che fanno codazzo alla nave del Re, i pescatori sono sgomenti. Troppo fondo perché un uomo possa sperare di tornare in superficie. I cortigiani non sono sorpresi e sogghignano, avvezzi come sono alle crudeli bizzarrie del monarca. Quando ormai nessuno se lo aspetta, Cola riemerge con l’anello in mano. «Cos’hai visto là sotto?». «Fuoco e acqua, Maestà. Non si vedeva bene, c’era troppo fumo». «Voglio sapere se ci sono pericoli per il mio regno. Torna più a fondo e riferisci. Se avrai successo ti nominerò mio Grande Ammiraglio». Cola si immerge di nuovo. Questa volta passa molto tempo e persino i suoi amici che sanno delle branchie si disperano. Quando il Re aveva già dato ordine di tornare a riva, la vedetta grida: «Cola Pisci!» E il Re: «Cosa c’è là sotto. Dimmi tutto, Cola». «Il fuoco dell’Etna fa bollire l’acqua, Sire. La Sicilia poggia su tre colonne, Capo Passero, Capo Boeo e Capo Peloro. Quest’ultima è stata erosa dai vapori bollenti. Sono sceso fino al fondo dello Stretto e ho visto che è incrinata». «Adesso sei il mio Grande Ammiraglio, Cola Pesce. È tuo dovere difendere il Regno da ogni pericolo che viene dal mare. Torna in fondo e puntella quella colonna con il ferro, dovesse anche costarti la vita. Se riuscirai sarai il mio Vicerè». Cola si tuffa di nuovo, con una gran trave di ferro in mano. L’attesero due giorni interi, invano. Il terzo giorno la nave del Re riparte, diretta a Messina. Alcuni dicono che, come un novello Atlante, Cola rimase giù sul fondo a reggere la colonna incrinata. Altri sostengono che in fondo al mare Cola abbia incontrato suo padre, Tritone, e che questi gli avrebbe detto: «Che fai? La Sicilia non è minacciata dalle fiamme dell’Etna. Il pericolo vero sono i despoti rapaci, quelli come il tuo Re e come quelli che verranno dopo di lui, pretendendo di ricoprire tutto di ferro e di cemento. Rimani con me, piuttosto, e con le mie sirene». [1] Iitinni: Vattene [2] cogghi u malocchiu: esegue un rituale di magia bianca popolare per verificare se c’è stato malocchio e, in tal caso, toglierlo. [3] mummurìanu: mormorano, spettegolano.
  10. zio rubone

    I maghi del Nali

    Non saprei dirti, @Giovanna23, se il fantasy sia o meno nelle tue corde. La storia c'è, divertono gli indovinelli (anche se nel primo credo manchi qualche dettaglio). L'impressione che ricevo è che vi siano un po' troppi dettagli, troppi nomi, e che la narrazione dovrebbe essere un po' estesa per non lasciare il lettore col fiatone. Non mi piace l'uso di parole di swamp in inglese, anche questo affatica il lettore. Un'ultima cosa sul finale. Mi sta benissimo scoprire alla fine che la leader degli Inkanutri si fosse messa d'accordo con il nemico. Il pentimento e l'avvelenamento finale però non si capisce. Piuttosto la farei scannare da uno dei suoi Inkanutri.
  11. A proposito di distopia, mi viene in mente un racconto distopico, meglio ucronico, per altro ambientato nella Cina comunista, che scrissi qualche tempo fa. Se ti va, commentalo.
  12. Allora leggilo 1984, è piuttosto breve e ne vale la pena. Anche il film merita di essere visto. Un'altra cosa. Leggendo avevo pensato che "pravost" fosse russo (ricordo "pravda" che vuol dire verità in russo). Ho poi scoperto invece che "pravost" è ceco e significa autentico, veritiero. A questo punto sono curioso di saperne di più.
  13. Alcuni dicono che bisogna evitare gli aggettivi e soprattutto più aggettivi connessi allo stesso sostantivo. Io credo che ci voglia un po' di attenzione: scegliere bene, scegliere quelli che aggiungono qualcosa. Altrimenti, piuttosto, gli aggettivi sottrarranno l'attenzione del lettore. L' "a" non ci vuole. Piuttosto scriverei "Procederemo col chiarire la linea del partito riguardo ad alcuni recenti moti antipopolari ". Le frasi più brevi risultano più incisive. "Tramite la sua assenza" non aggiunge nulla che già non si sappia. "Non facoltativo" si scrive senza trattino. Ti concedo il "fortemente" soltanto perché il linguaggio dell'altoparlante è verosimilmente burocratico. Probabilmente hai in mente qualcosa di simile al 1984 di Orwell. L'ambientazione di questa scena mi piace, sull'uso del linguaggio credo che tu debba riflettere di più. E' un frammento di un progetto più grosso o solo un esercizio?
  14. zio rubone

    Salve

    Benvenuto tra noi, @Miki Panc. La letteratura epica è una passione che condividiamo e così è anche per Lovecraft. Leggi, leggi e poi leggi ancora: questa è la chiave per migliorarsi. E, anche se qualcuno qui non condividerebbe, leggi i maestri, Poe, Hemingway, Calvino, piuttosto che gli orribili manualetti di "scrittura creativa". Ho visto che hai postato un tuo racconto. Ora vado a leggerlo.
  15. zio rubone

    Mi presento

    Piacere di conoscerti @LuisaRigamonti. Penso che ti troverai bene sul forum, Anch0io sono un appassionato lettore di romanzi. A rileggerci
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